il film evento diretto da Francesco Fei, sceneggiato da Jacopo Ghilardotti e prodotto da Piero Maranghi e Massimo Vitta Zelman con Marco Colombo e Francesco Melzi d’Eril, è una produzione di Italia Classica, Skira Editore, Adler Entertainment, con il sostegno di Intesa Sanpaolo. Arriverà nelle sale solo il 27, 28 e 29 maggio distribuito da Nexo Digital per guidare gli spettatori attraverso una lettura originale e accurata delle opere e della vita di Caravaggio (1571-1610).
Dell’artista Caravaggio, pseudonimo di Michelangelo Merisi, si potrebbe scrivere di tutto e di più (non per questo è il secondo docufilm dopo: Caravaggio-l’anima e il sangue del 2017), uno dei più celebri pittori italiani di tutti i tempi, assurto a fama universale solo nel XX secolo, dopo un periodo di oblio.
Personaggio irrequieto, con la fama di violento, sempre pronto a sfidare chiunque anche per un’inezia, uno dei suoi tanti duelli finì in tragedia con la morte dell’avversario, ma grazie alla sua esplosione creativa ebbe molte attenuanti.
Ad accompagnare la visione del prodotto con dei capolavori come Davide e Golia, Deposizione, Marta e Maria Maddalena, Sacra famiglia con Giovannino, Ragazzo morso da un ramarro sino al Seppellimento di Santa Lucia, Resurrezione di Lazzaro, Adorazione dei pastori, ci saranno gli interventi di esperti autorevoli e di artisti: Rossella Vodret, massima conoscitrice di Caravaggio e curatrice della mostra Dentro Caravaggio a Palazzo Reale a Milano, Marco Carminati, critico e giornalista, Alessandro Morandotti, storico dell’arte e curatore della mostra L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri delle Gallerie d’Italia di Milano, Milo Manara, celebre fumettista e autore di una biografia per immagini di Caravaggio, Gennaro Carillo, professore ordinario di Storia del pensiero politico e di Storia delle dottrine politiche alle Università di Napoli, Giovanna Cassese, storica dell’arte già direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e attuale Presidente dell’ISIA Faenza, Caterina Di Giacomo, Storica dell’arte, attuale direttore del MuMe, il Museo Regionale Interdisciplinare di Messina, e del Museo Bernabò Brea di Lipari, Achille Mauri, Presidente di Messaggerie Italiane e della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri, e il duo di video artisti Masbedo.
Con Adam Bousdoukos, Vicky Papadopoulou, Toni Dimitriou, Özgür Karadeniz, Fatih Al.
Torna a casa Jimi è un esercizio cinematografico, al suo primo lungometraggio di finzione, del bravissimo regista Piperides, sicuramente apprezzato da critica e pubblico.
Racconta lo spaccato di vita di un giovane artista Cipriota, Adam Bousdoukos, lo ricordiamo in “Soul Kitchen” ed altri film, deluso dalla sua vita, lasciato dalla fidanzata e con qualche debito che non riesce a saldare: decide di trasferirsi in Olanda.
Una banale fuga del cane Jimi, adottato insieme alla sua ex, stravolge il piano di “fuga”.
Per Jimi scorrazzare da un quartiere all’altro sembra normale, per gli umani in una situazione come quella turco-cipriota e greco-cipriota no!!!
E’ dal lontano 1963 che la situazione non è stata ancora risolta,
Allo stato attuale la situazione non è ancora risolta e ha condotto alla spartizione de facto dell’isola tra la Repubblica di Cipro greco-cipriota, riconosciuta internazionalmente e membro dell’Unione Europea e l’autoproclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord (RTCN), che occupa la parte settentrionale dell’isola ed è riconosciuta solamente dalla Turchia.
Le citazioni che il regista evidenzia sono innumerevoli, con metafore ben orchestrate in chiave comica e con garbo.
Senza effetti speciali, ma con un’ottima fotografia e con una manciata di bravi attori, tra cui spicca il cane Jimi, promosso a co protagonista, fa diventare questa convivenza all’apparenza impossibile semplicemente o banalmente possibile, solamente conoscendosi, risolvendo pacificamente quello che combattendo non si riesce, come ha dichiarato il regista; costruire muri e dividere le persone non porta da nessuna parte.
Chissà quante sceneggiature inviate e mai lette! Ognuna di esse è un film mai nato.
In ogni sceneggiatura c’è il lavoro creativo di un filmaker che, deluso o disilluso, spera ancora in una risposta dalle case di produzione a cui ha inviato il suo testo.
Ma la risposta tarda o, come quasi sempre accade, non arriva affatto. Sono molti i filmakers che vorrebbero avere la certezza che il proprio lavoro sia stato almeno valutato e che vorrebbero avere un riscontro, seppur negativo.
A Milano c’è chi ha saputo leggere questo bisogno. Nella via Privata Martino Lutero 6, in zona Precotto, ha sede International Street Academy Filmakers (Isaf Academy), un’associazione senza scopo di lucro con l’intento e unico scopo di fornire ai giovani l’opportunità di imparare e di fare il mestiere del “filmaker” attraverso un servizio di consulenza e grazie a corsi di formazione che si tengono in sedi prestigiose di volta in volta ritenute più opportune ai fini didattici. Isaf, infatti, fornisce un servizio gratuito di consulenza ai propri associati (una sorta di “sportello del cinema”), valutando soggetti e sceneggiature e commentando i punti di forza o di debolezza degli scritti, indicando suggerimenti e proponendo spunti. Le opere meritevoli di attenzione, inoltre, vengono sottoposte a professionisti del settore (produttori, distributori) spesso difficilmente raggiungibili via posta.
Forte della consolidata esperienza dei suoi soci fondatori (produttori, registi, sceneggiatori “veterani” del settore cinematografico e televisivo), Isaf Academy propone, infine, 13 corsi professionalizzanti per chi ne avesse bisogno: recitazione, autore televisivo, sceneggiatura cinetelevisiva, produzione televisiva, produzione cinematografica Italia ed Europa, produzione cinematografica Usa (Majors), montaggio ed elementi di regia, regia per filmakers, filmaker (fund raising and film development), colonna sonora, doppiaggio, dizione, scenografia e arte della fotografia.
La forza di Isaf Academy sono anche i docenti, tutti professionisti di livello nazionale e internazionale (autori, sceneggiatori, produttori e registi) che operano da anni nel mondo del piccolo e del grande schermo e che possono offrire la propria esperienza e professionalità .
La Nuova Arte per un Mondo Nuovo è un documentario audace e scrupoloso. Racchiude il racconto di anni cruciali della storia russa e delle avanguardie artistiche che ne hanno cambiato per sempre il volto e lo fa con l’eleganza e la cura tipiche di Margy Kinmonth, pluripremiata autrice della BBC, già regista del documentario dedicato all’Ermitage e nominato ai BATFA.
Grazie all’accesso privilegiato a collezioni di importanti istituzioni russe, Revolution – La Nuova Arte per un Mondo Nuovo, che arriverà nelle sale italiane solo il 14 e 15 marzo nell’ambito della stagione della grande arte al cinema,si snoda attraverso le vicende rivoluzionarie che prendono il via nel 1917, fondendo i contributi di artisti contemporanei e di esperti d’arte con le testimonianze dirette dei discendenti dei personaggi che della rivoluzione russa sono stati gli assoluti protagonisti. Con questo mix ponderato e attento Revolution – La Nuova Arte per un mondo nuovoriporta in vita gli artisti dell’avanguardia russa e narra le storie di pittori come Chagall, Kandinskij, Malevic e dei pionieri che con loro accolsero una sfida utopica e ambiziosa: quella di costruire una nuova arte per un nuovo mondo, un’arte e un mondo che solo pochi anni dopo sarebbero stati bruscamente disconosciuti e condannati.
Attraverso preziose immagini d’epoca e i contributi di esperti come Direttore dell’Ermitage, Mikhail Piotrovsky e la direttrice della Galleria Tret’jakov (il museo moscovita che ospita una delle più grandi collezioni di belle arti russe al mondo), Zelfira Tregulova, il film indaga la storia e le opere delle principali correnti russe, dal raggismo al suprematismo, dal cubo-futurismo al costruttivismo e si interroga sul loro desiderio di liberarsi dal realismo per creare un’arte capace di recuperare l’originalità delle proprie radici. Un percorso artistico irrimediabilmente intrecciato alle vicende politiche della rivoluzione, che le avanguardie precedettero condividendone molte idee per finire poi perseguitate dopo la morte di Lenin. Grazie allo stile vivo e originale di questi artisti, la Russia divenne una punta di diamante dell’avanguardia europea, in ambito figurativo ma anche per quel che concerne la poesia, il cinema, il teatro.
Spiega Margy Kinmonth: “Perché la Russia? Come regista continuo a trovare tantissime storie da raccontare nel passato e nell’arte russa, storie che diventano per me fonte di ispirazione. In questo paese c’è una quantità enorme di arte, dipinti, romanzi, opere teatrali, balletti, opera, musica, architettura e soprattutto ci sono moltissime persone attraverso cui raccontare le storie stesse della Russia”.
FMM: Come è cominciata la tua avventura nel cinema?
CR: Non so neppure dire se sia mai iniziata, ho semplicemente realizzato qualche film.Diciamo che ad un certo punto della mia vita ho scoperto di amare la poesia ma di non saper scrivere. Ho avuto una strana vita, non saprei individuare con esattezza il momento esatto nel quale il cinema ha fatto irruzione in essa. Sono nato e cresciuto in una famiglia estremamente religiosa, in quella che le persone “comuni” non farebbero fatica a definire una setta. Fino ai miei 18 anni la mia esistenza è stata fortemente normata, disciplinata e forgiata da un’educazione molto rigida. Il mio carattere ribelle ha fatto sì che ne uscissi con conseguenze molto dure che perdurano a quasi venti anni di distanza da allora. Ad un certo punto ho intuito che il cinema, i film, erano come un singhiozzo per me. Un singulto da me e dalle mie pene e, al tempo stesso, un’emanazione di queste. Il cinema è la contemplazione e il dissolvimento nell’attimo presente, è viaggio sciamanico, è la piccola morte, è il dischiudersi del non-duale. Guarisce ed infetta, lenisce e divampa. É il dare voce alla coscienza del mondo nascosta in noi e alla coscienza nostra insita nel mondo. É cooperazione con le energie, è akasha, è śakti, è spirito santo, è kundalini. Ma è anche uno schifoso oggetto di consumo da collezionare, vomitare e defecare. Ha dunque potenzialità infinite. Insomma, tante chiacchiere per una risposta vaga.
Sul set di Ananke (foto di Mario Cichetti)
FMM: Quando e come è nata l’idea di “Ananke“?
CR: “Ananke” è nato da una preghiera, dalla spossatezza di vivere. Invece di mangiare il peyote e fare domande ho deciso di fare un film e cercarle lì. E ha funzionato, poiché da “Ananke” tante cose sono cambiate nella mia vita. Io e Betty avevamo preso in affitto una casa, la stessa dove viviamo ora, senza luce né gas, né acqua calda. Era il 2011, a dicembre, con la neve ed il freddo. E, come al solito, senza il becco di un quattrino. Di per sé questa non era una condizione che poteva mettermi a disagio. Ma era abbinata ad una situazione esistenziale davvero infame. Avevo seriamente smesso di capire il prossimo, non ne capivo le azioni, non ne condividevo le esistenze. Non provavo empatia per nessuno, coltivavo l’insofferenza e il rancore, senza motivi precisi. Ero dunque ad un passo dal non essere nemmeno più un essere umano. Mi sentivo disgustoso, apatico. Quindi abbiamo deciso di fare “Ananke“, per capire se là fuori c’era ancora vita. Se è giusto quello che siamo e come decidiamo di vivere. Cosa significa ‘giusto’. Cose così. La lavorazione di “Ananke” è una costellazione di ingiustizie. Non so ancora cosa sia giusto, ma ho sicuramente imparato cosa non lo è. Sono molto contento di averlo fatto.
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Quali sono state le maggiori difficoltà dal punto di vista tecnico nella realizzazione del film?
CR: Lavorare con un’emulsione fresca. “Ananke” era pensato per essere girato con pellicole Svema scadute da 40 anni, recuperate nell’ex Iugoslavia. Un film già vecchio e fragile ancor prima di essere montato. Poi è andata in modo diverso e abbiamo usato la Kodak Vision3, nuova. Ma ripensarlo con un’emulsione che restituiva un’immagine tanto diversa è stato molto difficile. Alla fine mi sono ritrovato per le mani un telecinema, che è una versione intermedia molto scadente, che di solito viene utilizzata per convenzione solamente per trasferire il film dall’emulsione al software di montaggio. Il master è ancora oggi un telecinema, poiché non ho il denaro per concludere la lavorazione presso il laboratorio. Dunque il master è tecnicamente molto scadente e conserva delle qualità molto interessanti, poiché è la scansione di qualità molto bassa di una pellicola di qualità molto alta. Dunque una involontaria povertà digitale in termini di nitidezza e definizione, che mi riavvicina un po’ all’idea iniziale, ma è completamente un’altra cosa. Un altro aspetto piuttosto impegnativo è stato realizzare la colonna sonora, suoni e composizione elettroacustica. Con Anthony Di Furia abbiamo optato per l’Ambisonics, uno standard che nel cinema non ha mai avuto fortuna, ma che è senza ombra di dubbio ancor più interessante ed espressivo dell’Atmos della Dolby.
Anthony Di Furia
FMM: Chi è stato il tuo braccio destro durante questo percorso?
CR: Betty naturalmente. In questo percorso come in tutti gli altri. Con lei ho creato la mia famiglia e creo i miei film, dunque siamo in comunione totale. Senza Betty e i suoi stimoli mi sarei già stancato del cinema e della vita.
Claudio Romane ed Elisabetta L’Innocente sul set del film
FMM: Quali errori non dovrebbe mai commettere un regista in pre, in post e durante la produzione?
CR: Quello di non cambiare idea, di blindarsi dietro a scalette, ordini del giorno e sceneggiature. Non deve smettere di osservare e lasciarsi guidare. E’ bene pianificare, o essere fedeli ad un’idea o ad un tema, ma non bisogna zittire il proprio intuito, la propria coscienza. Non vogliamo ammetterlo, perché altrimenti saremmo quasi tutti senza un lavoro, ma molte cose nel cinema non hanno niente a che vedere con i meriti umani. Una delle più grandi abilità di un cineasta è quella di annullarsi e mettersi in ascolto. Di suo deve solo mettere la capacità di non fare niente. Mettersi da parte, farsi attraversare da ciò che si filma, che si tratti di un albero, di un cane, di una sedia o di una persona.
Deve morire in quello che trova, non per quello che ha e che pensa di essere.
FMM: Rivedendo il film c’è qualcosa che cambieresti oppure l’attuale versione è un’autentica director’s cut?
CR: É inevitabilmente il frutto di scelte, è uno degli infiniti film possibili. A distanza di tempo, se dovessi farlo ora, sarebbe diverso, credo sia naturale. Ma “Ananke” è quello che doveva essere nel 2015, quindi è quello che deve essere ora. Dovrei vederlo in pellicola per rispondere alla tua domanda correttamente, è quella la versione definitiva del film. Versione che non ho mai visto né conosciuto, come dicevo poco sopra.
FMM: Cosa vorresti che notassero gli spettatori nella tua opera?
CR: Se stessi. In un uomo, una donna, una capra, una bimba e un albero. Vorrei che immaginassero cosa c’è fra un’inquadratura ed un’altra, fra gli stacchi di montaggio. Vorrei che abitassero quelle frazioni nere. É quello “Ananke“. Ed è quella la necessità del cinema.
FMM: Qual è il complimento più bello per un regista?
CR: Non so, un regista non dovrebbe mai ricevere complimenti. Il rischio è quello di illuderlo di avere meriti, mentre il suo compito è azzerarsi, annichilirsi. Si parla dello sguardo di questo o quel regista. La questione dello sguardo per me è semplice: non si tratta di decidere da che angolazione, posizione e in quale modo osservare e raccontare le cose, ma decidere la posizione dalla quale si sceglie di morire. Per me fare un film è inseguire un ricordo, un qualcosa che è già morto qui nel momento in cui si è manifestato. Ma anche da morto quel ricordo continua a manifestarsi; mediante un film, ad esempio, che è uno squarcio fra mondi. Il ricordo è una realtà parallela che vive di vita propria ed esiste altrove, come le anime dei morti. Ne cerco i riverberi nella “nostra realtà” filmabile e con essi tento di ricongiungermi. Come l’indio cacciatore, che con la rana si avvelena per vedere meglio di notte, nella selva. E alla fine solo io posso essere testimone di questa esperienza. Quello che dicono gli altri non ha nulla a che fare con questo.
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Parlaci dei tuoi nuovi progetti.
CR: Con Betty ho da poco terminato “Incanto”, il nostro secondo lungometraggio. Si può considerare il sequel di “Ananke”, o il prequel di “Liebe”, non saprei proprio. Ecco, “Liebe”, probabilmente è il sequel di “Incanto”. É la scoperta dell’amore nell’aldilà, nel cinema e nella vita. Che poi sono tre modi diversi per definire la stessa cosa: l’esistenza che si dispiega sulle possibilità. Questo film è ancora in fase embrionale, non abbiamo ancora appoggi produttivi. Dobbiamo ancora individuare la strada da seguire, non sono molti (nessuno?) i produttori che ci appoggiano. Ma sia io, che Betty, siamo ottimisti.
Marco Casolino, protagonista di “Ananke” (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Un augurio per un giovane autore.
CR: Di essere sempre umile ed umano, vicino a se stesso e a ciò che lo circonda. Di non sedersi mai e di aver fame e voglia di conoscere meglio i misteri che ci avvolgono, ovunque egli li individui. Di non essere avido, di non badare alle cose materiali. Di essere un buon vicino di casa, un buon cittadino, un affabile amico per gli sconosciuti. Di continuare a studiarsi e studiare, di cambiare sempre idea, di non essere mai coerente con niente e nessuno. Di avere rispetto, di non perdere tempo e di coltivare l’ozio e il silenzio. Di saper ascoltare i piccoli oggetti, gli animali, le persone vicine e lontane, la luna, il vento e la notte e le anime dei defunti. Di continuare ad amare fino all’ultimo alito di vita. Insomma, di essere felice.
Italo Petriccione, pluripremiato direttore della fotografia, nonostante un David di Donatello vinto nel 2004 con il film ” Io non ho paura” e, prima ancora, l’ Oscar assegnato a ” Mediterraneo” nel 1991, ha ancora l’ aria e la semplicitá di un ragazzo che parla del proprio mestiere come un’ artigiano della luce e del colore.
Lo incontro poco prima dell’inizio di una lezione magistrale presso l’ ICMA di Busto Arsizio, atteso da una folta platea di giovani studenti, futuri professionisti del cinema.
Italo Petriccione si mostra generoso ed accogliente con gli studenti, parlando volentieri di sè e della sua arte; uno di quei rari casi in cui il talento non è solo manifesto ma anche didattico.
Come si diventa direttori della fotografia? Qual’ è stato il tuo percorso?
Dopo aver maturato esperienza come fotografo, sopratutto di still life, presso alcuni studi milanesi, ed aver incontrato alcuni produttori come Minnie Ferrara e Bruno Bigoni, mi sono avvicinato al cineclub Obraz di Milano dove mi sono formato in termini di conoscenza del cinema, grazie alle bellissime rassegne da loro organizzate . Mi sono poi iscritto alla scuola di cinema Albedo, che prevedeva l’ ammissione di solo 20 partecipanti, dove per un anno e mezzo abbiamo lavorato fianco a fianco con importanti professionisti, é stato un periodo meraviglioso.
Terminata la scuola la situazione era durissima e il lavoro era poco e difficile da ottenere, quando stavo per gettare la spugna sono stato preso dal teatro di posa ‘ Ferrante Apporti’ e, dopo qualche lavoro gratis, sono stato preso come assistente operatore.
Quando e come avviene l’ incontro con Gabriele Salvatores con cui hai realizzato 14 film, vinto un Oscar, un David di Donatello e con il quale tutt’ora collabori?
L’ incontro con Gabriele è avvenuto in giovane etá ed è stato prima personale che professionale; avevo circa 12 anni e lui era il fidanzato di mia sorella e trascorrevo molto tempo con loro. Per me è stato da subito una persona speciale e, dopo la scomparsa di mio padre, è diventato un punto di riferimento; lo considero un fratello maggiore.
Il primo film realizzato insieme è stato “Marrakech express” nel 1988 che, nonostante il budget limitato, solo 7 settimane di riprese, la troupe che di spostava in bus, riscosse un ottimo successo e fu un vero e proprio piccolo caso cinematografico. Da lì il produttore del film ha adottato il principio ‘ squadra vincente non si cambia’ e quindi la collaborazione è felicemente continuata con ” Turnè” e poi con ” Mediterraneo” che vinse l’ Oscar.
Dei tanti film girati, non solo con Salvatores, ma anche con la Comencini, con Corsicato, Virzí, D’ Alatri, per citarne alcuni, qual’ è stato il più complesso e quale di maggior soddisfazione?
Il primo film che mi ha fatto dire : “bravo, mi sei piaciuto” è stato ” Denti” perchè è un film che mi ha permesso di entrare in una dimensione più onirica ed emozionale. Il fatto che il protagonista fosse sotto effetto di analgesici ed avesse delle visioni mi ha permesso di essere più ‘ fantasioso’ e ho potuto fare cose che mi sono piaciute molto ed utilizzare obiettivi particolari con un fuoco spostato.
“Io non ho paura” è stato senz’ altro il film che mi ha dato grandi soddisfazioni e che mi è piaciuto molto girare. Sul set avevo la possibilitá di visionare quotidianamente il girato con Salvatores e con il resto della troupe e questo ha contribuito a creare un atmosfera condivisa da tutti i professionisti coinvolti: costumisti, scenografi, operatori di ripresa. È stato importante percepire il coinvolgimento emotivo di tutti, che è poi sfociato nel grande successo del film. Inoltre per la fotografia di questo film ho fatto delle scelte artistiche azzardate e coraggiose che si sono rivelate vincenti.
Nel corso degli anni la tecnologia è molto cambiata, che impatto ha avuto sul tuo lavoro?
Enorme. Il modo di lavorare si è completamente modificato. Adesso passo la maggior parte delle riprese lontano dal set, davanti ad un monitor, sotto una tenda nera. Solo così mi è possibile vedere il risultato della mia impostazione della fotografia e quindi dell’ atmosfera del film. Adesso a fine giornata il girato è molto simile al risultato finale del film.
Con l’ avvento del digitale che è più sensibile, elastico e duttile, la luce viene utilizzata a dosi inferiori. Io cerco comunque di lavorare sempre con la luce per cercare l’ atmosfera che ho in mente e di non accontentarmi di quello che c’ è altrimenti l’ immagine rischierebbe di sembrare più simile ad una trasmissione televisiva o al giornalismo di cronaca, oppure si rischia di doversi affidare in post produzione ad un colorist, che però rischia di uniformare un pò troppo il colore e di compromettere quindi il risultato finale.
Le macchine da presa digitali sono sofisticate e duttili e hanno grandi potenzialità. Purtroppo il mercato tende a sfruttare l’ innovazione tecnologica per levare e non per andare in profonditá.
Cosa ti auguri nel futuro?
Come prima cosa mi auguro di sopravvivere (ride). La situazione del cinema italiano è sempre più difficile e le sale cinematografiche fanno sempre più fatica a riempirsi.
Personalmente mantengo alta e sempre viva la mia naturale curiositá verso le nuove tecnologie continuando ad essere propositivo nella mia professione.
Ai giovani che intraprendono questo mestiere auguro di essere in grado di utilizzare al meglio le nuove tecnologie e non di esserne usati come, sempre più spesso, accade.
Quando finalmente verrà distribuito nelle sale in tutto il mondo (Italia inclusa), Colossal sorprenderà tutti. Forse il marketing potrà farlo pensare come ad un film stile Godzilla, un mash-up tra mostri, dramma e soprannaturale. Ma non è solo questo quello che pensa Nacho Vigalondo, lo scrittore e regista del film.
“E’ un mix” spiega. “Il 50% deriva dal mio amore verso i film di mostri (in Giappone chiamati Kaiju). La premessa iniziale è il mio modo di affrontare quei generi in modo divertente e, allo stesso tempo, accessibile a me come regista. L’altro 50% è la mia vita, tutti i miei momenti bui e brillanti”.
Scritto e diretto da Vigalondo, Colossal racconta la storia di Gloria (Anne Hathaway), una donna che è dominata dalla sua dipendenza da alcol. Dopo che il suo ragazzo (Dan Stevens) rompe il loro rapporto e la getta fuori di casa, Gloria torna alla sua casa di famiglia, nel tentativo di ritrovare se stessa, ancora una volta. Mentre il mondo intero si occupa di una “crisi Kaiju” catastrofica in tutto il pianeta, Gloria trova un lavoro in una bar locale e ristabilisce i rapporti con il proprietario (Jason Sudeikis), un amico d’infanzia con il quale aveva perso i contatti. Mentre i due cominciano a ricordare e ricostruire, Gloria si rende conto ben presto che lei ha una strana connessione con gli eventi che si svolgono dall’altra parte del mondo.
Vigalondo è stato sicuramente baciato dalla fortuna quando ha avuto l’opportunità di lavorare con una star del calibro della vincitorice dell’Oscar Hathaway e con un veterano della commedia come Sudeikis, soprattutto considerando che i loro nomi gli sono stati proposti e non è stato lui a cercarli. “Sono stati i primi nomi che mi hanno proposto ed oggi non riesco a pensare a nessun altro migliore per questi ruoli”, riflette. “Hanni talento, sono intelligenti ed entrambi sorprendenti.”
Altro aspetto di Colossal è la svolta interessante data al genere Kaiju ed alla sua impostazione, spostando il mostro (ed il caos da esso creato) dal tradizionale Giappone a Seoul in Corea. Per Vigalondo, tuttavia, l’impostazione in realtà parla più del modo in cui la cultura americana si pone di fronte ai disastri che si svolgono in tutto il mondo e che non la riguardano direttamente. “Seoul rappresenta i ‘non-USA’, è una nazione alle prese con un disastro che gli americani nel comfort delle loro case contemplano, cercano di capire e commentano facendoci battute anche a volte scherzose.”
Un altro Set importante per il film è il piccolo bar del luogo ove Gloria lavora e dove gli amici si riuniscono ogni sera. Raccogliendosi insieme fino all’alba per bere e raccontare storie, questa location sembra assumere il ruolo di un santuario per i personaggi del film. Tuttavia, Vigalondo ritiene inoltre che il bar porta con sé anche un elemento di pericolo. “Non solo il bar, ma più specificamente quella specie di “caverna” simile ai saloon del vecchio West in cui gli uomini si riuniscono il luogo insomma dove si beve dopo le 2 del mattino. Quel posto sembrerebbe un ultimo rifugio per questi personaggi, ma si tratta di un trappola. Anche io un tempo ci sono stato.”
Ciò che distingue Colossal dai tanti altri film di mostri (diversi, senza dubbio, i film kaiju sviluppati in Asia) è la sua capacità di bilanciare il dramma focalizzato sui personaggi con i mostri della città devastata. Vigalondo ammette che il film serve da metafora per la lotta di una donna contro la dipendenza. “Il film si pone come un ammonimento contro l’alcol e la dipendenza”, spiega, “ma rivela anche qualcos’altro mentre la storia si sviluppa. Il mostro inizialmente sembra essere una proiezione dei problemi di Gloria (Anne Hathaway), ma poi vediamo che in realtà è semplicemente lei”.
Naturalmente, ogni film è meglio con una Anne Hathaway nel cast. Con il suo incredibile talento e la gamma di emozioni che riesce ad esprimete, Hathaway è in grado di ritrarre Gloria come una donna dapprima “sconfitta” e dolorante e poi gradualmente alla riscoperta della sua forza e di una speranza. Quando chiediamo da dove proviene questa speranza, Vigalondo spiega che crede che il vero potere di ogni essere umano si rivela solo quando siamo costretti a fare cambiamenti nelle nostre vite.
“Questa è stata una delle parti più difficili mentre scrivevo la sceneggiatura. Come posso fare questo personaggio sopravvivere a questa situazione, mentre si cercano di salvare quante più vite possibile? Come nella vita reale, per cambiare, è necessario arrivare un punto di rottura e, dopo di che, è necessario pensare a te stesso in termini nuovi. Fuori dagli schemi. Questo è quello che fa Gloria, non essere più forte, ma cambiare la natura della sua forza.”
Con Colossal Nacho Vigalondo ha creato qualcosa di veramente unico e accattivante. Dalla sua miscela unica di cinema indie e kaiju incentrata sui personaggi, Vigalondo riesce ad esplorare il danno che può essere fatto alle nostre anime dagli altri, pur offrendo elementi sci-fi e umorismo. Sia divertente che serio, il film vi offrirà veramente qualcosa che non avete mai visto prima. Conclusione? Un film a nostro parere assolutamente da non perdere!
Colossal verrà distribuito in USA e in tutto il mondo entro il primo semestre del 2017, dopo aver già avuto la sua premiere mondiale al Toronto International Film Festival nel mese di settembre 2016 ed è stato poi presentato al Festival internazionale di San Sebastian (Spagna), al Fantastic Fest di Austin (USA) ed al Festival del cinema fantastico di Sitges (Spagna).
Finalmente il coraggio di girare un film fuori dal coro in mezzo a un mare di drammi e di commedie. Ci sintetizzi trama e senso del film?
Il film e’ essenzialmente un racconto di formazione che ha al centro una bambina di 8 anni. Nell’arco del film diventa adulta nel momento in cui critica l’operato dei genitori, lanciando loro un segnale di allarme e di disperato aiuto. Abbandona l’universo infantile ed ha bisogno di una guida che stenta a vedere nei propri genitori. E’ in gioco il suo futuro, non vuole cedere all’angoscia per le sue sicurezze che stanno per incrinarsi.
Nel film si contano ben 21 personaggi, c’è per te un vero protagonista?
Il racconto è stato quasi completamente svuotato di plot narrativo. La bambina cade in un buco scavato in una specie di cava e vive la propria trasformazione accanto a persone a loro volta piombate nello stesso posto. Tutti scappano da un misterioso attacco che ha cancellato le loro identità, un attacco alle loro sicurezze borghesi, un attacco che distrugge rapporti famigliari ed equilibri sociali faticosamente raggiunti.
Un brandello di umanità che pur essendo in una situazione di mistero e pericolo cerca di sopravvivere aspettando che la situazione cambi. Il ritmo della vita odierna in cui non abbiamo più’ tempo o dove il tempo non esiste più, dove parliamo tutti di noi e tra noi senza apparenti pudori, si è improvvisamente annullato ed ha perso significato. La morte ha perso significato. Infatti il rapporto madre e figlia più sviluppato nel racconto è esemplare, con il suicidio della madre sparisce questo ruolo lasciando nel buco tutte donne senza figli o famiglia.
La nostalgia per il passato non c’è più, l’oggi è stato distrutto. Come hai lavorato con questo elevato numero di attori?
Agli attori ho dato pochissimi appoggi sui personaggi da loro interpretati, non sapevano nulla o quasi su chi fossero, m’interessava vedere un gruppo di persone in una situazione anomala ed estrema senza più legami con la loro identità sociale passata. Poca trama, solo il presente, un cast poco omogeneo e catturato da diverse esperienze lavorative. Gli attori sono il personaggio, ho adattato le caratteristiche della persona/attore al personaggio stesso.
E’ un film che si può’ definire indipendente?
Il film, prodotto da “L’Isola Produzione” e’ stato girato in 18 giorni, finanziato dal Mibact e dalla Film Commision Lombardia, film indipendente anche se ha avuto una distribuzione ufficiale con Istituto Luce.
D.A.D. e’ un film che sicuramente definiamo fantasy, sei d’accordo?
La parte centrale di questo film chiaramente metaforico ed onirico è stata girata con inquadrature medio-larghe, soprattutto con il 50 e 35 mm. Questo per rendere efficace la messa in scena corale e per dare un impianto realistico ad una struttura drammaturgica comunque astratta e fantasy. Il prologo ed epilogo, apparentemente più realistici, invece procedono per ellissi e jump-cut.
Marco Maccaferri sul set di D.A.D.
Il genere del film è fantasy, sicuramente un genere poco praticato in Italia poiché poco incoraggiato da produttori e distributori e tutto sommato guardato con diffidenza dagli spettatori troppo attratti dai Maestri americani. Io sono un appassionato del genere fantascienza, horror e fantastico in generale, fin da quando da bambino divoravo i racconti della collana ‘Urania’. Ho sempre pensato che il mistero insito nel racconto fantastico spiazzi lo spettatore ed i protagonisti stessi della storia, stravolgendo le loro vite ed i loro sguardi, aprendo al tempo stesso un universo sconosciuto ed affascinante da esplorare. Il film che mi ha illuminato e’ stato ‘Gli uccelli’ di A.Hitchcock, una storia edipica tutto sommato scontata ma folgorata, incoraggiata e risolta dall’apparizione e cambiamento degli uccelli, solitamente innocui ma ora crudeli ed assassini.
Come la vita degli uccelli può cambiare, potrebbe cambiare anche la nostra, no?
Asphyxia di Alessandra Angeli è un mediometraggio di ben 45 minuti che sarà presentato al festival di Cannes nella sezione “Short Film Corner” il prossimo 20 maggio nella sala F del Palais du Festival (alle ore 11,50 per i fortunati che si aggireranno da quelle parti). La fantascienza al femminile italiana, accomuna tre elementi uno più raro dell’altro senza che si sappia bene da dove incominciare. La storia è ambientata in un futuro prossimo dove Emily, Michael e Connor sono costretti a fuggire e a rifugiarsi in un mausoleo in rovina, guidati da Ivan, un militare. I rifugiati si preparano a incamminarsi per ritrovare i propri familiari. Nella veglia e nel sonno i loro ricordi ci mostrano come hanno dovuto cominciare a vivere costantemente tramite bombolette d’ossigeno e perché sono dovuti fuggire. Una forma d’inquinamento ignota ai comuni cittadini sta moltiplicando i suoi effetti nella terra, nell’acqua, nell’aria e sta cominciando ad agitare i cieli. La crosta terrestre sta soffrendo e reagisce togliendo la linfa vitale: l’ossigeno.
Abbiamo incontrato l’autrice Alessandra Angeli che ha curato la sceneggiatura, la regia e la produzione.
MMM: Come è nata l’idea di Asphyxia?
AA: Il soggetto è stato concepito nel 2009 quando stavo per prendere la laurea breve nel Cinema all’Università di Pisa. Dopo aver partecipato a vari lavori e averne visionati altrettanti, per la maggior parte secondo me di qualità molto in difetto rispetto alle produzioni estere, ho sentito la forte necessità di esprimermi.
MMM: Ma nelle intenzioni era un corto o un lungometraggio?
AA: Scrissi la sceneggiatura per un lungometraggio. Volevo combinare un’idea forte, originale, che non si fosse ancora vista in nessun film, insieme al mio genere preferito, quello fantascientifico-catastrofico. Il genere fa pensare a un’impresa impraticabile per una troupe indipendente. L’idea mi è venuta guardando un video di sensibilizzazione verso l’ambiente: l’inquinamento è aggravato dalle deforestazioni e dalle ingenti emissioni di CO2 che ogni anno immettiamo nell’aria. Così ho combinato il mio genere preferito con un tema a me molto a cuore, quello dell’ambiente, e con un’idea catastrofica praticamente invisibile e, se non verosimile o futuristica, già attuale: quella dell’ inquinamento dell’aria. Ho portato alle estreme conseguenze quello che potrebbe succedere se continuassimo ad ignorare i vari accadimenti devastanti causati dall’inquinamento, sentori che ci avvisano già tutti i giorni da tutte le parti del mondo e che ci danno preoccupanti previsioni sul futuro, il tutto collocato in un’atmosfera post-apocalittica.
Dopo aver scritto la sceneggiatura adatta per un lungometraggio, ne ho ricavato una riduzione diversa e più semplice per la realizzazione di un mediometraggio.
Alessandra Angeli
MMM: come trovare le location giuste e rendere l’atmosfera per un progetto così ambizioso?
AA: Trovare i luoghi giusti per un’ambientazione apocalittica non è stato difficile. E’ bastato guardarsi intorno, tutto quello di cui c’era bisogno è già presente sul nostro territorio senza dover ricorrere necessariamente a studi cinematografici. L’ambientazione è riuscita grazie anche al contributo degli oltre 100 effetti visivi realizzati da Alessio Barzocchini e all’accurato lavoro di color correction d’ambientazione eseguito da Samuel Giraffi e da me. Sul nostro territorio abbiamo paura di azzardare generi diversi da quelli che sono sulla nostra strada, ma è proprio questa la sfida che dovremmo imporci non solo per tornare sui nostri passi, ma per competere con il cinema di seria A.
Importanti collaborazioni, da parte di chi si era interessato alla sceneggiatura, hanno reso l’ambientazione futuristica, come quella del Prof. Gianfranco Rizzo della facoltà di Ingegneria dell’Università di Salerno che ci ha raggiunti fin sul nostro set con un’auto di ultima generazione, ibrida e con impianto fotovoltaico, una macchina ad alimentazione solare che ha fatto parte delle scene del film, guidata dai nostri protagonisti. Il gruppo di softair del Battaglione Lucchesia ha partecipato come truppa militare a bordo dello scenografico hammer.
La giornalista del Tirreno Rossella Lucchesi come giornalista televisiva. Il giornalista televisivo Giuseppe Bini come meteorologo. La combattente militare Camilla Daldoss. L’aggressore sciacallo Victor Deda e tutti gli aggressori del corso di Wing Chun del maestro Romeo Michelotti per le scene di combattimento. Il cantante lucchese Gildo dei Fantardi come barbone ecc ecc.
MMM: Oltre ad autrice sei però anche attrice.
AA: Nel film ho interpretato uno dei miei quattro personaggi protagonisti, Emily. Gli altri personaggi coprotagonisti sono interpretati da Alessandro Baccini, Moreno Petroni e Michael Segal. Gli oggetti del desiderio dei protagonisti, impegnati nel ritrovamento dei propri familiari, sono interpretati da Daniela Bertini e Andrea Vangelisti.
MMM: Parlaci del cast tecnico
AA: Per il film ho rivestito spesso vari ruoli che costituiscono una troupe intera. Questo è ciò che può comportare la realizzazione di un film indipendente. Sul set non ci sono state praticamente donne, ma è stato molto difficile anche per uomini e ragazzi reggere il ritmo di un progetto così impegnativo. Abbiamo svolto le riprese spesso al freddo, nel fango, sotto la pioggia e con tempi stretti; insomma non è stata una passeggiata. Oltre all’organizzazione e alla regia ho curato il montaggio. La musica originale a cura di Giovanni Puliafito ha calato il film nella giusta atmosfera; il sound design, ricreato quasi interamente in post-produzine, è curato da Andrea Pasqualetti; alla camera Simone Tognarelli, già selezionato lo scorso anno nella stessa sezione al Festival de Cannes con un proprio cortometraggio; come prezioso assistente di regia tuttofare, Antonio Ferazzoli, senza il quale tante scene non avrebbero potuto essere girate.
MMM: Qual è il percorso intrapreso ora da Asphyxia?
AA: Il teaser trailer di Asphyxia, prima ancora che fosse terminato, fu selezionato dal Trailers Film Festival di Catania nella sezione “Pitch Trailer”. Il trailer in seguito è stato presentato nella sala conferenze della Camera dei Deputati a Montecitorio in occasione della proiezione del film “Una Ragione per Combattere” di Alessandro Baccini.
Adesso siamo in attesa della proiezione all’interno del Marché del Festival de Cannes, stante la difficoltà dei cortometraggi di vedersi distribuiti, questo lo consideriamo già un bel traguardo.
L’obbiettivo principale però sarà quello di vedere la sceneggiatura di Asphyxia diventare un film vero e proprio per il cinema.
Roberto Albanesi, classe 1986, nasce vive e cresce a Casalpusterlengo (fra Lodi e Piacenza) dove, sin dagli 11 anni d’età, scrive e dirige opere proprie, prima con l’aiuto di amici NON attori e poi con veri e propri professionisti del settore (da citare i suoi attori feticcio William Angiuli, Ivan Brusa, Stefano Galli, Paolo Riva, Jack Gallo e Roberta Nicosia) affiancati sempre da amici NON attori (giusto per ribadirlo). Fonda varie case di produzione, prima la MaGestic Film, poi la Viserba Film ed infine la New Old Story Film di Casalpusterlengo.
MMM: Ciao Roberto, che cos’è per te il cinema indipendente italiano?
RA: E’ un mondo che non appare su nessuna carta geografica. Un luogo in cui, grazie alle nuove possibilità della ripresa digitale, ognuno porta la sua visione su “pellicola”. C’è chi lo fa con idee brillanti (e per questo viene seguito da un certo numero di “fan”) e chi no. In ogni caso, non si fanno soldi neanche per errore. Io infatti lo faccio per un’esigenza interna… se non lo facessi, se non creassi le mie opere, credo che mi sentirei come un vecchietto senza il suo cantiere da guardare.
MMM: Riterresti le tue idee brillanti???
RA: Le mie idee DEVONO essere brillanti, per me intendo, se no non mi ci ammazzerei per realizzarle. Poi, ovviamente, spero che queste idee e queste buone vibrazioni passino agli spettatori. Per me il pubblico è sacro ma prima di tutti il lavoro deve piacere a me.
MMM: Come è cominciata la tua avventura nel cinema???
RA: Quando ero piccolissimo i miei genitori mi portavano al cinema solo una volta all’anno… il 31 Dicembre. Attendevo quel giorno tutto l’anno… era un vero e proprio evento per me.
I miei non erano appassionati né di cinema né di scrittura ma, in qualche strano modo, la cosa è nata in me. E’ stato lì che mi sono detto: “ma io questa cosa qui la devo fare, non mi basta vederla”.
MMM: Stando alla tua biografia ufficiale, hai lavorato anche in una videoteca, giusto?
RA: La svolta definitiva. Avevo 11 anni e da cliente OSSESSIVO COMPULSIVO del Videoclipper di Casalpusterlengo, sono diventato “dipendente”. Mi spiego meglio… non è che mi hanno messo a lavorare ad un 11 anni è. Semplicemente, dopo scuola andavo lì e passavo tutta la giornata fino alla chiusura a mettere apposto gli arrivi, a preparare gli ordini e a consigliare a chiunque il film da vedere la sera stessa. Ho avuto a che fare anche con vecchietti di 70 anni che mi chiedevano film “FORTI, CON RAGAZZE ORIENTALI ED ANIMALI”. In quei casi il mio “capo” prendeva la parola.
MMM: Il tuo primo lavoro???
RA: Era il 1999 e con la telecamera a vhs (quelle enormi da primissimi compleanni/battesimi/matrimoni) del padre di un mio amico, scrissi e diressi un film d’azione dal titolo “Ex Squad“. Io ed i miei amici barricati in una cascina, cercavamo di fermare i piani criminali di un mega dittatore pazzo che voleva distruggere il mondo utilizzando il “VIRUS SUPER SUPER LETALE”. Una stronzata divertentissima. A ripensarci mi torna sempre il sorriso.
MMM: Hai fatto degli studi poi?
RA: Certo… Ho visto tutti i film di John Carpenter,John Landis e di Tullio Giordana. Ecco la mia scuola.
MMM: Autodidatta insomma.
RA: Se vogliamo metterla così sì.
MMM: Poi un giorno ti contatta Alex Visani e ti dice…
RA: Mi dice che il primo corto che ho realizzato con Simone Chiesa e la NOS FILM (“Happy Birthday” Ndr.) gli è piaciuto da matti e che ci vorrebbe a bordo, per un film antologico che omaggia il cinema B degli anni 80. Prima che finisse la frase gli dissi sì a nome mia e della truppa…e così nacque “The Pyramid” .
MMM: Distribuito in Usa, Giappone e Canada.
RA: All’inizio del progetto sapevamo che qualcosa stava accadendo… ovviamente non pensavamo di ottenere questi risultati.
MMM: La cosa immagino che ti abbia fatto gonfiare il petto.
RA: Eravamo tutti molto orgogliosi, insomma, siamo gente di Casalpusterlengo noi.
MMM: E poi arriva Lorenzo Lepori…
RA: Io e Lorenzo Lepori siamo stati amici di penna (ebbene sì, amici di penna nell’era digitale) per anni, ci scambiavamo anche i nostri lavori più o meno professionali e ci divertivamo commentarli. Questo avveniva da prima di “The Pyramid“. E poi un giorno se ne esce con il propostone: “STO FACENDO UN FILM ANTOLOGICO TUTTO SCRITTO E DIRETTO DA ME, TI ANDREBBE DI FARMI UNA BELLA CORNICE PER LA STORIA?”
Fui felice da subito.
MMM: Ti parlò dell’idea dell omaggio ai vecchi fumetti italiani degli anni 70 ed 80, quelli con…
RA: …con le donne nude, i mostri ed i mortammazzati! Certo. Infatti accettai subito per quello… ottima idea e la possibilità di realizzarla con una persona pazza come Lorenzo. I pazzi stanno bene con i pazzi.
MMM: Da quello che uno può pensare, da fuori, tu sei un REGISTA HORROR a tutti gli effetti.
RA: Assolutamente sì. Da fuori. Poi però quando la gente vede quello che faccio resta parecchio stranita. Pensano tutti di trovarsi davanti ad un HORRORONE CLASSICO (e “The Pyramid” lo è, ma solo quello) e invece si ritrovano a ridere molto. Perché da fuori uno può pensare che io sia un HORROR DIPENDENTE, ma non è così. Amo i film dell’orrore perché permettono a chi li racconta (e a chi li guarda) di prendersi determinate libertà, ma allo stesso tempo lo fanno anche le commedie. Io sto lì, fra un genere e l’altro. Non per niente chiesi subito a Lorenzo la libertà totale per fare una COSA MIA… Infatti, guardando “Catacomba“, noterete che si passa da una storia parecchio demenziale (la mia) ai vari pugni nello stomaco girati da Lorenzo.
una scena da “Catacomba”
MMM: L’effetto finale effettivamente è strano.
RA: Ma funziona. Questo non lo dico io ma il pubblico della prima. Abbiamo proiettato il film a Marzo vicino a Montecatini. C’è stata una bella risposta del pubblico. Durante il film sentivo alternarsi le risate per il mio episodio cornice ed il digrignare i denti per le 4 storie del Lepori. Esattamente ciò che ci eravamo prefissati… un giro sulle montagne russe fra una risata ed un brivido.
MMM: Il film poi ha un gran ritmo.
RA: Questo mi rende felicissimo. Il mio dictat è “NON FARLI ANNOIARE” e quindi il ritmo è legge. Se perdi il pubblico è finita. Ovvio che poi insieme al ritmo ci deve essere il contenuto.
MMM: Progetti futuri?
RA: Ora sta uscendo il mio primo lungometraggio in solitaria. “Non Nuotate In Quel Fiume”. L’ho girato con 80 euro e tutti gli amici (non attori) e gli attori (anche amici) che volevo. Sono felicissimo… è un bel periodo per la mia creatività, il rubinetto della mente va che è un piacere.
MMM: Vorrei chiudere alla Marzullo. Caro Roberto, fatti una domanda e datti una risposta.
RA: Un sogno che si avvera! Allora… Mmmmmmmm…ok
“SECONDO TE, DIO ESISTE?”
“Il fatto stesso che al Mondo esista Bruce Springsteen ed i peperoni ne è la conferma”
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.