Le sei gemme dell’infinito, i frammenti cosmici che incarnano le forze elementari dell’esistenza, capaci di conferire l’onnipotenza a chi le possegga, sono state localizzate. Thanos, il titano pazzo, semina morte nella galassia pur di ottenerle, con lo scopo di riequilibrare la vita nell’universo. Solo gli Avengers, con l’aiuto dei Guardiani della galassia, possono fermarlo.

Esce in sala il primo capitolo del progetto più ambizioso della storia recente del cinema, che, da una parte, completa una geniale strategia commerciale iniziata dieci anni fa (“Iron Man” di J. Favreau; 2008), e, dall’altra, porta a termine un processo di trasfusione schermica – generato dal contraccolpo psicologico del post 11/9 (“Spiderman” di S. Raimi; 2002) – del concetto di sicurezza (nel mondo contemporaneo) attraverso la figura del supereroe.

Agli studi Marvel sono stati necessari dieci anni, e venti film, per condensare e distillare la propria poetica super eroica. “Avengers – Infinity War” rappresenta l’apice, e il lavoro più compiuto, di un’epopea eroicomica contemporanea, dove epos (la memoria corre a “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re”) e ironia convivono funambolicamente (la battaglia su Titano).
In universo diegetico (quello extraterrestre soprattutto) denso, sfaccettato e visionario – non è forse questa la componente assente in “Interstellar” di C. Nolan? –, il meccanismo narrativo costruito dai fratelli Russo è oleato e scorrevole, nonostante la frammentazione della storia in almeno quattro “campi di battaglia”, che rende alcuni passaggi farraginosi – si vedano, per esempio, le scene ambientate sulla Terra; come se una volta diretto lo sguardo verso le stelle, i destini terrestri fossero divenuti troppo limitati.
Questa fluidità espositiva è resa possibile dalla presenza dei Guardiani della galassia, che gli sceneggiatori C. Markus e S. Mc Feely impiegano come soluzione narrativa agli snodi cruciali (la nuova arma di Thor, la scoperta del cuore di Thanos) di un intreccio assai articolato.
Escludendo alcune forzature (veniali) alle quali un blockbuster non può sottrarsi – si veda la fastidiosa necessità di ricomporre, ad ogni scontro, il gioco delle coppie; come, ad esempio, il confronto tra stregone buono (Doctor Strange) e stregone cattivo (Fauce d’Ebano) –, il film regala momenti di grande cinema. Come l’intenso finale, croce e delizia della pellicola; coinvolgente e teso, ma, inevitabilmente, poco credibile per lo spettatore avvezzo ai superhero movies, che già conoscendo dell’esistenza di un capitolo finale, intuisce come gli incredibili eventi conclusivi siano facilmente reversibili – «Il tempo è un’illusione» scriveva Einstein.

E poi c’è Thanos; uno dei migliori personaggi prodotti dalla mente di K. Feige. Oltre il nomen omen (Thanos = morte incarnata), al di là della logica manichea sull’equilibrio cosmico – dove il riferimento al sovrappopolamento mondiale non è poi così velato -, il titano pazzo è il personaggio che meglio esprime la nostra umana fragilità; lui, un Eterno. A differenza dei supereroi che, nascondendosi dietro il loro: “Non lasciamo indietro nessuno”, si concedono il lusso di evitare ogni scelta sofferta, Thanos è costretto a sacrificare ciò a cui più tiene, a fare delle scelte e poi a sostenerne il peso. Ed è tutto là, in quello sguardo conclusivo verso un orizzonte splendente, ma illusorio, ricreato dalla gemma della realtà, dove il dolore si confonde alla soddisfazione, per un titano trasformatosi in dio, ma che conserva ancora il cuore di un uomo.
Alessio Romagnoli