Osservazioni sulla manifestazione del Torino Film Festival, innanzi tutto, si tratta di un festival con un’offerta molto vasta e variegata, forse troppo.
Per soffermarci sul concorso, la vittoria è andata immeritatamente al film ucraino La Palisiada. D’altra parte, hanno vinto due premi importanti, questa volta meritatamente, i film Le ravissement, francese, e Birth, coreano.
Entrambi hanno come contenuto il mondo femminile in rapporto alla maternità, vista come blocco alla creatività personale della donna e anche come smitizzazione del “desiderio innato” di essere madre. Sono poi presenti figure maschili in crisi (meno male) o quanto meno messe in discussione nel loro ruolo paterno.
I due film sono da vedere appena usciranno; per ora prendetene nota.
La tematica della maternità è tornata comunque in altri film della rassegna.
Molto interessante la presenza del cinema argentino, segnale di grande vitalità.
Anche il festival di Torino, come quello di Venezia, ha avuto un notevole incremento di spettatori.
A Stranger Quest, scritto e diretto da Andrea Gatopoulos, sarà presentato in concorso nella sezione Documentari Italiani al 41esimo Torino Film Festival, in anteprima assoluta per il pubblico, giovedì 30 novembre alle ore 19.30, al Cinema Romano 1.
Il documentario è prodotto da Il Varco Cinema, di cui Gatopoulos è cofondatore, e da Kublai Film, e sarà distribuito nel circuito dei festival internazionali da Gargantua Film Distribution.
La storia – Dopo aver trascorso gli ultimi trent’anni ad accumulare una delle più grandi collezioni di mappe al mondo, che segretamente chiama la sua “poesia”, David Rumsey, sul punto di compiere ottant’anni, si misura con i fantasmi della sua vita e con la fine sempre più vicina. Confrontandosi con ricordi e affetti, aiutato da oggetti, persone e intelligenze artificiali, in un personale viaggio tra luoghi fisici e virtuali, ritrova lo slancio per una nuova sorprendente avventura.
Il progetto – Nell’età dei satelliti, dove la Terra è esplorabile con uno smartphone e i viaggi spaziali si sono rivelati sempre meno utopistici, l’uomo ha perso le sue Colonne d’Ercole e la magia dell’avventura? Da questo senso di smarrimento nasce in Gatopoulos una passione crescente per le mappe, che lo conduce ben presto sul sito di David Rumsey, alla scoperta del suo archivio digitale sterminato con una delle collezioni private di mappe storiche più grandi del mondo, assemblate con il gusto estetico di un artista e al contempo strettamente legate ai più recenti progressi tecnologici. “Una volta conosciuto David e stabilita in poco tempo una forte intesa con lui, ho ritrovato nel racconto della sua ‘strana missione’ un fantasma, una traduzione, un ricollocamento del sentimento originale che spingeva gli uomini oltre il mondo conosciuto, alle grandi imprese e scoperte”, racconta il regista, che commenta: “In un mondo in cui lo scopo degli esseri umani sembra indebolirsi, incatenato alle leggi del mercato, della popolarità e del successo, il suo lavoro meticoloso, costante, ininterrotto e ossessivo per la cartografia, una materia oggi largamente trascurata e sostituita dai navigatori automatici, oltre che una storia affascinante è per me l’espressione straordinaria di una profonda connessione con l’esistenza e col senso della vita: a stranger quest”.
Un’opera-atlante – Gatopoulos e il direttore della fotografia Antonio Morra hanno scelto di girare con lo sguardo dei cartografi in ricognizione: un’unica inquadratura per ogni scena, ripresa da ciò che i mappatori definiscono point sublime, il punto da cui è possibile non solo vedere meglio il territorio, ma anche rappresentarne la sua bellezza. Ne è nato un film che si “legge” come un atlante, in cui l’immagine si accompagna ai dialoghi nel modo in cui l’icona si accosta alla didascalia. Il suono segue un lavoro simile, con il punto di vista della scena sempre tra la mdp e il protagonista, come l’orecchio di un drone. Le musiche di Brian Eno, Harold Budd e Kevin Braheny Fortune completano la costruzione di una colonna sonora futuristica e sentimentale.
La storia, infine, adottando il punto di vista del navigatore satellitare, è raccontata da un’intelligenza artificiale, che cerca di interrogarsi su come la vita degli uomini e la loro felicità si fondi su inspiegabili chimere e su stranissime missioni personali, tracciando la distanza fondamentale tra l’uomo e qualunque macchina concepibile dal sistema capitalistico.
Il regista – Andrea Gatopoulos, pescarese, classe 1994, dopo la laura in Lettere Moderne fonda a Roma la casa di produzione Il Varco, che ha all’attivo 23 cortometraggi e 4 film che hanno partecipato a più di 120 festival in tutto il mondo. Il suo esordio alla regia è il film breve Materia Celeste (2019), a cui seguirà Polepole (2021). Nel 2020 al lavoro al fianco di Werner Herzog per il suo film Accelerator a Leticia, Colombia, sviluppa la corrispondenza filmata Letters to Herzog e il cortometraggio Flores del precipicio (2022). Selezionato tra i finalisti del Premio Zavattini 2021/2022, nel 2022 presenta alla 54esima Quinzaine des Réalisateurs il corto Happy New Year, Jim, prodotto da Nieminen film e Naffintusi. Nel 2023 partecipa alla Locarno Spring Academy con Radu Jude dove realizza il film Eschaton Ad. Trascorre l’agosto 2023 a studiare con Apichatpong Weerasethakul nel suo laboratorio nello Yucatan, in Messico.
Proiezioni al Torino Film Festival
Giovedì 30 novembre ore 19.30 – Cinema Romano 1 (Proiezione ufficiale)
Esce ad ottobre Più de la Vita, il film di Raffaella Rivi dedicato a Michele Sambin: pioniere della videoarte, ideatore di performances, spettacoli teatrali, opere pittoriche e partiture sonore.
Prodotto da Kublai Film, Più de la Vita, dopo il debutto all’Asolo Art Film Festival (21 giugno) e l’ospitata al Lago Film Festival (25 luglio), approda nelle sale in un vero e proprio tour lungo il Belpaese.
Fra le prime sale autunnali ricordiamo: il 7 Ottobre al Cinema Rossini di Venezia e il 15 ottobre al Cinema Dante di Mestre.
Documentario e film si incontrano nella narrazione della vita e del pensiero di un grande artista contemporaneo, Michele Sambin: viaggiatore e precursore dei linguaggi della contemporaneità dalle mille sfaccettature, Sambin ha esplorato le arti visive nelle sue varie forme, si è immerso nella musica, ha attraversato il teatro, ha sostanzialmente disegnato il volto della videoarte nei suoi esordi per più aspetti pionieristici. La regista Raffaella Rivi ha scelto il linguaggio del cinema per raccontare l’uomo e l’artista in un lavoro che è a sua volta un’opera d’arte sull’opera d’arte. Disegnato con tratto che molto deve ad una sensibilità creativa tipicamente femminile. Una costante evoluzione attraverso la tecnologia, in quattro decenni di percorso artistico, dal video analogico alla pittura digitale, dal mondo degli strumenti tradizionali alla rivoluzione della musica elettronica.
Mescolando passato e presente, tra opere ormai classiche e nuove performance, il film si propone di portare allo spettatore uno sguardo diretto sul lavoro dell’artista, puntando il focus sulla mutevole arte che attraversa tempo e spazio, adattandosi a essi, ma anche adattandoli alle proprie esigenze. La poesia del loop: ponte fra sperimentazione visiva e sonora Fra le conquiste e gli strumenti espressivi al centro di questo viaggio, il loop: un concetto tecnico-poetico molto caro all’autore, capace di mescolare passato e presente e al centro delle opere video realizzate nel suo percorso pionieristico negli anni ’70 così come alla base di molti lavori successivi.
Alla base del loop c’è un diverso rapporto con il tempo: alla linearità consequenziale della narrazione classica, si sostituisce un procedere compositivo per cerchi e spirali, per salti temporali con strutture che tornano in periodi diversi, arricchite di nuovi contenuti esperienziali. Un procedere per anelli di senso che tornano via via sempre più larghi e si propagano come un’onda energetica. Artista ma anche filosofo e pensatore. Michele Sambin è stato un teorico del valore sociale dell’arte. Non solo: il titolo, Più de la vita è tratto da Ruzante, drammaturgo italiano del ‘500 molto amato da Sambin, che nella sua ultima lettera/testamento riflette sull’importanza di una vita che deve essere vissuta con consapevolezza e intensità: una vita larga, più che lunga. Nel 1980 con Pierangela Allegro e Laurent Dupont fonda il TAM teatromusica – finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – di cui cura regie, scene e musiche. Sambin da anni lavora, inoltre, con i detenuti del carcere di Padova.
Nell’ultimo decennio ha costantemente sviluppato e messo in pratica questo approccio con opere video-artistiche quali “Dire, Fare Baciare, Lettere, Testamento” (2013), scenografie e videoinstallazioni teatrali (TAM, Teatro Stabile del Veneto, JoleFilm), compagnie di danza (Sosta Palmizi) e musei (Museo Diocesano di Padova). Parallelamente ha portato avanti una progettualità cinematografica in campo sociale con i cortometraggi “Sotto l’anguria” (2005), “Voci di dentro, Voci di Fuori” (2007), “Domani, Forse” (2016), sempre volti a cogliere l’intima personalità dei protagonisti o la fragilità delle relazioni sociali attraverso la poetica della sospensione e dell’attesa.
Recentemente si è avvicinata ai territori dell’economia con narrazioni video per enti pubblici (Provincia di Padova, Regione Veneto, Regione Valle d’Aosta) e aziende private (Coop, Fortuny, Lotto, Tecnica), introducendo nella comunicazione aziendale i più evocativi linguaggi dell’arte cinematografica.
Titolare per diversi anni il corso di “Teorie e tecnica della comunicazione” presso l’Accademia di Belle Arti di Rimini, è attualmente impegnata in un progetto di ricerca sull’evoluzione del marketing attraverso la narrazione video presso il Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari dove tiene anche corsi di video storytelling aziendale.
Nella sua quasi quarantennale carriera, Valeria Golino ha dimostrato sin dagli esordi di essere una brava attrice, capace di dare corpo a personaggi femminili di raro magnetismo, e non solo per la bellezza mediterranea. In particolar modo è interessante la parabola femminina che va da Storia d’amore (1986) a Per amor vostro (2015), in cui ha creato una serie di ritratti femminili dolenti e intensi.
Se si volesse tracciare un rapidissimo schizzo descrittivo di Valeria Golino, si potrebbe utilizzare la vetusta esclamazione: “bella e brava”. Nel suo caso, però, la bravura va necessariamente anteposta alla bellezza, non perché non sia una donna affascinante, ma poiché il suo seducente magnetismo si manifesta per alcune appassionate e sofferenti figure femminili a cui ha dato corpo e anima.
Nata a Napoli il 22 ottobre 1965 da una famiglia di particolare lignaggio culturale (padre germanista italiano e madre pittrice greca), ha cominciato la carriera come modella per poi esordire nel cinema, appena diciassettenne, in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983) di Lina Wertmüller, dove interpretava l’adolescente Adalgisa, figlia dei coniugi borghesi De Andreiis (Ugo Tognazzi e Piera Degli Esposti). Già con le due pellicole a seguire la Golino si palesò come un’ottima attrice, capace di dare rilievo ai personaggi che gli venivano affidati. Nella fiaba “nera” Piccoli fuochi (1985) di Peter Del Monte, nella quale vestiva – e svestiva – i panni della giovanissima e bellissima Mara, figurazione carnale di una “fata” che doveva accudire al piccolo Tommaso, vinse il Globo d’oro come Miglior attrice rivelazione.
Nel drammone Figlio mio, infinitamente caro… (1985) di Valentino Orsini, in cui ricopriva il difficile ruolo della giovane junkie Francesca, fu candidata al Golden Ciak come Miglior attrice non protagonista. Questa sua spiccata bravura – oltre alla bellezza mediterranea e all’ottimo inglese – le permise appena ventenne di poter lavorare in America. Purtroppo questa lunga parentesi hollywoodiana, fruttuosa ma a conti fatti poco convincente a livello qualitativo, le ha concesso rarissime figure femminili consistenti e sfaccettate.
Benché sia stata capace di dimostrare di sapersi inserire in quel sistema e di essere un’attrice duttile, valicando differenti generi, quello che premeva al cinema industriale americano era soprattutto il suo fascino italiano, per cercare di creare una nuova diva da lanciare. Di quel periodo americano, i pochi ruoli veramente efficaci sono stati pochissimi: la bella ma diligente Susanna in Rain Man (Rain Man – L’uomo della pioggia, 1988) di Barry Levinson e con Dustin Hoffman e Tom Cruise; la coraggiosa Maria in The Indian Runner (Lupo solitario, 1991) di Sean Penn; oppure la malata terminale omosessuale Lilly nell’episodio “Goodnight Lilly, Goodnight Christine” della pellicola Things You Can Tell Just by Looking at Her (Le cose che so di lei, 2000) di Rodrigo Garcia. L’aspetto più interessante da notare, di questa fase internazionale, però, è come la Golino fosse rimasta umile e abbia proseguito la sua carriera italiana recitando in ruoli meno glamour, partecipando a pellicole indipendenti o bizzarre, come ad esempio testimonia il bislacco Escordiandoli (1996) di Antonio Rezza.
La sua quasi quarantennale carriera – ancora a pieno regime – s’illumina maggiormente per aver dato corpo e afflato ad alcune figure femminili di basso profilo, afflitte da problemi quotidiani e mosse visceralmente da impeti d’amore sofferti. Questi peculiari aspetti potrebbero essere racchiusi tra due poli interpretativi che ce la mostrano a distanza di trent’anni, e che le hanno consentito di vincere la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile. La prima la ottenne nel 1986 per Storia d’amore di Citto Maselli, e la seconda nel 2015 con Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino.
Bruna Assecondati e Anna Ruotolo, le due figure femminili di suddetti film, hanno differenti età e vivono in due città differenti, ma ambedue sono di estrazione popolare e cercano una loro emancipazione dal mondo che le circonda e le reprime. Prendendo come lampante esempio Per amor vostro, la protagonista Anna viene raffigurata, in un paio di elaborati freeze frames iconografici, come una beata, e in alcuni personaggi interpretati dalla Golino dentro questi due poli interpretativi si può rinvenire questo segno di martirio quotidiano in cui queste figure femminili sono invischiate, e da cui cercano il riscatto attraverso una tortuosa via Crucis.
Non tutte sono riuscite a spuntarla, perché a volte l’unica catarsi possibile è la propria morte. Senza analizzare ogni sua singola interpretazione, essendo il suo curriculum composto di oltre cento pellicole, ci si soffermerà solo su alcune incarnazioni femminili, cioè quelle in cui il personaggio è una “Santa guerriera” rispetto al quotidiano che la circonda. Con Storia d’amore, ritorno alla regia cinematografica di Citto Maselli dopo ben undici anni (Il sospetto fu realizzato nel 1975), Valeria Golino dava corpo al primo personaggio femminile da beatificare. Ancora giovanissima, ma già capace di dare piccole sfumature al suo personaggio, benché qualche critico abbia reputato la sua recitazione manieristica. Bruna Assecondati, giovane proletaria nata e cresciuta in un residuo di borgata romana, anche se vive in una situazione dura (la sua transvolata quotidiana fino al posto di lavoro), è un personaggio vivace e combattente.
Si potrebbe benissimo definire un’eroina del suo ceto, che non cerca un vero riscatto sociale, ma semplicemente vivere una storia d’amore in modo libero. Il tenero amore verso Sergio nasce da motivi quasi adolescenziali, essendo la sua prima relazione (nella prima scena d’amore i due sembrano quasi che delicatamente studiano i propri corpi), mentre la relazione con Mario scaturisce da un’improvvisa passione (Mario gli appare come un’immaginifica scultura romana). La paladina Mara, che ha sempre lottato (per giungere al posto di lavoro, per avere la sua libertà sessuale e per avere il suo spazio abitativo), mossa dalle più sincere azioni affettive (amore/amicizia) cerca di creare la sua famiglia ideale con Sergio e Mario. Un triangolo che pare funzionare, solo che alla fine Bruna si rende conto che non può vivere la sua ideale storia d’amore (probabilmente rovinata dalla subdola mossa attuata da Sergio).
Bruna, benché sia stata sempre una ragazza risoluta e intraprendente, dopo questa via Crucis che sembrava sfociare in un Happy End, schiacciata dalla realtà, decide di fare come il piccolo Edmund di Germania anno zero (1947) di Roberto Rossellini, e quasi come un gioco si suicida. È in quest’ultima sequenza, in cui la Golino recita muta, che la passione e la sofferenza si palesano attraverso le espressioni del suo volto. Dieci anni dopo questo tragico personaggio, nel 1997 è co-protagonista in Le acrobate di Silvio Soldini. La pellicola era la chiusa della “Trilogia delle fughe”, o definita anche come “Trilogia delle tre A” (gli altri due tasselli erano L’aria serena dell’Ovest, del 1990, e Un’anima divisa in due, del 1993). Il film è una storia di donne, ed è divisa in 4 “capitoli”, i cui titoli hanno il nome di ogni personaggio.
La Golino vi tratteggia la figura di una donna/moglie del Sud schiacciata da una vita incolore e insoddisfacente. Il rapporto con il marito è ormai stridente, e la relazione con la piccola figlia Teresa è difficile. La sua Maria, caparbia nel rimanere a galla, non vive un vero e proprio calvario, ma è fragile e insicura nel prendere ferme decisioni che potrebbero migliorargli la vita. Il suo profondo e passionale amore è solo verso Teresa, che cerca di capire e proteggere, mentre con il marito è solo amore carnale. Maria solo alla fine, spinta dalla casuale conoscenza con Elena (Licia Maglietta), donna risoluta del Nord, riuscirà a fuggire (quasi sinonimo di purificazione) da questa situazione senza sbocchi, benché non sappia (e noi con lei) cosa accadrà dopo.
La perfetta aderenza della Golino a una figura femminile quotidiana, si può vedere nel momento in cui mentre apre la cartellina con la lettera e il dentino della piccola Teresa, un foglietto schizza via improvvisamente, e lei con un gesto totalmente naturale esprime la rabbia di questo inconveniente scenico. Con Le acrobate la Golino vinse la Grolla d’Oro come Miglior attrice. Del 1998, invece, è L’albero delle pere di Francesca Archibugi. Con questa pellicola la regista romana ritraeva, dopo Il grande cocomero (1993) un altro adolescente che vive una situazione familiare difficile nei quartieri romani periferici. Valeria Golino interpreta Francesca, la madre tossicodipendente di Siddharta (Nicolò Senni). Benché abbia un ruolo secondario, l’attrice partenopea riesce a dare comunque spessore e pathos al personaggio, senza eccedere in una recitazione manierista di una tossicodipendente. La fragilità di questa donna, in una certa maniera rimasta adolescente, si manifesta perfettamente in due momenti distinti: nel video realizzato dall’ex compagno Massimo (Sergio Rubini), in cui la sua fragilità e vergogna si palesano con un grondante pianto da infante; e successivamente nel momento in cui il variegato nucleo famigliare è riunito nella piccola cucina della sua casa. Quando i due uomini non sanno confermarle quando torneranno nella serata, sul suo volto trapela tutta la sua solitudine e la sua insicurezza. Un momento, questo, che rievoca la gracilità di Bruna nel finale di Storia d’amore.
Il personaggio di Francesca vive una sofferenza creata solamente da lei, che ha perseguito quello stile di vita dannoso da hippy fuori tempo, come proprio gli rimprovera l’ex compagno Massimo. La “catarsi”, che sarà più utile a Siddharta che a lei, avviene con l’incidente mortale in macchina, avvenuto per colpa sua perché era sotto effetto della droga. Come scritto antecedentemente, durante il periodo americano l’affresco femminino Le cose che so di lei di Rodrigo Garcia è una delle pellicole più interessanti a cui ha preso parte, e che si riallaccia bene ai ruoli di donne comuni che ha interpretato in Italia. In questa pellicola la Golino interpreta il difficile e rischioso ruolo di Lilly, una malata terminale omosessuale che condivide con la sua fidanzata gli ultimi momenti di vita. Certamente è un pezzo costruito a tavolino, per commuovere, ma la bravura dell’attrice italiana è quella di non cadere negli usuali cliché recitativi proni a tale facile commozione (in questo caso doppio: omosessualità e sieropositività), riuscendo a dare corpo a un personaggio che sa trasmettere delle vere emozioni.
La “beata” Lilly sta patendo l’ultima tranche della sua sofferenza, e l’unico sollievo gli viene dall’amore della sua compagna Christine (Calista Flockhart). È nel medesimo anno, però, che Valeria Golino interpretò uno dei ritratti femminili fondamentali della sua carriera, cioè la “bestia selvaggia” Grazia in Respiro (2002) di Emanuele Crialese. Grazia è un personaggio irrequieto, un animale selvaggio (o randagio come il branco di cani che si vedono nella pellicola) confinata in un’isola del Sud tanto solare e naturale quanto chiusa e negletta. La vitalità, il magnetismo e la diversità di Grazia appaiono improvvisamente con forza attraverso la canzone “La bambola” di Patty Pravo, che sta ascoltando con un giradischi portatile. Oltre che donna nel pieno del suo splendore fisico, è anche una madre amorevole – a suo modo – verso i tre figli. Il suo stato psichico, soprattutto quando ha sbalzi di vivace umore, mette sempre in disquilibrio la vita famigliare, e si scontra con la visione materiale del marito (pescatore) e della sua famiglia.
Grazia è uno spirito libero, quasi un soggetto straniero precipitato in un mondo “preistorico”, e che vagamente ricorda la Karin di Stromboli terra di Dio di Rossellini. Il suo travaglio in Respiro si rivela doppio: per lei che si sente soffocare in questa isola sperduta, e per la sua famiglia, che deve sempre stare attenta alle sue improvvise smanie (ad esempio la gita con i due francesi). La catarsi finale, che purifica lei e tutti gli isolani, avviene nel fondo del mare, in una sequenza simile a quella de L’atalante (1934) di Jean Vigo. Per questo intenso e passionale ruolo, la Golino vinse il Nastro d’Argento come Migliore attrice protagonista.
Un altro tassello fondamentale nel curriculum della Golino è stato il dramma sociale La guerra di Mario (2005) di Antonio Capuano, in cui l’attrice interpretava Giulia, la madre adottiva di Mario. Il piccolo Mario, che proviene da una famiglia disastrata della periferia di Napoli, andando a vivere in questo nuovo nucleo familiare si ritrova catapultato in un mondo migliore (borghese), ma in cui non riuscirà a conseguire una benefica maturazione. Giulia è una madre affettuosa, apprensiva e di mentalità liberale, ma non è capace di capire il profondo dramma di Mario e la società (Napoli) che la circonda. Attenta e brava nell’analizzare metodicamente le opere artistiche, insegnandole con passione ai propri studenti, è però incapace di captare e spiegare/spiegarsi i reali problemi che la circondano. In poche parole è una “dilettante” che elargisce un amore sbagliato e viziato a Mario, comprandogli ogni cosa che lui chiede, rivelandosi un atteggiamento simile a quello del personaggio di Mamma Roma nell’omonimo film di Pier Paolo Pasolini, che educava Ettore in modo equivocato.
Questa spasmodica attenzione errata verso Mario rovina anche la sua relazione con il compagno Sandro (Andrea Renzi), che ha una visione molto più razionale di lei, proprio come era quella del prete di Mamma Roma. A differenza del piccolo Mario, Giulia non ha subito un calvario sociale, essendo di estrazione borghese, quindi questa potrebbe essere una scusante. Alla fine non ci sarà, almeno per lei, nemmeno una redenzione/maturazione, perché gli verrà semplicemente (razionalmente) tolto Mario dall’affidamento. Anche per questa figura femminile la Golino guadagnò un altro premio: il David di Donatello come Miglior attrice protagonista. Qualche anno più tardi la Golino interpretò un’altra Giulia, questa volta di estrazione popolare differente e nel pieno del suo calvario. In Giulia non esce la sera (2009) di Giuseppe Piccioni, la Giulia del titolo, che cominciamo a conoscere attraverso gli occhi di Guido Montani (Valerio Mastandrea), è una donna con un passato macchiato di sangue per un delitto passionale. Lavora di giorno facendo l’istitutrice di nuoto, e la sera non può uscire perché è una carcerata in semi-libertà. Giulia cerca di mantenere le distanze con il mondo esterno che la circonda per non cadere nuovamente in “tentazione”.
Quando sembra aver trovato in Guido una “guida” e un riscatto per il suo passato (l’aver abbandonato il marito e la figlia per l’amante che poi aveva ucciso), il rifiuto della figlia a relazionarsi di nuovo con lei, la getta nel più profondo sconforto. La purificazione finale colpisce ambedue, ma in modo differente: per Guido, che conoscendola l’aveva vista come una “Santa”, sarà di maturazione; mentre per Giulia, che ha optato per il suicidio non sapendo come pagare il suo debito affettivo con la figlia, questo sarà il martirio da pagare per la sua carnale colpa.
Il carcere – e il suicidio – fanno da ponte con la pellicola Come il vento (2013) di Marco Simon Puccioni. In questa pellicola la Golino, dopo aver interpretato figure femminili fittizie che attingevano dalla realtà, dovette affrontare un personaggio realmente esistito, cioè Armida Miserere (1956-2003), funzionaria dello Stato italiano che fu direttrice di differenti carceri. Armida è una donna forte non solo per il ruolo istituzionale che deve ricoprire, ma anche per i duri colpi che ha ricevuto nella vita privata (la violenta morte del marito, la perdita del nascituro, le delusioni amorose ecc.). È una donna risoluta ma divenuta lentamente vulnerabile dai tragici fatti che l’hanno fiaccata, e alla fine della sua via crucis, come lei stessa confessa nella lettera d’addio, attua l’insano gesto di suicidarsi, non potendo più affrontare questo dolore che l’attanaglia. In questo biopic, con tempi e umori da fiction televisiva, la vera forza è la Golino, che ha reso ottimamente omaggio a la Miserere.
Infine, il fiammeggiante melodramma Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino ha segnato in qualche modo il punto di approdo dei ruoli precedenti, in cui le varie sfaccettature hanno creato un solo personaggio femminile. Anna, nella triplice rappresentazione di donna-moglie-madre, s’incontra in un viluppo di passione e dolore. Sullo sfondo di una Napoli proletaria, affetta dagli usuali problemi sociali e criminali, si ergono i conflitti quotidiani della protagonista. Come moglie, Anna deve lottare contro il manesco marito usuraio, che mette disordine in famiglia, oltre a screditarla agli occhi della gente. Come madre, si ritrova a gestire tre figli nel pieno dell’adolescenza (soprattutto le due ragazze), e deve accudire maggiormente al figlio sordomuto Arturo. Come donna, inizialmente si sente rifiorire quando l’affascinante attore di fiction Michele Migliaccio comincia a corteggiarla, per poi alla fine scoprire che era stato solo un inganno, perché lui aveva contratto un debito con il marito.
Nel momento in cui loro due sono vicino a una scarpata e Michele deve ucciderla, Anna ricorda la stessa situazione di delusione in cui si ritrova la trasognante Cabiria in Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini. Tutto questo calvario che deve affrontare quotidianamente, Anna lo accetta come una Santa solo per amore dei propri figli. Mentre Bruna di Storia d’amore, stanca del martirio che ha subito, si uccide, la catarsi di Anna, che tenta il suicidio dal cornicione del terrazzo del proprio palazzo, termina miracolosamente perché si salva, e così potrà – forse – risolvere i problemi che la opprimono e affrontare la vita con altro spirito.
Quentin Tarantino, C’era una volta…a Hollywood (Once Upon a Time in…Hollywood), USA, 2019.
L’immagine osservata, l’immagine vissuta, l’immagine creata. In un’intervista di qualche anno fa, Tim Burton sostiene che delineare un confine tra realtà e fantasia è per lui un atto privo di senso. Fantasia, non finzione: la fantasia non mente, costruisce nuove realtà. Favole della realtà, come nel nono film di Tarantino C’era una volta… a Hollywood. Nella dissolvenza dei confini tra i livelli comunicativi e percettivi, Tarantino riflette, cinefilo anche di se stesso, sul proprio cinema attraverso quello altrui, autentico o fittizio.
La recitazione degli interpreti si carica, sempre immersa in una volontà artistica ed espressionista, che non imita ma amplia il reale cinematografico. Mentre il protagonista interpreta, non ricorda la parte, a causa dell’alcolismo; e si adira con la propria immagine allo specchio – per il danno che arreca alla propria credibilità come attore e quindi come personaggio.
In un infinito gioco di variabili, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) compare in una mai girata pellicola del realmente esistito Antonio Margheriti; ma anche in alcune sequenze in cui si richiamano, con l’uso del lanciafiamme contro alcuni nazisti, le scene conclusive di Bastardi senza gloria: dove a guidare la propria squadra militare nell’impresa non era DiCaprio, ma Brad Pitt – che in C’era una volta… a Hollywood è Cliff Booth, controfigura di Dalton.
Nei momenti in cui la mancanza di situazioni filmiche troppo pericolose per il goffo Dalton non richiede la presenza delle acrobazie di Booth, quest’ultimo, oltre l’occhio della macchina da presa, vive quasi al posto dell’uomo a cui fa da controparte. Tra le tante azioni (tutte ugualmente importanti quanto inconsistenti) che si succedono sui set e nelle ville hollywoodiane, lo stuntman è in grado di compiere, nel finale del film, l’unica che possa davvero scrivere la Storia; ma sotto l’effetto di una sigaretta imbevuta di acido quasi non se ne accorge, e scambia gli hippies omicidi inviati da Charles Manson per i personaggi di un western. Diventa protagonista, per poi riassorbirsi nel protagonista stesso.
Ferito gravemente, cade la controfigura, cade il cinema nel cinema: Rick Dalton, che ha infine imparato ad utilizzare il lanciafiamme, sconfigge l’unico dei tre aggressori sfuggito alla furia annebbiata di Booth. I piani si unificano; con l’avvio di una nuova carriera per Dalton, fino ad allora fossilizzato nel ruolo del cattivo, la negatività del reale e quella dell’illusorio si annientano a vicenda. Come i brandelli del volto mitragliato di Hitler bruciavano assieme a quelli dello schermo incendiato nell’inferno del cinema.
Dopo il successo del seminario dello scorso giugno tenutosi all’Arsenale di Venezia nell’ambito del Salone Nautico, organizzato in collaborazione col Comune di Venezia e l’Ufficio Regionale UNESCO per la Scienza e la Cultura in Europa, il Premio Kinéo continua il suo impegno per l’ambiente e la sua salvaguardia in collaborazione con enti ed istituzioni italiane ed internazionali. L’edizione 2019 del Premio, vuole sottolineare quel cambio di passo mondiale necessario da parte di ognuno di noi per una maggiore consapevolezza per la difesa del Pianeta. E che il Cinema, in Italia e a livello internazionale, può essere uno strumento importantissimo per arrivare a raggiungere questo obiettivo.
Tre grandi iniziative saranno presentate in anteprima mondiale durante la Mostra del Cinema di Venezia. La prima sarà, la versione italiana del tool kit realizzato dall’UNESCO: “Ocean Literacy for All”. Uno straordinario volume, tradotto in 5 lingue e diffuso in 35 paesi nel mondo, che aiuta gli insegnanti a formare i ragazzi di tutte le età a conoscere e ad avere rispetto per il mare .
Il progetto Passion Sea, a cura dell’omonima Organizzazione non-profit, è dedicato ai giovani nei loro anni di formazione, unendo all’educazione, la creatività artistica per farli diventare consapevoli dell’importanza di proteggere mari, oceani, laghi e fiumi anche da adulti.
E lo “SDG’s Action Festival” delle Nazioni Unite. Il Cinema per uno sviluppo sostenibile del nostro Pianeta.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia, per un impegno civile del cinema a salvaguardia dell’ambiente.
Tra le istituzioni che hanno rinnovato il sostegno al Premio: ANICA, ANEC, il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, La Biennale Cinema, la Direzione Generale Cinema del MIBAC e la Regione Veneto.
Dopo il successo del seminario dello scorso giugno tenutosi all’Arsenale di Venezia nell’ambito del Salone Nautico, organizzato in collaborazione col Comune di Venezia e l’Ufficio Regionale UNESCO per la Scienza e la Cultura in Europa, il Premio Kinéo continua il suo impegno per l’ambiente e la sua salvaguardia in collaborazione con enti ed istituzioni italiane ed internazionali. L’edizione 2019 del Premio, vuole sottolineare quel cambio di passo mondiale necessario da parte di ognuno di noi per una maggiore consapevolezza per la difesa del Pianeta. E che il Cinema, in Italia e a livello internazionale, può essere uno strumento importantissimo per arrivare a raggiungere questo obiettivo.
Tre grandi iniziative saranno presentate in anteprima mondiale durante la Mostra del Cinema di Venezia. La prima sarà, la versione italiana del tool kit realizzato dall’UNESCO: “Ocean Literacy for All”. Uno straordinario volume, tradotto in 5 lingue e diffuso in 35 paesi nel mondo, che aiuta gli insegnanti a formare i ragazzi di tutte le età a conoscere e ad avere rispetto per il mare .
Il progetto Passion Sea, a cura dell’omonima Organizzazione non-profit, è dedicato ai giovani nei loro anni di formazione, unendo all’educazione, la creatività artistica per farli diventare consapevoli dell’importanza di proteggere mari, oceani, laghi e fiumi anche da adulti.
E lo “SDG’s Action Festival” delle Nazioni Unite. Il Cinema per uno sviluppo sostenibile del nostro Pianeta.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia, per un impegno civile del cinema a salvaguardia dell’ambiente.
Tra le istituzioni che hanno rinnovato il sostegno al Premio: ANICA, ANEC, il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, La Biennale Cinema, la Direzione Generale Cinema del MIBAC e la Regione Veneto.
Dopo il successo del seminario dello scorso giugno tenutosi all’Arsenale di Venezia nell’ambito del Salone Nautico, organizzato in collaborazione col Comune di Venezia e l’Ufficio Regionale UNESCO per la Scienza e la Cultura in Europa, il Premio Kinéo continua il suo impegno per l’ambiente e la sua salvaguardia in collaborazione con enti ed istituzioni italiane ed internazionali. L’edizione 2019 del Premio, vuole sottolineare quel cambio di passo mondiale necessario da parte di ognuno di noi per una maggiore consapevolezza per la difesa del Pianeta. E che il Cinema, in Italia e a livello internazionale, può essere uno strumento importantissimo per arrivare a raggiungere questo obiettivo.
Tre grandi iniziative saranno presentate in anteprima mondiale durante la Mostra del Cinema di Venezia. La prima sarà, la versione italiana del tool kit realizzato dall’UNESCO: “Ocean Literacy for All”. Uno straordinario volume, tradotto in 5 lingue e diffuso in 35 paesi nel mondo, che aiuta gli insegnanti a formare i ragazzi di tutte le età a conoscere e ad avere rispetto per il mare .
Il progetto Passion Sea, a cura dell’omonima Organizzazione non-profit, è dedicato ai giovani nei loro anni di formazione, unendo all’educazione, la creatività artistica per farli diventare consapevoli dell’importanza di proteggere mari, oceani, laghi e fiumi anche da adulti.
E lo “SDG’s Action Festival” delle Nazioni Unite. Il Cinema per uno sviluppo sostenibile del nostro Pianeta.
Il Centro Sperimentale di Cinematografia, per un impegno civile del cinema a salvaguardia dell’ambiente.
Tra le istituzioni che hanno rinnovato il sostegno al Premio: ANICA, ANEC, il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, La Biennale Cinema, la Direzione Generale Cinema del MIBAC e la Regione Veneto.
Circa sei mesi fa, nel tardo pomeriggio, uscivo da un cinema in una grande città americana… Un autobus bianco di medie dimensioni, con una ventina di persone a bordo, procedeva a velocità sostenuta sul lato opposto della strada e proprio quel movimento tra tanti, chissà perché, per qualche secondo aveva attirato la mia attenzione.
La panoramica del mio sguardo, da destra a sinistra, ha superato l’autobus fino a soffermarsi su una ragazza in scooter che usciva da una via laterale. Tutto dev’essere durato al massimo tre secondi, incluso il violento impatto. Per una strana combinazione cinetica, invece di essere sbalzata con la moto sul lato della strada, la conducente è finita davanti al veicolo che nonostante la frenata, per inerzia ha continuato ad avanzare per alcuni metri. Ricordo lo schianto parzialmente coperto dal rumore del traffico e il sinistro sobbalzo della massa dell’autobus che passava con le sue venti tonnellate sul corpo inerte della ragazza.
Consapevole della gravità di quanto avevo appena visto, mi sono allontanato per il disgusto di assistere al morboso accorrere dei curiosi.
In pochi minuti da ogni direzione sono arrivate almeno cinque auto della polizia a sirene spiegate e subito dopo un’ambulanza. Dalla coda di auto che aveva cominciato a formarsi anche nella direzione in cui mi stavo allontanando, si poteva intuire che l’intera zona era bloccata.
Più tardi ho cercato su Internet la notizia dell’incidente. Mi ero sentito in dovere di scoprire se la ragazza fosse sopravvissuta… non per curiosità, era come se non mi potessi esimere dal sapere, dall’andare fino in fondo, per l’intersecarsi delle nostre vite a soli venti metri di distanza, nella stessa città, in quella stessa strada, dove infinte casualità ci avevano portato a passare proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Speravo in un “lieto fine” ma la ragazza era morta sul colpo. Solo poche ore dopo sulle newsgià era stata pubblicata una fotografia con il nome di una giovane donna di trent’anni, African American. Se fossi rimasto in sala a vedere tutta la sfilza dei titoli di coda non avrei visto l’impatto e la conseguente morte in diretta che ricorderò per il resto della vita… Se lei avesse tardato solo di pochi secondi, per un rallentamento nel suo percorso, per una telefonata ricevuta o per un’incertezza nell’accensione dello scooter, sarebbe ancora viva.
Ogni tanto l’immagine di quell’autobus che travolge il peso effimero e la vita di quella ragazza, mi torna alla mente.
Con il tempo mi sono accorto di aver completamente dimenticato il resto della giornata, quello che avevo fatto la mattina, dove ero stato a pranzo, chi avevo incontrato… e anche il film.
Ho provato a concentrarmi per recuperare almeno qualche frammento: niente, un vuoto assoluto, come se lo shockdi quella morte violenta avesse spazzato via tutto. Sentivo un forte disagio, quasi fisico, un senso di dolore per quella morte inutile, per lo speco di una vita dovuta a una disattenzione di pochi centimetri, forse a un freno non revisionato, oppure a qualche dettaglio all’apparenza insignificante che nella combinazione di cause ed effetti è risultato fatale.
Ma ecco che invece, pochi giorni fa, quando per un’associazione del pensiero mi è tornata alla mente la ragazza travolta dall’autobus bianco, mi sono accorto che quella spiacevole sensazione di disagio, di morte, s’erano come dissolti e quello che sentivo era qualcosa di paragonabile a una loro eco lontana. La memoria dell’evento era intatta ma il suo effetto non era più così disturbante.
Mi sono chiesto come mai… Forse per il passare del tempo che lenisce ogni cosa? Come per una delusione d’amore che di primo acchito può far provare un dolore fisico, chiudere lo stomaco, impedire il sonno… ma poi un po’ alla volta i brutti pensieri se ne vanno e torna la normalità.
La risposta è in una sola parola: SEROTONINA.
Nella mia piccola riflessione/indagine mi ero chiesto che cosa fosse cambiato negli ultimi tempi da poter modificare la mia percezione di quell’evento traumatico e l’unica variazione era l’aver iniziato una cura a base di un particolare integratore alimentare su consiglio del Dottor Camillo De Felice, un caro amico farmacista, poeta, straordinario performer, originario di un paese alle falde del Vesuvio… In effetti Pamela, la sua fidanzata, aveva accennato a un possibile “effetto collaterale”, un senso di pace, un lieve distacco dalle cose del mondo, la sensazione che i problemi della vita siano comunque superabili, privi d’importanza e di peso.
“Pamela, fidanzata di Camillo” (dopo la cura)
Camillo mi ha spiegato che questo integratore alimentare contiene un mix di lipidi estratti dall’Olea Europea e dal Theobroma cacao, che aiutano a regolare la fluidità della membrana dei neuroni. Se la membrana neuronale risulta troppo rigida o troppo fluida, non riesce ad esprimere i recettori su cui va a legarsi la Serotonina, neurotrasmettitore che a livello del sistema nervoso centrale stabilizza l’umore (è comunemente detto “l’ormone del buon umore”). Metaforicamente, la serotonina rappresenta la chiave, il recettore la serratura: più serrature ci sono, più chiavi possono essere inserite e di conseguenza maggiore sarà l’effetto sull’umore. Quindi, una giusta fluidità della membrana, porterà a un maggior numero di recettori che legheranno un maggior numero di molecole di Serotonina.
Pianta di Olea Europea (Ulivo) Pianta di Theobroma cacao
Questo integratore si chiama “Serobrain”, agisce in modo naturale, non apporta sostanze attive ma ne regola l’utilizzo.
Il Serobrain contiene la Curcumina che ha azione anti-infiammatoria (i radicali liberi producono infiammazione)… l’Astaxantina e l’alfa-Tocoferolo che sono carotenoidi con azione antiossidante e anti-radicalica, fondamentali per sostenere l’asse intestino-cervello… la L-teanina, che aiuta a ridurre lo stress psico-fisico e facilita le funzioni cognitive. Infine le vitamine E, C, e B6, supportano l’efficienza e le funzioni dei neuroni. Il Serobrain quindi funziona come una specie di antidepressivo naturale che oltre alla sua funzione primaria di mitigare l’infiammazione latente nell’intestino e nel sistema nervoso centrale, contribuisce al buonumore.
La serotonina fu isolata per la prima volta nel 1935 da Vittorio Erspamer, un farmacologo italiano che inizialmente la classificò come un polifenolo. Due anni dopo venne chiamata “enterammina” e solo nel 1948 assunse il nome definitivo di “serotonina”.
Il nostro cervello è un organo estremamente complesso ed è facile capire dai nostri cambiamenti di umore quanto siano inspiegabili molti dei suoi meccanismi. Delle volte ci sentiamo benissimo, in equilibrio con noi stessi, con la sensazione di essere invincibili e pieni di energia… ma altre volte, in condizioni pressoché identiche, ci possiamo sentire molto giù, stanchi di impegnarci, soffocati dalla costrizione di dover agire per continuare a risolvere problemi e fastidi che inevitabilmente si presentano sulla nostra strada.
La serotonina è alla base di diversi psicofarmaci in commercio ma la sua assunzione diretta e “artificiale” (con un dosaggio sufficiente a ottenere l’effetto desiderato) provoca degli effetti collaterali, come ad esempio la perdita di libido, del desiderio sessuale, poiché a differenza di quella naturale, inibisce la sintesi del testosterone.
Il perché di questa differenza è ignoto.
Tutto ciò è descritto molto bene in “Serotonina” (pubblicato da “La nave di Teseo”) l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, scrittore abituato alle provocazioni di cui in passato avevo letto il folgorate romanzo d’esordio “Particelle elementari” (1999) e poi “Piattaforma” (2001). Mi sono perso “Sottomissione” (2015), un romanzo fantapolitico che ipotizza la vittoria del partito mussulmano alle elezioni presidenziali del 2022 in Francia… ma conto di leggerlo entro la fine dell’estate.
Comunque… ecco che diciotto anni dopo ho ritrovato Houellebecq in piena forma, alle prese con una trama molto originale, dove il disegno e così imprevedibile, l’artificio è così ben nascosto da sembrare “vita reale”, salvo qualche eccesso che per questo scrittore è inevitabile poiché parte integrante del suo stile. La fidanzata del protagonista per esempio, giapponese e ninfomane (ben oltre “Tokyo decadence”), che non si accontenta delle orge nei club degli scambisti ma dimostra la sua estrema perversione intrattenendosi sessualmente con dei cani, non è specificato se consenzienti.
Il protagonista della storia è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che ormai possiede un’esperienza e una lucidità tale da saper spiegare senza peli sulla lingua come le politiche europee abbiano dovuto fare delle scelte, discriminando alcune categorie a favore di altre o del “bene comune”, secondo equilibri planetari che inevitabilmente producono delle vittime sacrificali. In questo caso le vittime sono gli allevatori francesi che con le “quote latte”, com’è successo in Italia, sono finiti sul lastrico.
La messa in scena della “rivolta armata” di questa categoria che finisce con una strage è un’estremizzazione di Houellebecq, ma non lontana dalla realtà… lo abbiamo visto di recente anche in Sardegna, dove gli allevatori per protesta hanno rovesciato decine di ettolitri di latte sulle strade piuttosto che accettare un prezzo irrisorio che li porterebbe alla rovina.
La “caduta” del protagonista di questo romanzo a suo modo filosofico, si evolve nel giro di poco più di un anno, da quando si licenzia e inizia a vivere girovagando alla ricerca di un luogo dove poter vegetare, ma sistematicamente gli eventi lo costringono a doversi muovere, e ogni volta la situazione peggiora, il suo isolamento si fa più accerchiante e irreversibile. Il medico che lo assiste nel suo calvario post moderno accerta con sorpresa un altissimo tasso di “cortisolo” nel suo sangue, tale da rischiare di farlo “morire di tristezza” dopo averlo portato all’obesità e alle conseguenze fisiche di una degenerazione senza ritorno. Cerca di convincerlo a ridurre e poi interrompere l’assunzione di serotonina, ma il nostro anti eroe non lo ascolta.
Non riuscendo a ricordare il film spazzato via dallo shock dell’incidente, il mio pensiero va a un film che non potrò mai dimenticare, non perché sia un capolavoro, ma è un film francese molto speciale, tratto da un bellissimo romanzo breve di Antonio Tabucchi, “Notturno indiano”.
E’ del 1987, diretto da Alain Corneau, un regista interessante, che in questo caso ha scelto la via della fedeltà quasi assoluta al romanzo. Ci sono solo alcune trovate di sceneggiatura che si allontanano del testo originario, ma nella sostanza la storia segue passo passo la trama del libro, utilizzando anche le stesse didascalie che descrivono i luoghi.
Il viaggio del protagonista (interpretato da un delicato e sensibile Jean-Hugues Anglade) alla ricerca del suo amico portoghese Xavier “perso in India”, segue un percorso pianificato che progressivamente si va a modificare adattandosi alle casualità degli incontri, alle tracce, alle notizie frammentarie che riesce a scoprire strada facendo. A Bombay, una prostituta con la quale il suo amico aveva una relazione, gli rivela che negli ultimi tempi era molto cambiato, aveva un serio problema di salute… e poi che era in contatto con una misteriosa “società teosofica” di Madras. Anche lei non ha notizie di Xavier da più di un anno.
Rossignol, questo e il nome del protagonista della storia, si reca nel più grande ospedale della città, dove non riesce a trovare il suo amico, ma si intrattiene a lungo a parlare con un cardiologo che mentre cerca di aiutarlo nella ricerca tra i padiglioni del gigantesco e labirintico ospedale, gli spiega i paradossi del suo paese… lui stesso può essere considerato una paradosso, avendo studiato cardiologia a Londra, quando in India si muore di tutto ma non di cuore.
A Madras l’incontro con una specie di guru, o gran maestro che sia della società teosofica, è uno scontro in punta di fioretto tra due culture. Alla fine, forse grazie alla condivisione di un aneddoto sulle ultime parole del grande poeta portoghese Fernando Pessoa, la reticenza è vinta e il misterioso “teosofo” mostra a Rossignol una lettera di Xavier che risale a un anno prima… dove viene svelata una nuova traccia che lo porterà verso la fine del suo viaggio, a Goa.
Il film ha un andamento lento ma avvincente e sorprendete, immerso in un mondo pieno di tangibile spiritualità, dove sembra che nulla accada per caso… dall’incontro con una specie di mostriciattolo, un nano deforme che si rivela essere una veggente, a un compagno di viaggio in un vagone letto che lo sfiora con la sua drammatica vicenda di morte e di vendetta…
La conclusione è poetica e “circolare”. Rossignol ha un’illuminazione e capisce perché non è riuscito a trovare il suo amico da nessuna parte.
Semplice: ha cambiato nome. Nella lettera alla società teosofica, scritta in inglese, aveva accennato tra le righe di essere diventato “un uccello che canta di notte”… Un usignolo quindi, in francese “rossignol”, come il protagonista della storia… in inglese “Nightingale”…
Mr Nightingale, ecco chi deve cercare! E’ infatti, come il suo sfuggente amico aveva rubato e tradotto la sua identità, il protagonista della storia comincia a seguire le tracce di Mr Nightingale, che tutti conoscono e rispettano, ma nessuno sembra sapere dove trovarlo, fino a che… ecco finalmente un indizio preciso, strappato con una mancia al cameriere di un vecchio albergo, elegante ma un po’ decadente…
“Una volta Mr Nightingale era un buon cliente qui… ma ora hanno aperto due nuovi hotel di lusso sul mare e non possiamo più competere.”
Il cameriere gli fa capire in quale dei due alberghi è più probabile che troverà quello che cerca…
In quello splendido hotel sul madre di Goa, Rossignol incontra una giovane donna, una bellissima fotografa francese e senza necessariamente cercare un’avventura, finisce per cenare con lei nel magnifico giardino, sul bordo di una grande piscina.
Ed è li che Rossignol finalmente intravede Mr Nightingale, il suo amico Xavier, dal lato opposto, nella penombra del lume di candela, oltre il rettangolo d’acqua che li separa. Anche lui è con una donna… La trovata geniale del film è lasciare che il pubblico s’immagini tutto, senza mai indentificare la figura sfuggente di Xavier… ascoltando le parole di Rossignol mentre racconta alla ragazza quello che sta effettivamente accadendo in quel momento, come se fosse la trama di un romanzo che sta cercando di scrivere…
Alla fine della cena, quando Rossignol chiede il conto, il cameriere gli comunica che un altro cliente dell’albergo ci ha già pensato.
La conclusione della storia coincide con quella dell’ipotetico romanzo e porta il protagonista a capire che, come Xavier non voleva farsi trovare, lui non ha più voglia di cercarlo… e un loro incontro nel mondo reale non avrebbe alcun senso in quelle circostanze. Le vite dei due amici si sfiorano, forse per l’ultima volta: con grazia e discrezione ognuno andrà per la sua strada.
La circolarità del racconto riporta idealmente alle ultime parole pronunciate da Fernando Pessoa prima di morire…
Fernando Pessoa
“Datemi i miei occhiali!”
Era molto miope e voleva passare dall’altra parte vedendoci meglio possibile, così come Rossignol, forte del cumulo delle esperienze di una vita con il catalizzatore di quel viaggio molto speciale in India, ha trovato un nuovo equilibrio, una “seconda vista”.
Il recente Toy Story 4 avvalora l’idea di come la Pixar sia ancora prepotentemente attiva e pronta a riscuotere un ulteriore immenso successo su scala mondiale. Da quando si è presentata al cinema nel lontanissimo 1995 con Toy Story, primo lungometraggio animato realizzato completamente con la Computer grafica, ogni sua nuova opera (o prodotto, essendo vincolato a un lucroso merchandising) genera fremente attesa negli spettatori – e finanche nelle file dei critici –, e i successivi enormi risultati ai botteghini dimostrano tale affezione che il pubblico, di fasce d’età trasversali, ha per questi innovativi cartoni animati.
Attenzione però, non solo grossi introiti, ma anche numerosi riconoscimenti vinti per l’ottima qualità di ogni singola opera realizzata. A tutt’oggi la Pixar ha raccolto ben 18 Oscar, di cui ben 10 statuette vinte come miglior opera d’animazione (per due cortometraggi e otto lungometraggi). L’istituzione dell’Oscar al Miglior Film d’animazione, nel 2001, è stata dettata prepotentemente proprio perché ormai non esisteva solo il colosso Disney, ma anche la magica Pixar, oltre all’agguerrita concorrente DreamWorks Animation. Per inciso, gli Oscar ottenuti dalla Pixar non sono stati dati solo per la superba tecnica, che migliora di pellicola in pellicola, ma anche per la qualità delle storie che narra. Dietro queste favole animate elettronicamente fuori (out), si celano dentro (inside) profonde riflessioni sui sentimenti, la società e gli individui. Tante gustose risate, certamente, ma anche momenti in cui sopravanza una toccante meditazione sugli stati affettivi.
Tralasciando l’aspetto industriale che finanzia queste suadenti fiabe, perché leggendo le cronache sul dietro le quinte della Pixar ha dei contorni molto shakespeariani (Re, cortigiani, sete di potere, vendette, uccisioni, etc.), è interessante soffermarsi sul percorso autoriale che la Pixar ha edificato nei primi venti anni cinematografici, cioè dal 1995 (anno del primo Toy Story) fino a Inside Out, pellicola salutata da molti come il lavoro più maturo, principalmente per quanto riguarda la resa emotiva, cioè l’inside. Anche perché il percorso produttivo successivo a Inside Out, escludendo l’incantevole e premiato Coco (2017), si potrebbe quasi definire involutivo, essendo composto da tre rimunerativi sequels (Cars 3, Gli incredibili 2 e Toy Story 4), da uno spin-off di sicura presa (Alla ricerca di Dory), e dall’inaspettato “fiasco” di In viaggio con Arlo. Però, andiamo con ordine.
La Pixar Animation Studios, come tale, fu creata il 3 febbraio del 1986 (da Steve Jobs), ma la semiglia di questa futura casa produttrice era già presente dentro la LucasFilm dal 1979, perché era una sezione che doveva occuparsi, sotto la direzione di John Lasseter, dell’animazione animata attraverso la computer grafica (la denominazione di questa divisione era “LucasFilm Computer Graphics Project”). Stando a questa primissima data, quindi, il modello Pixar ha ben quarant’anni. Otto lustri dedicati a una lenta ricerca al perfezionamento della tecnica (dopo l’acquisizione di Jobs, i primi anni come studio indipendente erano dedicati allo sviluppo di animazioni atte solo a promuovere gli hardware prodotti dalla Apple), e a una limatura emozionale delle storie. Già dai primi cortometraggi, e includendo anche il preistorico The Adventures of André and Wally B. (1984), quello che propone la Pixar è soprattutto un mondo al contrario, cioè i protagonisti della vicenda sono oggetti (i giocattoli della serie di Toy Story, per esempio) oppure animali (Alla ricerca di Nemo o Ratatouille, solo per citare i due più noti).
Le figure umane primariamente compaiono sullo sfondo, e nel mondo Pixar sono loro gli estranei (nel premiato cortometraggio Tin Toy del 1988, germe del futuro Toy Story, il neonato è visto come un temibile mostro). Quando sono al centro della vicenda, invece, come in Gli incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi (2004), Up (2009) o Ribelle – The Brave (2012) (oltre a qualche cortometraggio, tra cui il premiato Il gioco di Geri del 1997), gli umani sono delle caricature o delle parodie della realtà.
Nella serie Toy Story gli umani che comparivano sullo sfondo ricalcavano, come aspetto fisico e come carattere, le persone reali. Vent’anni dopo, quelle figure umane tratteggiate dalla Pixar e lasciate sullo sfondo, diventano il centro della vicenda, o per lo meno al 50%. Riley e la sua famiglia, benché creati con la “fredda” computer grafica, hanno silhouette e sentimenti profondamente umani. In Inside Out il mondo “al rovescio” pixariano è ugualmente presente, ed è rappresentato dalle cinque bislacche figure che gestiscono le emozioni umane.
Lo stacco evolutivo che c’è tra Toy Story e Inside Out non risiede semplicemente nella tecnica, ma principalmente nel saper costruire una variegata scala di emozioni. Dopo quattro lustri la Pixar certamente porta avanti la tematica dell’importanza dell’amicizia (l’ultimo Toy Story 4 lo conferma), ma con Inside Out ha raggiunto un’acuta riflessione umana sugli stati d’animo. Le opere della Pixar sono create per dare allegria e gioia, ma l’aspetto malinconico è stato sempre presente, basterebbe citare il mesto cortometraggio Il sogno di Red (1988).
La tristezza/nostalgia di un passato che non potrà tornare, è stata rappresentata “en passant” in differenti opere, come per esempio nei primi due Toy Story oppure con toccante narrazione in Up (la nostalgia insita nell’animo del personaggio di Carl Fredricksen), ma in Inside Out viene esaminata con profondità.
L’importanza di Inside Out sta proprio nel sapersi districare bene su due piani: dare emozioni (allegria e lacrimuccia) agli spettatori, e allo stesso tempo analizzare le emozioni di un umano (in questo caso una bambina pre-adolescente). La perdita dell’infanzia, rappresentata in Toy Story 2 dal racconto del giocattolo Jessie, in Inside Out viene simboleggiata con l’“evaporizzazione” di Bing Bong, l’amico immaginario di Riley. Oltre a questo, c’è in questo cartone animato anche un interessante tentativo di spiegare la depressione, tema, in pratica, mai affrontato in un cartone animato.
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.