I Figli Di Papà

Ci deve essere un elemento comune nel fatto incontestabile che a capo, o comunque in posizione apicale, di strutture audiovisive nazionali ci siano i figli di personalità politiche o istituzionali di grande importanza.

Qual è questo elemento comune?

Le ipotesi sono molteplici, e vanno da quelle molto negative a quelle leggermente positive: partiamo dalle prime. Sembrerebbe connaturato con l’animus di “padre” quello che il figlio possa vivere comodamente in un ambiente di generica leggerezza come lo spettacolo, piuttosto che inserito in un mondo di lupi, di trappole e di lavoro a testa bassa. In questa versione il figlio è un elemento passivo, di non particolare acume né di grande personalità, che viene di conseguenza “ricoverato” laddove la concorrenza è di facile aggiramento e il lavoro di nessuna sostanza pratica, e detto diversamente, dove sbagliare non porta ad alcuna conseguenza.

Altra ipotesi è quella che per una persona illustre è molto più facile spedire il figlio in RAI o in una televisione piuttosto che farlo diventare professore universitario, in quanto nel primo caso non serve una preparazione specifica, mentre nel secondo qualcosa bisogna pur saper scrivere. La televisione è una grande chioccia che accoglie nel suo tepore ogni genere di mentalità ed ogni forma di ignoranza, perché anche quest’ultima può essere utile per capire cosa gradiscono gli ignoranti.

In televisione non si butta nulla, né la buccia né la polpa, esistono strade aperte, strade tortuose, angoletti riparati, soste invisibili, piazzole di scambio, il tutto condito da retorica, creatività, belle donne e begli attori, occasioni vacanziere, mancanza di controllo ed altro.

Chi si accorge se un dirigente televisivo non va a lavorare? Nessuno, e nessuno come un dirigente televisivo può curarsi il raffreddore a casa per una settimana. Solo un dirigente RAI ha il potere di disdire l’appuntamento un’ora dopo la sua scadenza senza che il povero interlocutore vada a bastonarlo, e di fissarne uno nuovo a un mese, dopo il festival del caso e l’ennesimo viaggio di fondamentale importanza.

C’è poi, al di sotto, l’elemento “risultato”: se in un lavoro normale sbagliare vuol dire creare danni ed averne nocumento, in televisione ciò non avviene, si possono confezionare le peggiori pecionate, si può distruggere una intera programmazione che la colpa non è mai del dirigente, ma del caso, dell’ambiente, della concorrenza, del tempo e persino dell’eccesso di bravura.

Ipotesi leggermente positiva è invece quella che il personaggio illustre abbia notato che suo figlio fin da bambino aveva tendenze artistiche, era un visionario, aveva allucinazioni nelle quali Pippo Baudo era un mago dotato di poteri soprannaturali e la De Filippi la strega cattiva. In questo caso il lavoro nella fiction o nei cartoni animati può essere sembrato al genitore potente connaturato con le predisposizioni del pargolo, al punto da piazzarlo prima possibile nell’ambito che gli è congeniale.

Resta il fatto da cui abbiamo iniziato la nostra breve riflessione, e cioè che le persone normali, che hanno figli normali, sperano che costoro divengano notai o dottori, o semplicemente che trovino un lavoro, mentre i politici e i potenti, che hanno figli privilegiati, prenotano immediatamente per loro un posto televisivo, tanto – soprattutto dopo il contratto a Fazio – tutto è possibile.

 

Michele Lo foco

Ammore e malavita

Ammore e malavita è il settimo lungometraggio per il cinema diretto dai Manetti bros., registi e produttori attivi da diversi anni, con una lunga militanza nel videoclip e attivi in tv con la serie dell’Ispettore Coliandro dal 2006.

I registi romani, ammaliati dall’esperienza del precedente Song’e Napule (2013) tornano nella metropoli partenopea e rispolverano un genere caro al popolo napoletano: la sceneggiata al cinema, già vivissima negli anni Venti con la mitica Miramare film (circa 100 film all’attivo) e di nuovo in auge – dopo qualche anno di oblio – negli anni Settanta e Ottanta con i film di Mario Merola, il “re della sceneggiata” fino alle commistioni col poliziottesco, da Lacrime napulitane a Napoli… serenata calibro nove. Ma sarebbe ingeneroso ridurre Ammore e malavita a una mera rivisitazione della sceneggiata; molteplici sono le influenze che permeano il film, la cui idea nasce forse dal successo di La La Land (2016): dalla cromaticità bolliwodiana a echi del nostrano musicarello fino a citazioni esplicite sparse, dal tramacitato Agente 007- si vive solo due volte a Matrix a La parete di fango a Jackie Brown fino a Getaway. Inoltre c’è un discorso parodistico su Gomorra, non il film di Matteo Garrone (in Ammore e malavita c’è un cameo di Ciro Petrone) ma la serie che più ha influenzato e re-innescato il cinema napoletano: una delle scene iniziali è stata girata alle famigerate vele di Scampia, location ormai stravista e simbolica della serie targata Cattleya. Ma i Manetti scelgono di mettere in scanzonata parodia musicale una realtà vista sempre come topos criminale.

La storia rivede in chiave pop lo schema classico della sceneggiata essa, isso e o’malamente, e mette in scena un improbabile boss re delle cozze Mattia Pascal suo malgrado (Carlo Buccirosso, strepitoso quando canta nella bara ma meno in forma di altre volte), una sguaiata femme fatale a là Crudelia Demon (brava Claudia Gerini anche se toppa qualche accento napoletano, al cui personaggio follemente cinefilo è dedicata una “biblioteca di Kurtz” fatta di dvd del calibro di Grease, Chocolat, Notting Hill, Il diario di Bridget Jones…), un ammazzasette buono, a metà tra Rambo e un eroe marveliano (Paolo Morelli, fallen angel e attore feticcio dei Manetti) con latente rapporto omosessuale col suo gemello vendicatore (Raiz, voce degli Almamegretta), una brava guagliona (la solare Serena Rossi) che risolve la storia a là Jackie Brown e un bel gruppo di caratteristi e cantanti napoletani tra cui Antonino Iuorio avvocato latinista, Franco Ricciardi e il grande Pino Mauro. La trama è complicata dall’eroe positivo che rincontra, per ucciderla, l’amore della sua adolescenza ma…, fino a un movimentato redde rationem con sorprendente twist finale. Ognuno dei personaggi ha una parte cantata e coreografata, il film dura ben 133’ ed è un minutaggio temerario. Ma la noia non affiora, le situazioni divertenti sono funzionali alla narrazione, e bisogna riconoscere il valore di ripercorrere un cinema italiano di genere dal passato glorioso, ormai fagocitato – tranne qualche bel tentativo come la trilogia di Smetto quando voglio – da commediacce pseudosociologiche e velleità autoriali senza speranza.

Gaetano Gentile