«Sorgi, vendicatore, dalle mie ossa»: la Trilogiadella vendetta
«I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)».
Un classico, secondo Calvio, «non smette mai di parlarci», di essere attuale, di espandere il proprio epicentro estetico sulle opere successive.
La Trilogia della vendetta è un classico. Le tre pellicole di Park Chan-wook – Sympathy for Mr. Vengeance (2002), Old Boy (2003) e Sympathy for Lady Vengeance (2005) –, infatti, hanno avuto (e continuano ad avere) un’influenza tale da aver plasmato l’immaginario di molto cinema contemporaneo; non solo quello asiatico – i lungometraggi di Kim Jee-woon: I Saw the Devil (2010) o Two Sisters (2004) –, ma anche quello americano: da Tarantino – che nel 2004, da presidente della giuria del Festival di Cannes, non solo insignì Old Boy con il Grand Prix ma lo consacrò dichiarando come quello fosse «il film che avrebbe sempre voluto fare» – da Quentin, insomma, fino ad un “grande vecchio” della cinematografia a stelle e strisce come William Friedkin, che in Bug (2006) cita esplicitante (ambientazioni, personaggi, suggestioni visive) i lavori del regista sudcoreano.

La Trilogia infrange il modello tradizionale del vengeance movie. Grazie al suo stile barocco, ad una perizia certosina nella composizione dell’inquadratura, ad una fotografia raggelata e tagliente, Park Chan-wook trasforma il B-movie in opera d’arte. Non solo, rispetto al rape and revenge, il cineasta di Seul sfrutta la violenza come strumento di ricerca, lente critica, sonda esplorativa di un processo psicologico complesso.
È possibile riparare ad un torto subito? Espiare e redimersi mediante la tortura e l’omicidio? Questi sono gli interrogativi che serpeggiano nella Trilogia; racconti di (de)formazione nei quali i protagonisti sono schiacciati dalla colpa, da un errore fatale che, con la vendetta, tentano (inutilmente) di cancellare.
“Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo”: la rache«senza senso»
Per salvare la sorella malata, Ryu, un ragazzo sordomuto, vende un rene a dei trafficanti d’organi, ma viene raggirato. Senza soldi, è convinto dalla fidanzata a rapire la figlia del capo (da cui è stato appena licenziato). Quando il padre decide di pagare il riscatto, la bambina muore tragicamente.
In Sympathy for Mr. Vengeance la τιμωρία scaturisce dall’impossibilità di perdonare dei personaggi
– il padre, poco prima di affogarlo, confesserà a Ryu: «Sei un bravo ragazzo, ma devo ucciderti perché non posso perdonarti». Una vendetta silenziosa, muta come il suo protagonista, rappresentata nella duplice veste di giustizia privata – il regolamento dei conti di Park Dong-jin e Ryu – e sociale – l’eliminazione dell’organizzazione criminale.
È una storia senza redenzione, però. La vengeance, istintiva – quasi involontaria, come un sistema endogeno di autodifesa –, non lenisce il dolore, ma al contrario fa riemergere un passato da dimenticare, che si piega su sé stesso precipitando sui personaggi – il suicidio della sorella di Ryu. Non solo, in Mr. Vengeancela vendetta diventa foriera di morte: i vendicatori, infatti, saranno assassinati dai “fantasmi” di coloro sui quali si sono vendicati – il padre accoltellato dai terroristi anti-capitalismo.

Una sera d’autunno, Dae-su, sposato e con figli, viene arrestato dalla polizia per ubriachezza molesta. Rilasciato, scompare nel nulla, risvegliandosi in una squallida stanza d’albergo dove è tenuto prigioniero per quindici anni. Liberato senza apparente motivo, inizia la caccia al suo aguzzino.
È di nuovo la vedetta l’ingranaggio che muove il meccanismo della pellicola, ed è lo stesso Park Chan-wook ad ammetterlo:
«E’ un tema [quello della vendetta] che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso, la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l’azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell’azione, con il dispendio di molte energie, è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico».

In Old Boy la vedetta matura negli anni, macera nell’odio e nello sconforto di una prigionia insensata. L’impulso vendicativo diviene ragionamento, strategia architettata in un tempo apparentemente infinito (l’allenamento fisico del protagonista). La particolarità del film, però, è quella d’invertire la prospettiva del revenge movie: non è il prigioniero a vendicarsi – scoprirà solamente i motivi dell’isolamento forzato – ma il suo carnefice (Lee Woo-jin).
La vengeancenon procura piacere, «non ha alcun senso» perché lega chi la compie ad un passato da cancellare: quello di due uomini trafitti dal dolore, che individuano (sbagliando) nella violenza uno strumento di redenzione. La purificazione dal peccato (l’incesto tra padre e figlia e tra fratello e sorella), però, è impossibile, e se Dae-su sembra riuscire ad espiare la propria colpa è solo grazie all’artificio dell’uomo (l’ipnosi).
Alessio Romagnoli