MUTINY IN HEAVEN | THE BIRTHDAY PARTY. NICK CAVE LA PRIMA FILA NON È PER I FRAGILI

Arriva al cinema solo il 2, 3 e 4 dicembre MUTINY IN HEAVEN | THE BIRTHDAY PARTY. NICK CAVE – LA PRIMA FILA NON È PER I FRAGILI

Diretto da Ian White e prodotto da Wim Wenders, il film è stato presentato in anteprima al Seeyousound International Music Film Festival di Torino.

Utilizzando interviste esclusive e incredibilmente schiette a Nick Cave e compagni, un ricco repertorio di immagini d’archivio rare e inedite, opere d’arte, brani musicali, filmati in studio, animazioni e contenuti multimediali con oltre 1.000 pezzi d’archivio recentemente ritrovati, tra lettere, diari, cartoline, fotografie, ritagli di giornale, manifesti, volantini, corrispondenza personale e scalette, che offrono al pubblico uno sguardo inedito sulla band, sulle sue incredibili performance e sulla sua spettacolare e caotica carriera.

“MUTINY IN HEAVEN | THE BIRTHDAY PARTY. NICK CAVE” è un docufilm che tenta di catturare l’essenza selvaggia e ribelle di The Birthday Party e del loro enigmatico leader, Nick Cave. Tuttavia, il film sembra perdersi nella sua stessa ambizione. Pur offrendo un’intrigante panoramica del gruppo, il docufilm soffre di una narrazione spesso caotica e disorganizzata, che rischia di confondere lo spettatore più che coinvolgerlo.

Le immagini d’archivio, pur essendo preziose, a volte vengono utilizzate senza un chiaro filo conduttore, lasciando la sensazione di un collage disordinato più che di una storia coerente. Inoltre, mentre il film tenta di mettere in luce la personalità magnetica di Nick Cave, spesso si avverte una mancanza di profondità nel trattare le dinamiche interne della band e le sfide che hanno affrontato.

Il ritmo del docufilm è un altro punto debole: troppo veloce in alcuni momenti, con dettagli importanti che vengono accennati senza essere adeguatamente esplorati, e troppo lento in altri, con scene che sembrano trascinarsi senza un chiaro scopo. Questa discontinuità ritmica può rendere difficile mantenere l’attenzione del pubblico.

Infine, sebbene il titolo prometta un’esperienza intensa e tumultuosa, “MUTINY IN HEAVEN” non riesce sempre a mantenere questa promessa, offrendo a tratti una visione più patinata che autenticamente cruda e ribelle.

Per gli appassionati della band e di Nick Cave, il film rappresenta comunque un’occasione per vedere materiale raro e ascoltare racconti interessanti, ma per chi cerca un’analisi più profonda e ben strutturata, potrebbe risultare una delusione.

trailer

Giovanni De Santis

50 Anni di Magia con L’Ape Maya

BUON COMPLEANNO MAIA! 🐝🌼

 

Quest’anno celebriamo un importante traguardo: il 50º anniversario de “L’Ape Maya”, un personaggio che ha conquistato il cuore di generazioni di bambini e adulti in tutto il mondo. Creata dall’autore tedesco Waldemar Bonsels nel 1912 e trasposta in una serie televisiva di successo nel 1975, l’Ape Maya continua a vivere nei nostri cuori con le sue avventure e i suoi insegnamenti.

Un Viaggio nel Tempo Dal suo debutto, Maya è diventata un simbolo di curiosità, coraggio e amicizia. Le sue avventure ci hanno insegnato l’importanza di esplorare il mondo con occhi curiosi, di affrontare le sfide con determinazione e di valorizzare le amicizie sincere.

Un’Icona Culturale In 50 anni, “L’Ape Maya” ha attraversato le epoche, adattandosi ai cambiamenti culturali e tecnologici. La serie originale ha incantato i bambini degli anni ’70 e ’80 con la sua animazione e le sue storie coinvolgenti. Negli anni successivi, Maya è stata riproposta con nuove serie animate e film, mantenendo sempre intatto il suo spirito.

Gli Insegnamenti di Maya L’Ape Maya ci ha insegnato tanto attraverso le sue avventure:

  • Curiosità: Maya ci mostra che esplorare il mondo con curiosità può portarci a scoperte meravigliose.
  • Coraggio: Le sfide non la spaventano, e ci ispira a essere coraggiosi di fronte alle difficoltà.
  • Amicizia: Valorizza l’importanza dell’amicizia e della collaborazione.

Eventi Celebrativi Per commemorare questo speciale anniversario, sono previsti numerosi eventi in tutto il mondo, tra cui:

  • Mostre: Esposizioni dedicate alla storia e all’evoluzione del personaggio.
  • Proiezioni Speciali: Maratone delle serie e dei film de “L’Ape Maya” in cinema e canali televisivi.
  • Merchandising: Nuove collezioni di giocattoli, libri e gadget per celebrare Maya.

Guardando al Futuro Mentre celebriamo questi 50 anni, guardiamo anche al futuro con speranza e entusiasmo. L’Ape Maya continuerà a ispirare nuove generazioni con le sue avventure e i suoi valori senza tempo. Che i prossimi 50 anni siano altrettanto ricchi di magia e meraviglia!

Giovanni De Santis

Repetita iuvant

Mi sono dedicato, in altra sede e tempo addietro, a descrivere l’evoluzione e all’involuzione di Cinecittà, struttura teatrale che occupa un posto di rilievo nell’ambito del settore cinematografico. Purtroppo vedo, recepiscono, che le mie analisi non hanno sortito l’effetto sperato, e pertanto torno sull’argomento, con la licenza che mi è concessa dall’essere stato per ben due volte nel Consiglio di Amministrazione della struttura in tempi e con modalità realmente differenti.

Come noto, durante la gestione rutelliana della cultura e con il robocop Blandini amministratore di Cinecittà, l’azienda teatri di posa fu ceduta ad Abete, che in quel momento coltivava la fallimentare ipotesi di un monopolio dei teatri, con Terni e Pomezia, al grido di “basta con i baracconi di Stato, arrivano i privati”.
Non fu esattamente una passeggiata di salute  quella di Abete, e la struttura invece di rinascere con il privato, lentamente, ma non troppo, deperì per assenza di manutenzioni e di lavoro, accumulando milioni di euro di perdite, in parte dovute all’eccesso di personale.
Giunse però all’orizzonte l’ipotesi PNRR, e ogni Ministro, nel frattempo era Franceschini il nuovo gestore della cultura, cercò di formulare richieste giustificabili per ottenere denaro.
Il Ministro della Cultura, come si chiama ora, non aveva certamente strutture che giustificassero esborsi consistenti PNRR, e Cinecittà apparve, agli occhi superficiali di valutatori, l’unico complesso dotato di terra e di pareti sul quale costruire ipotesi industriali e commerciali. Pertanto fu necessario riacquistare di corsa l’azienda teatrale e impapocchiare una sorta di programma di sviluppo che giustificasse l’intervento internazionale.
Ad Abete non sembrò vero poter sbolognare di nuovo allo Stato una struttura indebitata e arrugginita, che da anni non pagava quanto dovuto alla casa madre, al grido di “finalmente Cinecittà torna in mano pubblica”, e si affrettò a cederla dietro lauto compenso, evitando di sottolineare che in più c’erano debiti fiscali di tali proporzioni da impedire che la società avesse un DURC regolare. Furono pertanto pagati anche i debiti fiscali, per presentare un oggetto industriale con un minimo di dignità.
Per gonfiare le prospettive fu addirittura annunciato che Cinecittà si sarebbe allargata in un terreno limitrofo acquistato dalla Cassa Depositi e Prestiti, ingigantendo la sua capacità di ospitare.
Tutto ciò ovviamente non si è verificato, in quanto il terreno non era limitrofo, il PNRR non prevedeva quel tipo di investimento e l’immobile non si prestava all’uso.
L’operazione era comunque decollata, e fu assunto come manager per consolidare il ruolo istituzionale del progetto Nicola Meccanico, che lasciava analogo ruolo in Vision, società di distribuzione cinematografica eterodiretta dall’estero, anch’essa già pesantemente indebitata.
Ma in questi movimenti strategici e politici i debiti sono un fattore trascurabile.
Maccanico cavalcò l’onda mediatica diventando in breve l’amministratore delegato più lodato del settore, nonostante la sua prima decisione fosse stata quella di affittare gran parte dell’azienda alla società straniera per la quale aveva lavorato per anni.
In realtà il programma industriale PNRR prefigurava un utilizzo dei teatri a mio parere già allora antistorico e vetusto, ampiamente superato dagli studios americani che da anni avevano rinunciato ad ingrandire gli spazi a fronte di investimenti nella tecnologia degli effetti speciali e della produzione di serie.
Nulla però impedì che i media, opportunamente sollecitati, esaltassero il ruolo dei teatri, inneggiando al fatturato miracoloso e alla corsa dei produttori ad occupare i capannoni.
Tra questi ha primeggiato ovviamente Freemantle che ha utilizzato gli spazi, in comunione d’intenti con le società del gruppo, continuando ad utilizzare a dismisura il Tax Credit generoso e incontrollato concesso dallo Stato italiano.
Come però è facilmente comprensibile, quando la mano pubblica interviene in modo incongruo nella gestione dei meccanismi lavorativi, il mercato ne risente non essendo mosso da istanze sane e naturali, e crea quella che viene definita “bolla”, cioè una artificiosa gonfiatura destinata nel tempo a sgonfiarsi se non ad esplodere. L’utilizzo abnorme del Tax Credit, applicato a film dal costo inventato  e alle produzioni televisive, che ha dilapidato le sostanze del Mic costringendolo a non erogare più nulla a nessuno per un anno, ha riverberato i suoi effetti anche su Cinecittà, che non avendo particolari armi proprie, ma basando il proprio fascino prevalentemente sulle concessioni statali, ha cominciato a perdere  clienti e fatturato al punto tale da costringere i vertici ad una nuova e forse più sana politica aziendale, anche in quanto sono venute a galla strane fatturazioni utilizzate per modificare i bilanci, che è speranza non siano prova di un metodo.
Se lo Stato decidesse di promuovere la vendita della nuova Panda accollandosi il 50% del prezzo, l’automobile diventerebbe la più venduta al mondo in breve tempo: ma questo fatto non migliorerebbe la valutazione tecnica dell’auto né salverebbe l’industria nazionale, mentre i fondi pubblici finirebbero nelle mani di chi non ne ha bisogno.
Così il cinema e così Cinecittà, che non ha bisogno di ulteriore Tax credit, ma di una iniezione di strategia per uscire dal pantano statale e rivivere in un settore riportato alla qualità e al mercato.

Michele Lo Foco

My Best, Your Least

Regia di Kim Hyun-jung.
Genere: Drammatico
Durata: 111′

My Best, Your Least - Posters — The Movie Database (TMDB)Hee-Yeon è un’insegnante di liceo, seria e stimata. La sua vita sembra scorrere serenamente, ma due problemi turbano la sua quotidianità: la ristrutturazione della casa e l’infertilità che affronta con determinazione.
La notizia che una sua allieva, Yu-mi, è rimasta incinta, piomba nel Collegio docenti sollevando una ridda di reazioni diverse.
La soluzione che si presenta più semplice è tenere nascosta questa gravidanza per tenere alti il prestigio della Scuola e la formazione educativa delle studentesse, quindi convincere Yu-mi a ritirarsi volontariamente per non dover ricorrere all’espulsione.
La stessa Hee-yeon caldeggia questa proposta.
Yu-mi cerca in tutti i modi di opporsi a questa ingiunzione ma Hee-yeon, travolta dai suoi problemi personali, senza pietà, la forza ad andarsene.
Quando però Hee-yeon resta lei stessa incinta, tutto cambia…

Alcune considerazioni, amare, questo film le provoca.
Fondamentalmente l’ipocrisia di un sistema inadeguato che emargina piuttosto che fornire i mezzi necessari per aiutare chi è in difficoltà, che punisce piuttosto che comprendere e bada a mantenere intatta l’apparenza piuttosto che lavorare sulla sostanza da formare.
Comunque arriveranno anche complicità e solidarietà ma da parte delle giovani generazioni.
Un auspicio di cambiamento sociale?

Pia

GRAND TOUR

Regia: Miguel Gomes
Genere: commedia, drammatico
Durata: 128′
Con: Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate, Cláudio da Silva, Lang-Khê Tran, Jorge Andrade, João Pedro Vaz

Vincitore del Premio per la migliore regia all’ultimo Festival di Cannes e designato portoghese per la corsa all’Oscar, arriva nelle sale dal 5 dicembre, distribuito da Lucky RedGRAND TOUR, il nuovo film di uno degli autori più originali del cinema contemporaneo, Miguel Gomes.

Birmania, 1918. Un funzionario dell’allora Impero Britannico sta per sposarsi con la fidanzata Molly ma, quando si avvicina la data e lei sta per raggiungerlo a Rangoon, Edward in preda al panico scappa e incomincia un viaggio in Asia tra Vietnam, Thailandia, Singapore, Cina e Giappone. Con l’intento di rifarsi una vita e conoscere meglio la cultura delle città in cui si sposta, in realtà Edward piano piano farà i conti con la malinconia e i sensi di colpa. Nel frattempo Molly, invece di arrendersi al rifiuto del fidanzato, lo insegue stranamente divertita, indovinando i suoi spostamenti e affrontando anche lei un viaggio immenso e ricco di avventure.

Grand Tour si muove continuamente tra commedia, dramma e documentario, offrendo uno spettacolo a 360° sul mondo e la cultura asiatiche viste dagli occhi occidentali. L’ambientazione nei prima anni del Novecento non la rende però un’opera rappresentativa solo di quel periodo storico ma anzi rimanda spesso al presente, facendo continuamente salti temporali, forse per sottolineare le radici profonde della cultura orientale e i primi passi del turismo come lo conosciamo ora.

Un viaggio di formazione tra luoghi e persone raccontato da una narratrice esterna che rende il film un’opera quasi onirica, affascinante, divertente in certi momenti ma anche profondamente malinconica.

Sicuramente interessante, che probabilmente andrebbe rivista una seconda volta per cogliere le tante sfumature di un film che collega Occidente e Oriente, realtà e finzione, anche se il ritmo del racconto è a tratti un po’ lento.

 

 

 

 

Francesca De Santis

L’Aiguille (al Ibra)

42TFF. In concorso

Paese: Tunisia

Regista: Abdelhamid Bouchnak

Anno: 2023

Durata: 116 m

Genere: drammatico

Attori: Bilel Slatnia, Fatma Sfar, Jamel Madani, Sabah Bouzouita

Una giovane coppia tunisina si trova di fronte a una decisione cruciale dopo la nascita del proprio bambino “intersessuale“. I due hanno tre soli giorni per decidere il sesso del/della neonato/neonata e dell’operazione chirurgica da eseguire di conseguenza.

Risultato immagine per film L’Aiguille (al Ibra) 2024

Il film è decisamente interessante. Non è solo un film sulla posizione maschilista di uno o più personaggi all’interno della storia. È la dimostrazione di come una società profondamente maschilista in campo politico, giuridico, sociale e religioso porti a delle scelte “personali”, apparentemente “avanzate”. Svelare il contenuto della scelta nel caso del film in questione ci porterebbe a spoilerare il finale, una straordinaria chiusura che, con bravura notevole degna di un thriller, la regia rimanda all’opinione dello spettatore.

Bravi tutti gli interpreti. Tesa la narrazione che lascia ben poco allo stereotipo del déjà vu di molti film con tematiche sul maschilismo e dintorni.

 

 

 

 

 

Maria serena Pasinetti

The Last Act

Regia: Paymon Shahbod

Attori: Farina Farjami, Darioush Arjmand, Jamshid Hashempour

Genere: Drammatico

Paese: Iran

Durata: 86 ‘

Dopo un’assenza per la malattia della figlia, l’attrice Farzaneh torna a girare un film in cui interpreta una madre in cerca della figlia perduta. Durante il viaggio per raggiungere il luogo delle riprese, scopre che la sua vera figlia è scomparsa. E nonostante la preoccupazione e i conflitti con il regista, decide di rimanere ugualmente sul set, stabilendo un legame profondo con il personaggio che impersona.

Visti dal CineDams_holy_rosita_8097_© Kris Dewitte _ De Wereldvrede - 1

Il regista Paymon Shahbod decide di utilizzare una narrazione metacinematografica, tale scelta riflette una tecnica sofisticata che mescola finzione e realtà per enfatizzare il tema centrale del film: la tensione emotiva tra la vita personale dell’attrice e il ruolo che interpreta. Questo approccio consente di esplorare il confine sottile tra il mondo reale e quello artistico, immergendo il pubblico in un’esperienza che rende il dolore e la perdita quasi tangibili, inoltre questo metodo si collega alle tradizioni del cinema iraniano contemporaneo, noto per il suo uso di narrazioni complesse e multilivello.

Paymon Shahbod al 42TFF: "Le donne in Iran lottano in condizioni difficili, ma nel cinema hanno opportunità" - Torino Oggi

Tuttavia, Shahbord evita di approfondire in modo diretto la storia reale della figlia scomparsa. Questa scelta narrativa sembra intenzionale, spostando l’attenzione sul modo in cui il personaggio elabora il trauma attraverso l’arte, cioè più sull’aspetto psicologico e simbolico dell’evento, concentrandosi meno sulla cronaca dell’evento.

Il film alterna una linea sottile e riflessiva a momenti di enfasi emotiva che sebbene coerenti con la drammaticità della vicenda, rischiano di intensificare oltre misura l’impatto narrativo.

Presentato in concorso al 42° Torino Film Festival

 

 

 

 

 

 

 

Miriam Dimase

HAYAO MIYAZAKI E L’AIRONE

Regia: Kaku Arakawa
Genere: Documentario
Durata: 120′
Al cinema dal 25 al 27 novembre

Trailer disponibile qui.

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2024 in occasione della consegna della Palma d’Oro onoraria allo Studio Ghibli.
Questo lungometraggio è un documentario sulla nascita del capolavoro del regista giapponese: Il Ragazzo e l’Airone, Premio Oscar per Miglior Film d’Animazione nel 2024

Sette anni di lavoro sono occorsi per la creazione del film. Per 3598 giorni il regista è ripreso giorno dopo giorno lungo il travagliato percorso della realizzazione del film. E anche quando chiude gli occhi alla notte “Continuo a pensare”, “Mi sembra di avere la testa rotta”.
Le idee fluiscono dal suo cervello e prendono forma incastrandosi l’una nell’altra come in un variegato puzzle. E dalle idee al disegno, la frustrazione di non cogliere appieno le sfumature dell’espressione, le cancellature, i fogli buttati e rifare, rifare fino alla perfezione. Il tutto, a volte, immerso in una coltre di malinconia e di ricordi; i giorni volano, gli anni trascorrono e tanti amici si perdono nel percorso.
” Io sono ancora vivo. Perché? ”
In questi momenti cerca di ritrovare le rassicurazioni di una quieta routine: le passeggiate nel bosco, il suono del bollitore per farsi il tè, i bambini dell’asilo vicino che lo salutano festosi quando passa ed ecco la tranquillità. Questo è il suo mondo.
E bisogna accettare le perdite e i tanti cambiamenti dolorosi dell’esistenza, consapevoli che sia il bene che il male ne fanno parte. Bisogna quindi realizzarsi al meglio, “Se non realizziamo qualcosa, non abbiamo niente”. E quindi si supera l’ansia e si crea.
Il suo produttore lo sollecita a trovare dentro di sé sempre più stimoli per la sua creatività.
La sua illustratrice e collaboratrice, prima di morire, gli ha detto di non cedere mai e di continuare a fare film e così lui vuole fare.
Così riflette e le sue creazioni escono dalla “testa rotta” travolgenti e impregnate sì di angoscia e di malinconia ma anche piene di poesia e pronte a librarsi in un mondo di sogno, di fantasia e poi calarsi nella realtà per renderla tollerabile e attraente.

 

 

 

 

Pia Larocchi

SOTTO IL CIELO GRIGIO

SOTTO IL CIELO GRIGIO

un film di Mara TAMKOVICH

in concorso al 42Torino Film Festival, 2014.
Il film narra una vicenda  della camerawoman Darya Chultsova, arrestata nel 2020 insieme alla giornalista Katsiaryna Andreyeva per aver trasmesso immagini delle proteste seguite alle elezioni politiche truccate dal generale bielorusso alla guida del paese dal 1994.
Risultato immagine per film sotto il cielo grigio

Darya è stata liberata dopo 2 anni di carcere, Katsiaryna è stata condannata a 8 anni e 3 mesi per “alto tradimento” ed è ancora detenuta.

La produzione del film SOTTO IL CIELO GRIGIO è interamente polacca senza alcun collegamento a fondi bielorussi o russi, sia pubblici che privati. Un atto di coraggio e coerenza nella ferma presa di posizione contro la crescente e intollerabile ingerenza del regime nella professione giornalistica.

Con il patrocinio della FNSI Federazione Nazionale Stampa Italiana, Invisible Carpet ha  organizzato proiezioni del film attraverso un tour con la presenza della regista alle quali hanno partecipato  quei giornalisti che hanno subito minacce, intimidazioni e aggressioni, attuate da regimi o criminalità organizzato, per impedire loro di svolgere il proprio lavoro.

Il film ha già vinto numerosi premi ed é importante soprattutto per  l’impegno socio/politico della regista.

È una pellicola, nel suo procedere quasi in  forma di docufilm, importante per la sua denuncia e il dibattito che sta suscitando.

Non ci si aspetta altro , ma questo è sicuramente molto, da un’operazione come questa.

 

 

 

 

 

Serena Pasinetti

ISLA NEGRA

Regia : Jorge Riquelme Serrano

Attori : Alfredo Castro , Paulina Urritia

Genere : Drammatico

Paese : Cile

Durata : 105’

Nella loro casa sul mare a Isla Negra , l’imprenditore Guillermo ( Alfredo Castro ) e la sua assistente Carmen , stanno trascorrendo il fine settimana ripassando le fasi finali di un grande progetto immobiliare nella zona. La loro tranquillità Vine sconvolta dall’arrivo inattesa di una donna in compagnia del marito e del padre ammalato.

Con la Isla Negra , il regista cileno , già noto per opere come Algunas Bestias, al suo terzo lungometraggio conferma il suo interesse per le dinamiche familiari e sociali ampliandole con un messaggio politico più marcato , sulle disuguaglianze e le tensioni identitarie in Cile.

Isla Negra - Film (2024) - MYmovies.it

Ambientato sulla costa del paese , il film introduce simboli potenti , come la bandiera Mapuche , per sottolineare la necessità di riconoscere e affrontare le radici culturali e i conflitti irrisolti della società cilena. La villa sulla costa, in cui si svolgono i fatti ,è descritta come uno spazio lussuoso e aperto con una vista spettacolare sull’oceano, che enfatizza un senso di privilegio e controllo. Questa prima rappresentazione riflette il mondo ordinato e sicuro dei protagonisti principali , in particolare di Guillermo, l’imprenditore che si gode il comfort della sua posizione sociale. L’architettura della villa , con le sue ampie vetrate e il collegamento visivo costante con il paesaggio , sottintende una pretesa di trasparenza e apertura, difatti quest’ultima risulta del tutto ingannevole : le relazioni umane al suo interno sono intrise di tensione e di una profonda disconnessione con la realtà circostante .

La villa quindi diventa una metafora di una società che si percepisce inclusiva e progressista ma che, in realtà è intrappolata nelle sue stesse dinamiche di esclusione e privilegio, creando così un parallelo efficace con le diseguaglianze e le ipocrisie della società cilena contemporanea.

Il film non offre una soluzione , anzi, sembra sottolineare l’impossibilità di un riscatto reale .

I territori ancestrali, ormai trasformati in proprietà private o progetti immobiliari, sono il simbolo di una perdita irreversibile. Il tema quindi non è solo una questione territoriale , ma anche una questione  più profonda legata all’identità e alla memoria di un popolo sconfitto dalla storia e dalla modernità . Presentato fuori concorso al 42° Torino film festival.

 

 

 

 

 

Miriam Dimase