Che la stupidità sia il nostro pane quotidiano lo dimostra il livello della pubblicità, che ormai ha intrapreso la discesa verso gli strati più bassi della conoscenza e quelli più miserabili della convenzionalità.
Perché ciò avviene lo spiegano i tecnici del marketing, che avendo assunto come principio base che l’essere umano è un povero deficiente, gli danno in pasto quello che può digerire, cioè le immagini di una realtà fatta su misura per le sue povere capacità.
Ecco che allora il bucato lo fanno uomini giovani accompagnati dai figli, esibendo misteriosi accrocchi colorati, i piatti vengono controllati da altri uomini che la Hunziker descrive “con la faccia soddisfatta” presupponendo di vivere con uno di questi in una casa modesta, e non come sanno tutti in un luogo faraonico col suo vero e ricchissimo fidanzato, ecco che automobili identiche tra di loro, di colore giallo ocra, di forme simili a melanzane, suscitano l’interesse di donne bellissime, ecco che famigliole ridanciane fanno colazione in cucine di 50 metri quadri con la prole bellissima e buonissima, ecco che divani di ogni taglia vengono venduti ad attori che invece incassano centinaia di migliaia di euro per far finta di comprare, ecco che gentili hostess o impareggiabili funzionari ricevono poveri allocchi in banca offrendo i migliori servizi, quando tutti sanno che in banca è difficile ormai anche solo entrare e che se non sei Tronchetti Provera non ti saluta nessuno, ecco che finanziarie usuraie ti consentono di rifare il bagno di casa prestandoti i soldi appena entri, ecco che un bel giovanotto targato Enel si avventura in una strada inventata piena di gente sorridente compiendo miracoli a costo zero, ecco che casalinghe brutte e grasse, come vengono immaginate le casalinghe più povere, dibattono sui detersivi, mentre quelle ricche e belle, interpretate dalla ex moglie di Totti, dormono fino alle 11 di mattina, ecco uccellini parlanti che conversano con un calciatore per reclamizzare un’acqua minerale, ecco donne che abbracciano una forma di formaggio con passione, ecco giovanotte procaci che fanno finta di sorseggiare un caffè napoletano da una tazzina vuota, ecco Gerry Scotti che reclamizza tanti di quei prodotti che non li riconosci più, e potrei continuare all’infinito, perché infinito è il campo delle idiozie, delle falsità, delle mistificazioni che ogni minuto pervade l’etere. Quando molti anni orsono, un signore di grande capacità imprenditoriale, titolare di una famosa emittente televisiva mi sintetizzò lo spirito della pubblicità, cominciai a comprenderne i retroscena.
Mi disse: “le categorie di coloro che commissionano la pubblicità sono o responsabili di società che te la ordinano e poi vogliono il 20% della spesa come tangente, o responsabili di società che il 20% lo vogliono da coloro che realizzano gli spot pubblicitari. Qualcuno, ma sono pochi, lo fa per mitomania personale o per far lavorare la sua amante.“
Presi atto allora di queste sorprendenti verità e del fatto che le sponsorizzazioni, quelle sportive, quelle nella moda, quelle nei profumi, erano tutte metodologie creative di false fatturazioni e oggi, in questa società della comunicazione e della prestazione, credo che purtroppo le false fatturazioni siano l’industria più redditizia esistente, perché, come esemplificato sopra, vive di un materiale che non costa, l’ignoranza.
Ma ragionando in positivo, esiste una forma di pubblicità corretta, non corrotta intendo, rispettosa della intelligenza delle persone, informativa e onesta? Sono certo che potrebbe esistere, e talvolta fa la sua comparsa, timida, in mezzo alle altre.
Forse, è un augurio, quando la folla di coloro che vengono ritenuti poveri deficienti comincerà a non comprare più certi prodotti, forse, allora, i ricavi aziendali prenderanno il sopravvento sulle fatture false e la pubblicità farà un esame di coscienza.
Che il cinema italiano, con il suo speciale tax credit, sia anche una fonte di guadagni illeciti, di speculazioni e di operazioni strumentali lo dico da anni e l’ho dimostrato più volte, ma che Rutelli presidente Anica oggi dia la colpa al Ministero per la carenza di controlli è più che paradossale, è la dimostrazione di quanto sia capace l’ex sindaco di Roma per ammortizzare tutto il suo precedente entusiasmo per il successo del cinema italiano.
Quella di Rutelli si chiama, in termini filosofici “morale eteronoma” ed è quella di chi passa col rosso se non c’è il vigile e si contrappone, secondo Kant, alla morale autonoma di chi prende coscienza dei limiti.
Anica si è posta come elemento strutturale della politica di Franceschini e la figura di Rutelli, fino a quel momento estranea alla vicenda cinematografica, è stata cooptata, in particolare su suggerimento di Lucisano, come fondamentale collegamento con il ministro.
Rutelli ha posto lì la sua base professionale, interpretando il ruolo di morbido assemblatore delle esigenze dei potentati, ed è diventato anche imprenditore, inventando una strana quanto invisibile ricorrenza annuale dal titolo Videocittà, anch’essa largamente finanziata dalle istituzioni.
Anica avrebbe dovuto tastare il polso dell’industria ed avvertire che la febbre stava salendo assieme al finanziamento pubblico, ma al contrario ha inneggiato ai continui slanci di Franceschini, che, mi auguro, del tutto incoscientemente ignaro delle conseguenze pratiche, con la sua visione politica ha inciso talmente nel profondo sul dna del settore per farlo diventare non più un elemento di cultura ma pane per il saccheggio di fondi statali e per speculazioni nazionali ed internazionali.
Anica ha applaudito in ogni sede, soprattutto festivaliera, al fatto che l’Italia fosse invasa dagli stranieri attirati dal miele del tax credit, ed ha partecipato come protagonista al banchetto, rilasciando interviste entusiastiche e ricevendo applausi.
Non si è ricordato Rutelli che già ai tempi di Veltroni si era verificato un fenomeno simile, quando la parola “culturale” aveva provocato la devastazione dei fondi pubblici: registi che fino al giorno prima ricevevano un corrispettivo di quaranta milioni, ne ottennero quattrocento, più cento per la moglie assistente, cento per un montatore e qualcosa per i nipoti. La “cultura” di Veltroni ebbe l’effetto di demolire l’industria, eliminare il merito, è di far evaporare quasi cinquecento milioni di “fondo rotativo” tramite film che poi lo Stato dovette digerire con la cosiddetta “cartolarizzazione”.
Sarebbe stato onesto da parte Anica comprendere che era il caso di intervenire per regolamentare il flusso dei fondi, esaminando con coscienza e non con l’attuale cattiveria il disagio del Ministero costretto da Franceschini a lavorare su norme incomplete e talvolta imbarazzanti, costretto a seguire l’onda delle richieste sempre più numerose e pressanti, costretto a subire la tracotanza di una sinistra artisticamente esosa e sorretta da Anica.
Invece oggi, nel momento in cui comincia a venire a galla l’indecenza di alcuni finanziamenti, e la Guardia di Finanza si accorge che qualcosa non torna nei costi del film, Anica dichiara che la colpa è di Borrelli che non ha vigilato, che il Ministero manca di dirigenti e che pertanto i produttori sono privi di responsabilità.
Dispiace ascoltare queste frasi, perché la mancanza di una seria presa d’atto delle proprie responsabilità rende tutto possibile, anche quello che non lo sembra.
Nello spettacolo italiano ci sono forme di istituzionalizzazione che non subiscono variazioni nel corso del tempo ma che anzi appaiono, grazie ad una stampa ormai assuefatta ai fenomeni, sempre nuove ed originali.
Caso classico è quello di Fiorello, che riempie lo schermo di stupidaggini, di scherzetti, di prese in giro tipiche di un animatore di centri vacanzieri e che da decenni sembra sempre apportare alla televisione italiana quello spirito rivoluzionario necessario a rianimare spettacoli mummificati.
Assistiamo con curiosità alle ennesime evoluzioni di format come Ballando Con Le Stelle, ormai diventato una sorta di “Grande Fratello” in musica, ostaggio delle litigate di una giuria che esiterebbe chiunque ad invitare a cena.
Subiamo personaggi come Morgan, con il ciuffo inamidato, o Malgioglio vestito col tutù, che pretendono di dare lezioni di orgoglio o di morale ad un pubblico già prostrato dalle scempiaggini di Signorini e ipnotizzato dalle vicende sessuali dei VIP di turno e ascoltiamo come babbei i racconti dei soliti Al Bano, Vanoni, Zanicchi, Pravo, Hunziker, Ventura, Goggi… ormai svuotati di ogni contenuto e capaci solo di ripetere l’irripetibile.
Assistiamo soprattutto al continuo, interminabile flusso di ospiti di qualsiasi tipo, sempre interrogati nelle materie che conoscono, sempre osannati, sbaciucchiati, omaggiati, esaltati nelle loro banalità ed incapaci di trasmettere qualcosa di sensato.
Ma in un paese di millenaria cultura, culla delle arti più nobili, pervaso dal genio di grandi artisti, seminato di monumenti straordinari, ma anche patria di pensatori, divulgatori, eroi, scrittori, medici, di donne bellissime e bravissime, di sarti unici al mondo, di imprenditori coraggiosi, di giovani sportivi, in un paese ricco di vita e di pulsioni positive, possibile si debbano ancora subire gli scherzetti ripetitivi di Fiorello e le noiose e strumentali interviste di Fazio? Cos’ha il nostro paese, che continua a viaggiare col freno a mano tirato? A chi dobbiamo questa stagnazione culturale che ha invaso ogni angolo dello spettacolo? A chi sono affidate le sorti del nostro intrattenimento? Per questo motivo, per questa stagnazione che limita la libertà di espressione, sembra che Report sia una sorta di enclave di talebani, solo perché cerca di entrare nel tessuto molle delle vicende per dare una scossa agli spettatori rincoglioniti da Conti e dalla Venier. Per questo Kilimangiaro sembra un programma da Oscar e Bruno Vespa tranquillizza le menti, per questo Angelo Guglielmi e Brando Giordani risplendono nell’empireo della televisione, perché non hanno avuto paura di usare l’intelligenza e di trasmetterla ad un pubblico non di deficienti ma di ascoltatori.
Circa sei mesi fa, nel tardo pomeriggio, uscivo da un cinema in una grande città americana… Un autobus bianco di medie dimensioni, con una ventina di persone a bordo, procedeva a velocità sostenuta sul lato opposto della strada e proprio quel movimento tra tanti, chissà perché, per qualche secondo aveva attirato la mia attenzione.
La panoramica del mio sguardo, da destra a sinistra, ha superato l’autobus fino a soffermarsi su una ragazza in scooter che usciva da una via laterale. Tutto dev’essere durato al massimo tre secondi, incluso il violento impatto. Per una strana combinazione cinetica, invece di essere sbalzata con la moto sul lato della strada, la conducente è finita davanti al veicolo che nonostante la frenata, per inerzia ha continuato ad avanzare per alcuni metri. Ricordo lo schianto parzialmente coperto dal rumore del traffico e il sinistro sobbalzo della massa dell’autobus che passava con le sue venti tonnellate sul corpo inerte della ragazza.
Consapevole della gravità di quanto avevo appena visto, mi sono allontanato per il disgusto di assistere al morboso accorrere dei curiosi.
In pochi minuti da ogni direzione sono arrivate almeno cinque auto della polizia a sirene spiegate e subito dopo un’ambulanza. Dalla coda di auto che aveva cominciato a formarsi anche nella direzione in cui mi stavo allontanando, si poteva intuire che l’intera zona era bloccata.
Più tardi ho cercato su Internet la notizia dell’incidente. Mi ero sentito in dovere di scoprire se la ragazza fosse sopravvissuta… non per curiosità, era come se non mi potessi esimere dal sapere, dall’andare fino in fondo, per l’intersecarsi delle nostre vite a soli venti metri di distanza, nella stessa città, in quella stessa strada, dove infinte casualità ci avevano portato a passare proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Speravo in un “lieto fine” ma la ragazza era morta sul colpo. Solo poche ore dopo sulle newsgià era stata pubblicata una fotografia con il nome di una giovane donna di trent’anni, African American. Se fossi rimasto in sala a vedere tutta la sfilza dei titoli di coda non avrei visto l’impatto e la conseguente morte in diretta che ricorderò per il resto della vita… Se lei avesse tardato solo di pochi secondi, per un rallentamento nel suo percorso, per una telefonata ricevuta o per un’incertezza nell’accensione dello scooter, sarebbe ancora viva.
Ogni tanto l’immagine di quell’autobus che travolge il peso effimero e la vita di quella ragazza, mi torna alla mente.
Con il tempo mi sono accorto di aver completamente dimenticato il resto della giornata, quello che avevo fatto la mattina, dove ero stato a pranzo, chi avevo incontrato… e anche il film.
Ho provato a concentrarmi per recuperare almeno qualche frammento: niente, un vuoto assoluto, come se lo shockdi quella morte violenta avesse spazzato via tutto. Sentivo un forte disagio, quasi fisico, un senso di dolore per quella morte inutile, per lo speco di una vita dovuta a una disattenzione di pochi centimetri, forse a un freno non revisionato, oppure a qualche dettaglio all’apparenza insignificante che nella combinazione di cause ed effetti è risultato fatale.
Ma ecco che invece, pochi giorni fa, quando per un’associazione del pensiero mi è tornata alla mente la ragazza travolta dall’autobus bianco, mi sono accorto che quella spiacevole sensazione di disagio, di morte, s’erano come dissolti e quello che sentivo era qualcosa di paragonabile a una loro eco lontana. La memoria dell’evento era intatta ma il suo effetto non era più così disturbante.
Mi sono chiesto come mai… Forse per il passare del tempo che lenisce ogni cosa? Come per una delusione d’amore che di primo acchito può far provare un dolore fisico, chiudere lo stomaco, impedire il sonno… ma poi un po’ alla volta i brutti pensieri se ne vanno e torna la normalità.
La risposta è in una sola parola: SEROTONINA.
Nella mia piccola riflessione/indagine mi ero chiesto che cosa fosse cambiato negli ultimi tempi da poter modificare la mia percezione di quell’evento traumatico e l’unica variazione era l’aver iniziato una cura a base di un particolare integratore alimentare su consiglio del Dottor Camillo De Felice, un caro amico farmacista, poeta, straordinario performer, originario di un paese alle falde del Vesuvio… In effetti Pamela, la sua fidanzata, aveva accennato a un possibile “effetto collaterale”, un senso di pace, un lieve distacco dalle cose del mondo, la sensazione che i problemi della vita siano comunque superabili, privi d’importanza e di peso.
“Pamela, fidanzata di Camillo” (dopo la cura)
Camillo mi ha spiegato che questo integratore alimentare contiene un mix di lipidi estratti dall’Olea Europea e dal Theobroma cacao, che aiutano a regolare la fluidità della membrana dei neuroni. Se la membrana neuronale risulta troppo rigida o troppo fluida, non riesce ad esprimere i recettori su cui va a legarsi la Serotonina, neurotrasmettitore che a livello del sistema nervoso centrale stabilizza l’umore (è comunemente detto “l’ormone del buon umore”). Metaforicamente, la serotonina rappresenta la chiave, il recettore la serratura: più serrature ci sono, più chiavi possono essere inserite e di conseguenza maggiore sarà l’effetto sull’umore. Quindi, una giusta fluidità della membrana, porterà a un maggior numero di recettori che legheranno un maggior numero di molecole di Serotonina.
Pianta di Olea Europea (Ulivo) Pianta di Theobroma cacao
Questo integratore si chiama “Serobrain”, agisce in modo naturale, non apporta sostanze attive ma ne regola l’utilizzo.
Il Serobrain contiene la Curcumina che ha azione anti-infiammatoria (i radicali liberi producono infiammazione)… l’Astaxantina e l’alfa-Tocoferolo che sono carotenoidi con azione antiossidante e anti-radicalica, fondamentali per sostenere l’asse intestino-cervello… la L-teanina, che aiuta a ridurre lo stress psico-fisico e facilita le funzioni cognitive. Infine le vitamine E, C, e B6, supportano l’efficienza e le funzioni dei neuroni. Il Serobrain quindi funziona come una specie di antidepressivo naturale che oltre alla sua funzione primaria di mitigare l’infiammazione latente nell’intestino e nel sistema nervoso centrale, contribuisce al buonumore.
La serotonina fu isolata per la prima volta nel 1935 da Vittorio Erspamer, un farmacologo italiano che inizialmente la classificò come un polifenolo. Due anni dopo venne chiamata “enterammina” e solo nel 1948 assunse il nome definitivo di “serotonina”.
Il nostro cervello è un organo estremamente complesso ed è facile capire dai nostri cambiamenti di umore quanto siano inspiegabili molti dei suoi meccanismi. Delle volte ci sentiamo benissimo, in equilibrio con noi stessi, con la sensazione di essere invincibili e pieni di energia… ma altre volte, in condizioni pressoché identiche, ci possiamo sentire molto giù, stanchi di impegnarci, soffocati dalla costrizione di dover agire per continuare a risolvere problemi e fastidi che inevitabilmente si presentano sulla nostra strada.
La serotonina è alla base di diversi psicofarmaci in commercio ma la sua assunzione diretta e “artificiale” (con un dosaggio sufficiente a ottenere l’effetto desiderato) provoca degli effetti collaterali, come ad esempio la perdita di libido, del desiderio sessuale, poiché a differenza di quella naturale, inibisce la sintesi del testosterone.
Il perché di questa differenza è ignoto.
Tutto ciò è descritto molto bene in “Serotonina” (pubblicato da “La nave di Teseo”) l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, scrittore abituato alle provocazioni di cui in passato avevo letto il folgorate romanzo d’esordio “Particelle elementari” (1999) e poi “Piattaforma” (2001). Mi sono perso “Sottomissione” (2015), un romanzo fantapolitico che ipotizza la vittoria del partito mussulmano alle elezioni presidenziali del 2022 in Francia… ma conto di leggerlo entro la fine dell’estate.
Comunque… ecco che diciotto anni dopo ho ritrovato Houellebecq in piena forma, alle prese con una trama molto originale, dove il disegno e così imprevedibile, l’artificio è così ben nascosto da sembrare “vita reale”, salvo qualche eccesso che per questo scrittore è inevitabile poiché parte integrante del suo stile. La fidanzata del protagonista per esempio, giapponese e ninfomane (ben oltre “Tokyo decadence”), che non si accontenta delle orge nei club degli scambisti ma dimostra la sua estrema perversione intrattenendosi sessualmente con dei cani, non è specificato se consenzienti.
Il protagonista della storia è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che ormai possiede un’esperienza e una lucidità tale da saper spiegare senza peli sulla lingua come le politiche europee abbiano dovuto fare delle scelte, discriminando alcune categorie a favore di altre o del “bene comune”, secondo equilibri planetari che inevitabilmente producono delle vittime sacrificali. In questo caso le vittime sono gli allevatori francesi che con le “quote latte”, com’è successo in Italia, sono finiti sul lastrico.
La messa in scena della “rivolta armata” di questa categoria che finisce con una strage è un’estremizzazione di Houellebecq, ma non lontana dalla realtà… lo abbiamo visto di recente anche in Sardegna, dove gli allevatori per protesta hanno rovesciato decine di ettolitri di latte sulle strade piuttosto che accettare un prezzo irrisorio che li porterebbe alla rovina.
La “caduta” del protagonista di questo romanzo a suo modo filosofico, si evolve nel giro di poco più di un anno, da quando si licenzia e inizia a vivere girovagando alla ricerca di un luogo dove poter vegetare, ma sistematicamente gli eventi lo costringono a doversi muovere, e ogni volta la situazione peggiora, il suo isolamento si fa più accerchiante e irreversibile. Il medico che lo assiste nel suo calvario post moderno accerta con sorpresa un altissimo tasso di “cortisolo” nel suo sangue, tale da rischiare di farlo “morire di tristezza” dopo averlo portato all’obesità e alle conseguenze fisiche di una degenerazione senza ritorno. Cerca di convincerlo a ridurre e poi interrompere l’assunzione di serotonina, ma il nostro anti eroe non lo ascolta.
Non riuscendo a ricordare il film spazzato via dallo shock dell’incidente, il mio pensiero va a un film che non potrò mai dimenticare, non perché sia un capolavoro, ma è un film francese molto speciale, tratto da un bellissimo romanzo breve di Antonio Tabucchi, “Notturno indiano”.
E’ del 1987, diretto da Alain Corneau, un regista interessante, che in questo caso ha scelto la via della fedeltà quasi assoluta al romanzo. Ci sono solo alcune trovate di sceneggiatura che si allontanano del testo originario, ma nella sostanza la storia segue passo passo la trama del libro, utilizzando anche le stesse didascalie che descrivono i luoghi.
Il viaggio del protagonista (interpretato da un delicato e sensibile Jean-Hugues Anglade) alla ricerca del suo amico portoghese Xavier “perso in India”, segue un percorso pianificato che progressivamente si va a modificare adattandosi alle casualità degli incontri, alle tracce, alle notizie frammentarie che riesce a scoprire strada facendo. A Bombay, una prostituta con la quale il suo amico aveva una relazione, gli rivela che negli ultimi tempi era molto cambiato, aveva un serio problema di salute… e poi che era in contatto con una misteriosa “società teosofica” di Madras. Anche lei non ha notizie di Xavier da più di un anno.
Rossignol, questo e il nome del protagonista della storia, si reca nel più grande ospedale della città, dove non riesce a trovare il suo amico, ma si intrattiene a lungo a parlare con un cardiologo che mentre cerca di aiutarlo nella ricerca tra i padiglioni del gigantesco e labirintico ospedale, gli spiega i paradossi del suo paese… lui stesso può essere considerato una paradosso, avendo studiato cardiologia a Londra, quando in India si muore di tutto ma non di cuore.
A Madras l’incontro con una specie di guru, o gran maestro che sia della società teosofica, è uno scontro in punta di fioretto tra due culture. Alla fine, forse grazie alla condivisione di un aneddoto sulle ultime parole del grande poeta portoghese Fernando Pessoa, la reticenza è vinta e il misterioso “teosofo” mostra a Rossignol una lettera di Xavier che risale a un anno prima… dove viene svelata una nuova traccia che lo porterà verso la fine del suo viaggio, a Goa.
Il film ha un andamento lento ma avvincente e sorprendete, immerso in un mondo pieno di tangibile spiritualità, dove sembra che nulla accada per caso… dall’incontro con una specie di mostriciattolo, un nano deforme che si rivela essere una veggente, a un compagno di viaggio in un vagone letto che lo sfiora con la sua drammatica vicenda di morte e di vendetta…
La conclusione è poetica e “circolare”. Rossignol ha un’illuminazione e capisce perché non è riuscito a trovare il suo amico da nessuna parte.
Semplice: ha cambiato nome. Nella lettera alla società teosofica, scritta in inglese, aveva accennato tra le righe di essere diventato “un uccello che canta di notte”… Un usignolo quindi, in francese “rossignol”, come il protagonista della storia… in inglese “Nightingale”…
Mr Nightingale, ecco chi deve cercare! E’ infatti, come il suo sfuggente amico aveva rubato e tradotto la sua identità, il protagonista della storia comincia a seguire le tracce di Mr Nightingale, che tutti conoscono e rispettano, ma nessuno sembra sapere dove trovarlo, fino a che… ecco finalmente un indizio preciso, strappato con una mancia al cameriere di un vecchio albergo, elegante ma un po’ decadente…
“Una volta Mr Nightingale era un buon cliente qui… ma ora hanno aperto due nuovi hotel di lusso sul mare e non possiamo più competere.”
Il cameriere gli fa capire in quale dei due alberghi è più probabile che troverà quello che cerca…
In quello splendido hotel sul madre di Goa, Rossignol incontra una giovane donna, una bellissima fotografa francese e senza necessariamente cercare un’avventura, finisce per cenare con lei nel magnifico giardino, sul bordo di una grande piscina.
Ed è li che Rossignol finalmente intravede Mr Nightingale, il suo amico Xavier, dal lato opposto, nella penombra del lume di candela, oltre il rettangolo d’acqua che li separa. Anche lui è con una donna… La trovata geniale del film è lasciare che il pubblico s’immagini tutto, senza mai indentificare la figura sfuggente di Xavier… ascoltando le parole di Rossignol mentre racconta alla ragazza quello che sta effettivamente accadendo in quel momento, come se fosse la trama di un romanzo che sta cercando di scrivere…
Alla fine della cena, quando Rossignol chiede il conto, il cameriere gli comunica che un altro cliente dell’albergo ci ha già pensato.
La conclusione della storia coincide con quella dell’ipotetico romanzo e porta il protagonista a capire che, come Xavier non voleva farsi trovare, lui non ha più voglia di cercarlo… e un loro incontro nel mondo reale non avrebbe alcun senso in quelle circostanze. Le vite dei due amici si sfiorano, forse per l’ultima volta: con grazia e discrezione ognuno andrà per la sua strada.
La circolarità del racconto riporta idealmente alle ultime parole pronunciate da Fernando Pessoa prima di morire…
Fernando Pessoa
“Datemi i miei occhiali!”
Era molto miope e voleva passare dall’altra parte vedendoci meglio possibile, così come Rossignol, forte del cumulo delle esperienze di una vita con il catalizzatore di quel viaggio molto speciale in India, ha trovato un nuovo equilibrio, una “seconda vista”.
Le invisibili, di Louis-Julien Petit racconta le vicende di Manu e Audrey, due assistenti sociali che ce la mettono tutta per riabilitare le loro assistite, donne della Francia del nord senza fissa dimora.
Il regista Petit in basso circondato dal cast
Ne esce una involontaria rappresentazione della Gestione del Personale. Il quadro è completo e comprende la selezione del personale, la scrittura del CV, la formazione, la relazione capo-collaboratore, la vision, la compliance e le regole, il coaching, la motivazione ed il team building.
Ma tutto è capovolto e, per magia, diventa più chiaro. Le assistenti sociali assistono, contro la prepotenza e i pregiudizi.
Ogni donna è una sfida, come la clochard che ha imparato in carcere a riparare elettrodomestici. Si tratta di una persona talmente onesta che dichiara, nei colloqui di lavoro, di avere ucciso il marito. Bisogna convincerla ad omettere questa confessione, visto che dall’altra parte si alza una barriera. Niente da fare, è più forte di lei raccontare la verità.
una scena del film
Poi c’è la ragazza di buona famiglia, ma portata al conflitto e ad avvelenare le relazioni. Finisce in un brutto giro e viene rifiutata anche dalle altre in una sorta di mobbing dell’emarginazione.
Le storie sono tante e tutte caratterizzate da difficoltà insormontabili, quali una malattia psichiatrica, un disturbo borderline di personalità, una storia traumatica.
Caro formatore, quali lezioni possiamo derivare da queste vicende dei bassifondi? In primis che ogni individuo ha risorse specifiche in coabitazione con la propria disabilità. Questo vale per ogni contesto lavorativo, per cui il volontariato offre, ove si sceglie un approccio vero, straordinarie opportunità per comprendere.
Non a caso l’immagine iniziale: siamo in viaggio.; il percorso è il codice di chi ci prova, di chi vuole veramente valorizzare le persone. E ove maggiore è la povertà tanto più illuminante il percorso.
La cartina al tornasole è rappresentata da Hèlène, una volontaria che, avvicinandosi da ricca al mondo rovesciato finisce per gettare alle ortiche il proprio matrimonio, le proprie certezze. La sua presenza straniata è contrassegnata da continui “non capisco”. Ma ci prova e, per questo, riesce a portare un contributo, portando a casa molto di più.
Distribuito nelle sale italiane da Teodora
Il vero nemico è il pregiudizio, che non è tanto un fenomeno culturale, quanto la voglia di semplificare. Dove non si capisce, si mandano le ruspe. Non è una questione di cattiveria, quanto di incapacità di andare in profondità. L’ideologia idiota (“devono cavarsela” “Se le aiutiamo non facciamo il loro bene”), sostenuta dal pensiero unico della pseudo economia, genera soluzioni sempre più costose.
L’uniformità impossibile della regola non valorizza nessuno.
Dunque il vero nemico della valorizzazione del personale è nella superficialità, nel giudizio prematuro, nella demotivazione che inevitabilmente coglie chi ci prova. Chi mette le mani nel pattume per riciclare cose o persone deve avere molta pazienza. Il mondo infero dei perdenti ed il mondo paradisiaco dei vincenti non sono così diversi, altrimenti non esisterebbe il “change management”, la versione nobile della riabilitazione.
Per questo il vero eroismo è quello di chi ci crede, sia che lavori con i disabili certificati sia che assista i disabili integrati nel mondo del “profit”. Ecco quindi dimostrato il bivio: riciclare persone con pazienza e intelligenza oppure accettare i costi delle semplificazioni. Bisogna scegliere.
La segretaria Lucia Borgonzoni cavalca la favola dell’allungamento della stagione: sono riusciti a convincerla nonostante questa storia sia una baggianata che ci portiamo dietro da sempre. Stavolta ci aiutano gli americani! Incredibile, ma proprio coloro che ci colonizzano ci salveranno!
Nessuno ha spiegato alla bella Senatrice che gli americani di noi se ne sbattono e che se per caso un loro film, durante il lancio mondiale, casca da noi in estate non è per generosità. Nessuno poi le ha spiegato che anche in estate i film americani portano soldi agli americani: ma dobbiamo far finta di essere contenti… e così sia, evviva gli americani generosi alleati!
SIAE è il nuovo territorio di Salvo Nastasi, l’ex potente ministeriale, dove incrocia un regnante storico, Blandini, con il quale ha già condiviso molto nel passato. Uniti sono un muro invalicabile e per chiunque sarà difficile penetrare all’interno del sistema SIAE, fatto di diritti, soldi, immobili, gestioni e misteri. Uniti, spalla a spalla, faranno della SIAE l’ultimo fortino dell’era Letta!
Al Ministero della Cultura (MIBACT) non spira una buona aria: nuovo D.G., legge che non funziona, soldi che non arrivano, burocrazia al massimo. Il cinema è in panne e gli incassi sono ai minimi storici, ma nessuno lo dice, men che meno le associazioni e in particolare Anica. C’è poi APT che ha deciso di far concorrenza ad Anica e si chiama ora APA. Perché limitarsi ai televisivi?
Mario Turetta Direttore generale cinema al MIBACT
Anche l’APA può assoldare chiunque e prendere soldi ovunque: pertanto il cinema è morto ma le associazioni crescono. Evviva.
Parte il film su Bettino: Pierfrancesco Favino fa il leader e ci assomiglia davvero, munito del trucco. La Claudia Gerini fa Ania Pieroni che per la verità era molto più bella di lei, ma poi tutti smentiscono: non c’è Ania, non ci sono nomi, ma solo simboli!
Sarà, ma l’impressione è che Saccà, il produttore ex D.G. della Rai, non voglia pagare diritti. Di diritti c’è solo lui, questo è certo.
Così anche il Ceo della Warner, Kevin Tsujihara, si è fatto cacciare per una donna! Difficile separare cinema e sesso, sembra quasi una congiunzione astrale: invece è semplicemente l’incrocio di due desideri, quello del maschio che non ha mai avuto belle donne da papocchiare e quello della donna che vuole spasmodicamente diventare famosa. In fondo, darsi al Presidente della Warner non è così drammatico: mezz’ora di gemiti e il più è fatto. Il resto è solo calcolo del desiderio prodotto: vestiti scollati, spacchi, piedini, voce soffiata, tanga, niente di drammatico!
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.