Se è morto Carlo Vanzina, vuol dire che la morte esiste e vaga tra di noi.
Un famoso filosofo così descrisse: noi siamo come un gregge di pecore che brucano tranquillamente l’erba mentre il contadino sceglie quale sacrificare.
Il mondo è pieno di gente che muore, solo ieri in Giappone cento persone per le piogge, in Canada settanta per il caldo, ma ci accorgiamo del contadino solo quando muore qualcuno che riteniamo immortale, costitutivo, insostituibile.

Mi ricordo che un signore che aveva paura dell’aereo, un giorno mi disse che salendo aveva visto che tra i passeggeri c’era Pippo Baudo, e la paura gli passò. Ovviamente Baudo non poteva morire.
Ecco, Vanzina non sembrava poter morire, dopo aver caratterizzato con i suoi film un’epoca, una moda, una categoria, una gioventù, una storia.
Era al di là del cinema e del valore dei suoi film, era un marchio, un brand, un modo d’essere, a suo modo un maestro ed un creativo, un inventore certamente.

Ha inventato facce, gambe, sederi, e modi espressivi caricaturali dipinti nei film come facevano i pittori espressionisti, per accentuare le caratteristiche fisiche e mentali e semplificare giudizi e commenti.
I suoi erano cartoni animati, delicati e macchiettistici, senza cattiveria, ritratti di cialtroni italici succubi delle donne e pronti a qualunque ignominia pur di apparire: lo specchio di un’Italia che cresceva disordinatamente senza dignità ma con tanta voglia di divertirsi e di lasciare alle spalle la tragedia della guerra.

Con Carlo muore un po’ di quella spensieratezza di cui oggi avremmo ancora bisogno.
Michele Lo Foco