CONTAMINAZIONI n° 14 – Serotonina: la provocazione poetica di Michel Houellebecq… Un film “dimenticato” e un film da non dimenticare

Circa sei mesi fa, nel tardo pomeriggio, uscivo da un cinema in una grande città americana… Un autobus bianco di medie dimensioni, con una ventina di persone a bordo, procedeva a velocità sostenuta sul lato opposto della strada e proprio quel movimento tra tanti, chissà perché, per qualche secondo aveva attirato la mia attenzione. 

La panoramica del mio sguardo, da destra a sinistra, ha superato l’autobus fino a soffermarsi su una ragazza in scooter che usciva da una via laterale. Tutto dev’essere durato al massimo tre secondi, incluso il violento impatto. Per una strana combinazione cinetica, invece di essere sbalzata con la moto sul lato della strada, la conducente è finita davanti al veicolo che nonostante la frenata, per inerzia ha continuato ad avanzare per alcuni metri. Ricordo lo schianto parzialmente coperto dal rumore del traffico e il sinistro sobbalzo della massa dell’autobus che passava con le sue venti tonnellate sul corpo inerte della ragazza. 

Consapevole della gravità di quanto avevo appena visto, mi sono allontanato per il disgusto di assistere al morboso accorrere dei curiosi. 

In pochi minuti da ogni direzione sono arrivate almeno cinque auto della polizia a sirene spiegate e subito dopo un’ambulanza. Dalla coda di auto che aveva cominciato a formarsi anche nella direzione in cui mi stavo allontanando, si poteva intuire che l’intera zona era bloccata. 

Più tardi ho cercato su Internet la notizia dell’incidente. Mi ero sentito in dovere di scoprire se la ragazza fosse sopravvissuta… non per curiosità, era come se non mi potessi esimere dal sapere, dall’andare fino in fondo, per l’intersecarsi delle nostre vite a soli venti metri di distanza, nella stessa città, in quella stessa strada, dove infinte casualità ci avevano portato a passare proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Speravo in un “lieto fine” ma la ragazza era morta sul colpo. Solo poche ore dopo sulle newsgià era stata pubblicata una fotografia con il nome di una giovane donna di trent’anni, African American. Se fossi rimasto in sala a vedere tutta la sfilza dei titoli di coda non avrei visto l’impatto e la conseguente morte in diretta che ricorderò per il resto della vita… Se lei avesse tardato solo di pochi secondi, per un rallentamento nel suo percorso, per una telefonata ricevuta o per un’incertezza nell’accensione dello scooter, sarebbe ancora viva.

Ogni tanto l’immagine di quell’autobus che travolge il peso effimero e la vita di quella ragazza, mi torna alla mente. 

Con il tempo mi sono accorto di aver completamente dimenticato il resto della giornata, quello che avevo fatto la mattina, dove ero stato a pranzo, chi avevo incontrato… e anche il film. 

Ho provato a concentrarmi per recuperare almeno qualche frammento: niente, un vuoto assoluto, come se lo shockdi quella morte violenta avesse spazzato via tutto. Sentivo un forte disagio, quasi fisico, un senso di dolore per quella morte inutile, per lo speco di una vita dovuta a una disattenzione di pochi centimetri, forse a un freno non revisionato, oppure a qualche dettaglio all’apparenza insignificante che nella combinazione di cause ed effetti è risultato fatale.

Ma ecco che invece, pochi giorni fa, quando per un’associazione del pensiero mi è tornata alla mente la ragazza travolta dall’autobus bianco, mi sono accorto che quella spiacevole sensazione di disagio, di morte, s’erano come dissolti e quello che sentivo era qualcosa di paragonabile a una loro eco lontana. La memoria dell’evento era intatta ma il suo effetto non era più così disturbante.

Mi sono chiesto come mai… Forse per il passare del tempo che lenisce ogni cosa? Come per una delusione d’amore che di primo acchito può far provare un dolore fisico, chiudere lo stomaco, impedire il sonno… ma poi un po’ alla volta i brutti pensieri se ne vanno e torna la normalità.

La risposta è in una sola parola: SEROTONINA.

Nella mia piccola riflessione/indagine mi ero chiesto che cosa fosse cambiato negli ultimi tempi da poter modificare la mia percezione di quell’evento traumatico e l’unica variazione era l’aver iniziato una cura a base di un particolare integratore alimentare su consiglio del Dottor Camillo De Felice, un caro amico farmacista, poeta, straordinario performer, originario di un paese alle falde del Vesuvio… In effetti Pamela, la sua fidanzata, aveva accennato a un possibile “effetto collaterale”, un senso di pace, un lieve distacco dalle cose del mondo, la sensazione che i problemi della vita siano comunque superabili, privi d’importanza e di peso. 

“Pamela, fidanzata di Camillo” (dopo la cura)

Camillo mi ha spiegato che questo integratore alimentare contiene un mix di lipidi estratti dall’Olea Europea e dal Theobroma cacao, che aiutano a regolare la fluidità della membrana dei neuroni. Se la membrana neuronale risulta troppo rigida o troppo fluida, non riesce ad esprimere i recettori su cui va a legarsi la Serotonina, neurotrasmettitore che a livello del sistema nervoso centrale stabilizza l’umore (è comunemente detto “l’ormone del buon umore”). Metaforicamente, la serotonina rappresenta la chiave, il recettore la serratura: più serrature ci sono, più chiavi possono essere inserite e di conseguenza maggiore sarà l’effetto sull’umore. Quindi, una giusta fluidità della membrana, porterà a un maggior numero di recettori che legheranno un maggior numero di molecole di Serotonina.

Pianta di Olea Europea (Ulivo)
Pianta di Theobroma cacao

Questo integratore si chiama “Serobrain”, agisce in modo naturale, non apporta sostanze attive ma ne regola l’utilizzo. 

Il Serobrain contiene la Curcumina che ha azione anti-infiammatoria (i radicali liberi producono infiammazione)… l’Astaxantina e l’alfa-Tocoferolo che sono carotenoidi con azione antiossidante e anti-radicalica, fondamentali per sostenere l’asse intestino-cervello… la L-teanina, che aiuta a ridurre lo stress psico-fisico e facilita le funzioni cognitive. Infine le vitamine E, C, e B6, supportano l’efficienza e le funzioni dei neuroni. Il Serobrain quindi funziona come una specie di antidepressivo naturale che oltre alla sua funzione primaria di mitigare l’infiammazione latente nell’intestino e nel sistema nervoso centrale, contribuisce al buonumore.

La serotonina fu isolata per la prima volta nel 1935 da Vittorio Erspamer, un farmacologo italiano che inizialmente la classificò come un polifenolo. Due anni dopo venne chiamata “enterammina” e solo nel 1948 assunse il nome definitivo di “serotonina”.

Il nostro cervello è un organo estremamente complesso ed è facile capire dai nostri cambiamenti di umore quanto siano inspiegabili molti dei suoi meccanismi. Delle volte ci sentiamo benissimo, in equilibrio con noi stessi, con la sensazione di essere invincibili e pieni di energia… ma altre volte, in condizioni pressoché identiche, ci possiamo sentire molto giù, stanchi di impegnarci, soffocati dalla costrizione di dover agire per continuare a risolvere problemi e fastidi che inevitabilmente si presentano sulla nostra strada.

La serotonina è alla base di diversi psicofarmaci in commercio ma la sua assunzione diretta e “artificiale” (con un dosaggio sufficiente a ottenere l’effetto desiderato) provoca degli effetti collaterali, come ad esempio la perdita di libido, del desiderio sessuale, poiché a differenza di quella naturale, inibisce la sintesi del testosterone. 

Il perché di questa differenza è ignoto.

Tutto ciò è descritto molto bene in “Serotonina” (pubblicato da “La nave di Teseo”) l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, scrittore abituato alle provocazioni di cui in passato avevo letto il folgorate romanzo d’esordio “Particelle elementari” (1999) e poi “Piattaforma” (2001). Mi sono perso “Sottomissione” (2015), un romanzo fantapolitico che ipotizza la vittoria del partito mussulmano alle elezioni presidenziali del 2022 in Francia… ma conto di leggerlo entro la fine dell’estate. 

Comunque… ecco che diciotto anni dopo ho ritrovato Houellebecq in piena forma, alle prese con una trama molto originale, dove il disegno e così imprevedibile, l’artificio è così ben nascosto da sembrare “vita reale”, salvo qualche eccesso che per questo scrittore è inevitabile poiché parte integrante del suo stile. La fidanzata del protagonista per esempio, giapponese e ninfomane (ben oltre “Tokyo decadence”), che non si accontenta delle orge nei club degli scambisti ma dimostra la sua estrema perversione intrattenendosi sessualmente con dei cani, non è specificato se consenzienti. 

Il protagonista della storia è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che ormai possiede un’esperienza e una lucidità tale da saper spiegare senza peli sulla lingua come le politiche europee abbiano dovuto fare delle scelte, discriminando alcune categorie a favore di altre o del “bene comune”, secondo equilibri planetari che inevitabilmente producono delle vittime sacrificali. In questo caso le vittime sono gli allevatori francesi che con le “quote latte”, com’è successo in Italia, sono finiti sul lastrico.

La messa in scena della “rivolta armata” di questa categoria che finisce con una strage è un’estremizzazione di Houellebecq, ma non lontana dalla realtà… lo abbiamo visto di recente anche in Sardegna, dove gli allevatori per protesta hanno rovesciato decine di ettolitri di latte sulle strade piuttosto che accettare un prezzo irrisorio che li porterebbe alla rovina.

La “caduta” del protagonista di questo romanzo a suo modo filosofico, si evolve nel giro di poco più di un anno, da quando si licenzia e inizia a vivere girovagando alla ricerca di un luogo dove poter vegetare, ma sistematicamente gli eventi lo costringono a doversi muovere, e ogni volta la situazione peggiora, il suo isolamento si fa più accerchiante e irreversibile. Il medico che lo assiste nel suo calvario post moderno accerta con sorpresa un altissimo tasso di “cortisolo” nel suo sangue, tale da rischiare di farlo “morire di tristezza” dopo averlo portato all’obesità e alle conseguenze fisiche di una degenerazione senza ritorno. Cerca di convincerlo a ridurre e poi interrompere l’assunzione di serotonina, ma il nostro anti eroe non lo ascolta.

Non riuscendo a ricordare il film spazzato via dallo shock dell’incidente, il mio pensiero va a un film che non potrò mai dimenticare, non perché sia un capolavoro, ma è un film francese molto speciale, tratto da un bellissimo romanzo breve di Antonio Tabucchi, “Notturno indiano”. 

E’ del 1987, diretto da Alain Corneau, un regista interessante, che in questo caso ha scelto la via della fedeltà quasi assoluta al romanzo. Ci sono solo alcune trovate di sceneggiatura che si allontanano del testo originario, ma nella sostanza la storia segue passo passo la trama del libro, utilizzando anche le stesse didascalie che descrivono i luoghi.

Il viaggio del protagonista (interpretato da un delicato e sensibile Jean-Hugues Anglade) alla ricerca del suo amico portoghese Xavier “perso in India”, segue un percorso pianificato che progressivamente si va a modificare adattandosi alle casualità degli incontri, alle tracce, alle notizie frammentarie che riesce a scoprire strada facendo. A Bombay, una prostituta con la quale il suo amico aveva una relazione, gli rivela che negli ultimi tempi era molto cambiato, aveva un serio problema di salute… e poi che era in contatto con una misteriosa “società teosofica” di Madras. Anche lei non ha notizie di Xavier da più di un anno. 

Rossignol, questo e il nome del protagonista della storia, si reca nel più grande ospedale della città, dove non riesce a trovare il suo amico, ma si intrattiene a lungo a parlare con un cardiologo che mentre cerca di aiutarlo nella ricerca tra i padiglioni del gigantesco e labirintico ospedale, gli spiega i paradossi del suo paese… lui stesso può essere considerato una paradosso, avendo studiato cardiologia a Londra, quando in India si muore di tutto ma non di cuore. 

A Madras l’incontro con una specie di guru, o gran maestro che sia della società teosofica, è uno scontro in punta di fioretto tra due culture. Alla fine, forse grazie alla condivisione di un aneddoto sulle ultime parole del grande poeta portoghese Fernando Pessoa, la reticenza è vinta e il misterioso “teosofo” mostra a Rossignol una lettera di Xavier che risale a un anno prima… dove viene svelata una nuova traccia che lo porterà verso la fine del suo viaggio, a Goa.

Il film ha un andamento lento ma avvincente e sorprendete, immerso in un mondo pieno di tangibile spiritualità, dove sembra che nulla accada per caso… dall’incontro con una specie di mostriciattolo, un nano deforme che si rivela essere una veggente, a un compagno di viaggio in un vagone letto che lo sfiora con la sua drammatica vicenda di morte e di vendetta…

La conclusione è poetica e “circolare”. Rossignol ha un’illuminazione e capisce perché non è riuscito a trovare il suo amico da nessuna parte. 

Semplice: ha cambiato nome. Nella lettera alla società teosofica, scritta in inglese, aveva accennato tra le righe di essere diventato “un uccello che canta di notte”… Un usignolo quindi, in francese “rossignol”, come il protagonista della storia… in inglese “Nightingale”… 

Mr Nightingale, ecco chi deve cercare! E’ infatti, come il suo sfuggente amico aveva rubato e tradotto la sua identità, il protagonista della storia comincia a seguire le tracce di Mr Nightingale, che tutti conoscono e rispettano, ma nessuno sembra sapere dove trovarlo, fino a che… ecco finalmente un indizio preciso, strappato con una mancia al cameriere di un vecchio albergo, elegante ma un po’ decadente… 

“Una volta Mr Nightingale era un buon cliente qui… ma ora hanno aperto due nuovi hotel di lusso sul mare e non possiamo più competere.”

Il cameriere gli fa capire in quale dei due alberghi è più probabile che troverà quello che cerca…

In quello splendido hotel sul madre di Goa, Rossignol incontra una giovane donna, una bellissima fotografa francese e senza necessariamente cercare un’avventura, finisce per cenare con lei nel magnifico giardino, sul bordo di una grande piscina. 

Ed è li che Rossignol finalmente intravede Mr Nightingale, il suo amico Xavier, dal lato opposto, nella penombra del lume di candela, oltre il rettangolo d’acqua che li separa. Anche lui è con una donna… La trovata geniale del film è lasciare che il pubblico s’immagini tutto, senza mai indentificare la figura sfuggente di Xavier… ascoltando le parole di Rossignol mentre racconta alla ragazza quello che sta effettivamente accadendo in quel momento, come se fosse la trama di un romanzo che sta cercando di scrivere… 

Alla fine della cena, quando Rossignol chiede il conto, il cameriere gli comunica che un altro cliente dell’albergo ci ha già pensato.

La conclusione della storia coincide con quella dell’ipotetico romanzo e porta il protagonista a capire che, come Xavier non voleva farsi trovare, lui non ha più voglia di cercarlo… e un loro incontro nel mondo reale non avrebbe alcun senso in quelle circostanze. Le vite dei due amici si sfiorano, forse per l’ultima volta: con grazia e discrezione ognuno andrà per la sua strada.

La circolarità del racconto riporta idealmente alle ultime parole pronunciate da Fernando Pessoa prima di morire… 

Fernando Pessoa

“Datemi i miei occhiali!”

Era molto miope e voleva passare dall’altra parte vedendoci meglio possibile, così come Rossignol, forte del cumulo delle esperienze di una vita con il catalizzatore di quel viaggio molto speciale in India, ha trovato un nuovo equilibrio, una “seconda vista”.

Ferdinando Vicentini Orgnani

CONTAMINAZIONI n° 13 – “Il derviscio e la morte” di Meša Selimović… e l’orizzonte degli eventi.

Ogni tanto ci capita di scoprire un’opera straordinaria di cui non avevamo mai avuto notizia o che una conoscenza superficiale non ci aveva spinto ad approfondire. Impossibile compilare un inventario: la produzione di letteratura, musica, teatro, cinema, arti figurative e concettuali… ha accumulato un numero esorbitante di prodotti del genio creativo di chi ci ha preceduto. Inutile affannarsi quindi, possiamo solo andare avanti per la nostra strada rallegrandoci quando ci capiterà di incrociare uno di questi capolavori.

Un esempio perfetto di questa speciale categoria è “Il derviscio e la morte”, romanzo di Meša Selimović. Nel 1966, dopo una produzione letteraria senza particolari picchi di genialità, a 56 anni Selimović scrisse questo straordinario spaccato di un mondo perduto che dal passato ci parla con incredibile attualità.

La storia è ambientata in una cittadina di provincia della Bosnia verso la fine della lunga dominazione turca (1463-1878).

Mesa Slimovic

Lo sceicco Ahmed Nurudin, che gode del prestigio e della considerazione di tutta la popolazione, subisce un torto che lo fa precipitare in un incubo: suo fratello viene ingiustamente arrestato e a nulla valgono i suoi tentativi di liberarlo. La sua influenza e le sue pressioni risultano inutili, forse addirittura controproducenti.

C’è qualcosa che fa ricordare il rapporto del cittadino con il “potere” analizzato a fondo da Kafka, ma il passo di Selimović è molto diverso, meno analitico e astratto, più emotivo.

Quando nell’enigmatico romanzo “Il Castello” K si finge agrimensore, Kafka descrivendo la vicenda in terza persona svela che con l’azzardo di quella menzogna il suo alter ego ha lanciato una consapevole sfida al “potere”. Ed ecco che dai meandri del Castello la voce di un grigio funzionario lo chiama al telefono, confermandolo nel ruolo che non gli compete e accettando così quella sfida. Sullo sfondo della linea disturbata si ode un tappeto di suoni misteriosi e s’intuisce un complicato passaggio di direttive che nulla svelano delle gerarchie che le hanno generate, regole non scritte di un’organizzazione solida e complessa. La metafora della burocrazia impenetrabile che controlla e comanda la vita dei cittadini è la grande visione profetica di Kafka.

Franz Kafka

Nel romanzo di Selimović assistiamo a un “potere” che agisce in un teatro lontano nel tempo, alla periferia di un impero che non esiste più, ma in un conteso molto più realistico. Il monologo in prima persona ci fa vivere tutto il peso del dramma. L’arrogante Cadì (una specie di Prefetto che amministra arbitrariamente la giustizia) non accetta il benché minimo rapporto di mediazione con Ahmed Nurudin ma lo illude con la prospettiva di un “do ut des”: se aiuterà sua moglie in una delicata questione di eredità forse allora… Come in una beffa atroce, invece di dare allo sceicco il tempo di ottenere un risultato e senza alcun preavviso, il Cadì ordina l’esecuzione del prigioniero, che viene strangolato dai suoi carcerieri senza un pubblico processo né alcuna una possibilità di difesa.

La corruzione, l’intrigo e l’ingiustizia, che hanno accerchiato e ferito lo sceicco/derviscio, ben presto prendono il sopravvento, trasformando anche lui in un uomo vendicativo, pronto a sporcarsi le mani e la coscienza.

Avevo sentito parlare di questo romanzo avendo frequentato molto la ex Jugoslavia tra il 1997 e il 2003 per una parte delle riprese di due film che ho diretto (“Mare Largo” e “Ilaria Alpi: Il più crudele dei giorni”) ma la volontà di leggerlo è stata stimola in seguito dalla visione di un film di Alberto Rondalli “Il derviscio” (2001).

foto di scena tratte da il film “Il Derviscio”

Il film racconta molto bene questa storia con rigore formale e narrativo in linea con l’atmosfera delle pagine di Selimović. Alberto è un amico ritrovato dopo anni di silenzio… una buona occasione per rivedere il suo film.

La regia, che all’epoca mi era sembrata “classica”, dimostra oggi il coraggio della scelta di un ritmo che senza la fretta progressivamente imposta al cinema del linguaggio dominante della televisione, fa vivere il dramma con il giusto andamento. Un clima da tragedia greca accompagna l’amaro destino di Ahmed Nurudin, già scritto nelle stelle… ma lui non poteva vederlo, così impegnato a vivere un’esistenza sospesa in una dimensione quasi irreale, fatta dei suoi piccoli privilegi, impegnato ad adempiere con serietà e rigore a quel ruolo, fino a che il “reversal of fortune” che in qualsiasi momento ognuno di noi potrebbe incontrare dietro l’angolo, lo riporla alla realtà degli uomini.

Il derviscio e la morte” fu immediatamente riconosciuto per quello che era: un classico. I due romanzi successivi di Selimović, “La fortezza” e “L’isola”, entrambi di altissimo livello, completano una straordinaria trilogia… ma “Il derviscio e la morte” fu accompagnato da un fenomeno di adesione totale e la sua stella fu irripetibile, tanto che diventò un testo diffuso nelle scuole della ex Jugoslavia, paragonabile per il suo peso specifico a “I promessi sposi” in Italia.

Come Kafka, che un ventennio prima di Orwell prevedeva lo scenario estremo di un mondo globalizzato, così Selimović nel suo microcosmo definisce le coordinate dell’egoismo e della ferocia nei rapporti, la corruzione cronica, lo spregio dei diritti umani. Un dramma personale di Selimović (la fucilazione di suo fratello) è stato rielaborato nel romanzo in una visione molto più ampia e universale che gli conferiscono l’autorevolezza di una visione profetica.

Le oligarchie economiche, le consorterie del potere che controllano il mondo non hanno più alcuno scrupolo e nelle guerre moderne sempre di più sono i civili a pagare un prezzo altissimo. Il lavoro dei giornalisti prima e degli storici poi, è davvero molto difficile perché le variabili e i possibili punti di vista sono sempre molteplici e le ragioni non sono mai bianche o nere. Si tratta sempre d’interpretazioni, di sintesi che non potranno mai dare un quadro completo ma possono però suggerirlo, indicando una direzione, limitando le possibili chiavi di lettura.

Ho visto di recente un bellissimo documentario, “The Vietnam War” di Ken Burns e Lynn Novick, dieci episodi per un totale di diciassette ore, che ripercorrono per intero tutte le fasi della guerra dai primi fuochi negli anni 50’ alla sua conclusione nel 1975. Costo di produzione 30 milioni di dollari, dieci anni di lavoro. L’incredibile sequenza di crimini di guerra perpetrati dagli americani è qualcosa d’inimmaginabile. Con le loro decisioni dettate dall’opportunità politica Kennedy, Johnson e Nixon si sono macchiati di delitti atroci contro l’umanità, con l’unica giustificazione possibile dell’ottuso spauracchio del comunismo nell’ottica deformata della guerra fredda.

Qualche anno fa a Londra, a South Kensington, sono stato ospite di Afdera Franchetti, un’ottantenne che conserva intatto il suo charme seduttivo e la sua bellezza. Il suo strano nome viene da un vulcano della Dancalia, un vasto territorio che comprende Gibuti, parte dell’Eritrea e dell’Etiopia, percorsa in lungo e in largo da suo padre Raimondo, grande esploratore, ricchissimo e illuminato. Afdera èstata sposata con Henry Fonda per una decina d’anni. A soli 23 anni è diventata così la matrigna di Jane Fonda che aveva solo sei anni meno di lei. “Sono stata una pessima matrigna!”mi ha confessato. Dopo dieci anni si era stufata di Henry Fonda “… un marito adorante e perfetto. Un santo!” Aveva incontrato un altro Henry, inglese, un uomo sposato con il quale aveva avuto altri dieci anni d’amore, pieno di drammi e di emozioni. Nella sequenza cronologica dei suoi uomini era stata poi la volta di un altro inglese, un giudice, con il quale si era trasferita a Hong Kong.

Henry Fonda ed Afdera Franchetti

Jane Fonda

Che donna fantastica! Avrebbe fatto perdere la testa anche a me. Mi ha affascinato a ottant’anni suonati, figuriamoci se l’avessi incontrata negli anni d’oro! L’ultima sera Afdera suggerisce di andare a cena in una rosticceria vicino a casa, un posto semplice, ma molto famoso a Londra per i suoi polli arrosto, consegnati agli indirizzi più prestigiosi della città.

Afdera Franchetti

Quando usciamo dal suo palazzo c’è un portiere che non avevo ancora visto… ce ne sono cinque a rotazione.

Questo è iracheno: sua nonna era la sorella di Saddam Hussein. Dice che era un genio, tradito e pugnalato alle spalle dagli americani.”

Poco dopo, alla rosticceria, incontriamo la proprietaria, una siriana. Afdera me la presenta come “ammiratrice di Bashar al-Assad, quell’orribile dittatore che ha ucciso migliaia di bambini”… e lo dice davanti a lei, apertamente, in inglese!

Bashar Al Assad

La siriana abbozza un mezzo sorriso rassegnato e suggerisce di cambiare argomento per evitare discussioni.

Meglio non inimicarsi il gestore di un ristorante dove stai per mangiare e intervengo anch’io, senza prendere una posizione su al-Assad, ma sapendo di farla contenta.

Il mio discorso, abbastanza scontato, diceva più o meno così:

In duecento cinquant’anni di storia gli Stati Uniti hanno avuto solo diciassette anni di pace… I veri affari si fanno solo se ci sono delle guerre in corso. Ogni volta c’è una buona scusa, sostenuta da una potente propaganda… Salviamo questi poveracci da questa terribile dittatura!!! Il vero fine è quello di attivare una guerra: la popolazione civile e sempre sacrificabile, milioni e milioni di morti. Dopo aver causato l’ultima disastrosa crisi economica mondiale gli americani ne sono usciti benissimo, mentre l’Europa, ancora in un mare guai, è accerchiata da nuovi conflitti… e deve fare i conti con l’invasione di milioni di disperati che dalle guerre e dalla miseria cercano di fuggire… e con un integralismo islamico sempre più feroce e organizzato, infiltrato anche dentro i suoi confini.

La siriana annuisce soddisfatta: il pollo arrosto è all’altezza della sua fama.

Al di la delle parole che in poche frasi possono spostare il baricentro della ragione… che cosa c’è dietro a un conflitto come quello scoppiato in Siria nel 2011? Un amico Siriano, trasferitosi in Italia per ragioni di lavoro sei mesi prima dello scoppio della guerra civile, mi ha detto che nessuno avrebbe mai immaginato la possibilità di una simile evoluzione. La solidità del regime non dava adito a una tale ipotesi… eppure l’interesse delle forze in gioco ha fatto partire un altro genocidio per il controllo di un territorio ricco in una posizione strategica.

I continui spostamenti del baricentro dell’informazione e la quantità dei dati che ci arrivano ci fanno dimenticare presto i singoli eventi. Ormai la “memoria corta della storia” è una condizione cronica che permette di far passare con relativa leggerezza anche la peggiore delle notizie, spesso già manipolata nella sostanza.

Quanti si ricordano che il 14 aprile 2018, una coalizione formata da Stati Uniti, Inghilterra e Francia, ha bombardato obbiettivi strategici in Siria come reazione al presunto utilizzo di armi chimiche da parte del regime di al-Assad…?

Macron – Trump – May

Un centinaio di civili vicini ai ribelli integralisti islamici, erano stati eliminati come topi, con il gas. Il bombardamento era quindi “giustificato e necessario”.

Quasi nessuno si ricorderà che negli anni della guerra tra Iran e Iraq (1980-1988) gli iracheni hanno spesso utilizzato armi chimiche i cui componenti venivano forniti da aziende europee e americane, uccidendo decine di migliaia di Iraniani… ma poiché all’epoca tutti i paesi occidentali e gli USA sostenevano Saddam Hussein, nessuno ha parlato. Paradossalmente l’unico paese ad aiutare sottobanco l’Iran fu Israele, ben consapevole del pericolo di un’eventuale vittoria di Saddam. Un’altra guerra quasi dimenticata quella tra Iran e Iraq, che in otto anni provocò circa un milione di morti.

Saddam – Khomeini

La coscienza critica e la logica sono orami appiattite alla superfice delle notizie riportate dalla stampa: a distanza di poche settimane gli oltre cento morti gassati, come gli altri morti a causa del bombardamento, sono già nell’oblio.

Ormai non ci si pensa quasi più che nel marzo del 2003 George  W. Bush, con la complicità di Tony Blair e altri, decise l’attacco al regime di Saddam Hussein in Iraq, dando inizio a una destabilizzazione del pianeta sulla base di una serie di menzogne ormai evidenti.

George W. Bush e Tony Blair

Azioni decise e perpetrate dal più forte, modalità di cui nemmeno ci si scandalizza più… E cosa dire dei Francesi, che dopo aver tramato con successo, forti dell’appoggio americano, per convincere il mondo ad agire contro il regime di Gheddafi con il conseguente disastro di dimensioni incalcolabili per le prossime generazioni di europei, si permettono di dare delle lezioni di etica sulla gestione degli immigrati mentre la loro gendarmerieprovvede ad intercettarli sul nostro confine rispedendoli sistematicamente in Italia con estrema durezza.

Nel caso della guerra in Iraq, come per il bombardamento in Siria, le dimensioni quasi epiche di queste guerre-spettacolo, trasmesse in diretta dalle TV di tutto il mondo, hanno zittito per un po’ i dubbi di chi normalmente si pone delle domande, con l’idea strategica che se proprio devi dire una bugia è meglio dirla grossa!

Donald Trump, Theresa May e Emmanuel Macron hanno sfoderato le loro certezze con l’abituale arroganza consigliabile ed efficace in questi casi a discapito di una logica che dovrebbe far sorgere dei dubbi.

Sarebbe il caso di tenere presente che…

  • La Siria è l’unico paese arabo che non ha debiti con il Fondo Monetario Internazionale, con la Banca Mondiale, ne con chiunque altro.
  • La Siria è l’unico paese arabo con una costituzione laica che non tollera i movimenti integralisti islamici, combattuti con metodi spesso estremi.
  • La famiglia Assad appartiene alla corrente sciita minoritaria alauita, moderata e tollerante, e se pure in un regime duro e assolutista ha un’approvazione molto alta dalla popolazione.
  • Le donne siriane non sono obbligate a indossare il velo e hanno gli stessi diritti degli uomini. La Sharia (la legge islamica) in Siria è anticostituzionale.
  • La Siria ha vietato gli alimenti genericamente modificati (OGM), sia la coltivazione che l’importazione.
  • E’ l’unico paese del Mediterraneo interamente proprietario del suo petrolio e non ha mai privatizzato le imprese statali. Riserve 2,5 miliardi di barili. Produzione 500mila barili al giorno.
  • Circa il 10% della popolazione siriana è cristiano, presente nella vita politica e sociale mentre negli altri paesi arabi non raggiunge l’1% a causa delle persecuzioni e della poca tolleranza.
  • La Siria era il solo paese pacifico della zona, senza guerre o conflitti interni, con un’apertura verso la società e cultura occidentale paragonabile solo a quella del Libano di un tempo e dell’Iran quando regnava lo Scià.

alcune immagini di Damasco prima e dopo i bombardamenti

Per quale motivo al-Assad avrebbe ordinato l’utilizzo di armi chimiche quando stava sconfiggendo gli integralisti islamici? Perché offrire un simile pretesto rischiando una reazione giustificata da parte della comunità internazionale?

Non è più logico che qualcuno abbia tramato nell’ombra sacrificando un centinaio di civili per giustificare un’azione militare contro il regime siriano? Gli stessi integralisti sono quelli che avevano più da guadagnarci… Se non ci fossero la Russia e l’Iran a spalleggiare il regime siriano è probabile che avremmo già assistito a un epilogo simile a quello dell’Iraq e ci troveremmo con un altro paese integralista, totalmente instabile.

Il regime dittatoriale di al-Assad non è difendibile da un punto di vista etico, come non lo erano Saddam Hussein, Gheddafi o Mubarak… ma quali sono i rischi in un mondo globalizzato se i paesi di maggiore peso possono intervenire impunemente con la forza contro altri paesi più deboli? Perché nessuno è intervenuto a fermare i tanti massacri africani? Perché nessuno parla della guerra civile in Yemen scoppiata nel 2015 che ha già causato decine di migliaia di morti? Persino la guerra nei Balcani (1991-2001) scoppiata nel cuore dell’Europa, si è consumata sotto gli occhi del mondo, con 250mila morti, orrori indicibili, massacri e pulizia etnica… La risposta è semplice: quasi sempre gli interventi o gli aiuti militari concessi/imposti a una delle parti coinvolte in una guerra civile seguono l’interesse economico o strategico di chi li attiva.

La destabilizzazione del mondo islamico e del nord Africa, hanno portato a un indebolimento progressivo dell’Europa. Brexit non sarebbe stata pensabile in un contesto diverso.

Lo “scontro di civiltà” che ormai ogni giorno insanguina il mondo, come Samuel P. Huntington aveva previsto con largo anticipo, è motivato in superficie dall’identità religiosa ma certamente in profondità è radicato agli interessi delle grandi economie. All’inizio degli anni 90’ nel suo saggio “The Clash of Civilizations”, Huntingtonsostenevache le cose inizieranno a migliorare solo intorno al 2032.

Samuel Huntington

La sua analisi basata sullo studio dei flussi migratori, le variazioni demografiche e gli spostamenti del baricentro dell’economia, all’epoca fu rigettata con sdegno e pesantemente criticata… ma oggi sappiamo che ci aveva visto giusto.

La propaganda anglo-americana continua ad attaccare, ben sapendo che il baricentro del mondo non è più in occidente e che ogni strategia sembra lecita per procrastinare il più possibile la decadenza. Le guerre sono il sistema più efficace perché cambiamo le carte in tavola, sono un affare miliardario che rigenera e indirizza i flussi economici permettendo un riassetto degli equilibri.

Un’amica Iraniana mi ha racconto che nel suo paese girava una voce: Saddam non è mai stato giustiziato e a fare una brutta fine al suo posto c’era uno dei suoi sosia. Non ci sono sull’identità del cadavere di Saddam che secondo questa voce vivrebbe da qualche parte in Italia.

esecuzione di Saddam Hussein

E ancora: Edward Snowden, il “traditore” americano rifugiato a Mosca, ex agente dalla CIA che ha diffuso informazioni classificate sottratte alla National Security Agency (per molti un eroe che ha avuto il coraggio di svelare al mondo un’incredibile e illegale intromissione nella privacy da parte dell’intelligence americana) sostiene che Osama Bin Landen vive tranquillo da qualche parte a spese della CIA che gli passerebbe un appannaggio di 100mila dollari al mese.

Fantasia o realtà? Ovviamente non lo sapremo mai, ma per come va il mondo potrebbero benissimo essere storie vere.

Edward Snowden – Osama Bin Laden

Il 2 ottobre 2018 Jamal Khashoggi, giornalista saudita del Washington Post, critico nei confronti del regime del suo paese, è stato attirato in una trappola nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, dove avrebbe dovuto ottenere i documenti necessari al suo matrimonio. Lo hanno torturato, trucidato, fatto a pezzi e dissolto nell’acido per ordine diretto delle più alte sfere del regime saudita. Eppure contro l’Arabia Saudita e le sue immense riserve di petrodollari, nonostante una barbarie degna del peggior medioevo, nessuno si attiva per una condanna e delle pesanti sanzioni, che invece Donald Trump impone nuovamente all’Iran. Eppure in Arabia Saudita la situazione è ben peggiore di quella dell’Iran dal punto di vista dei diritti umani. A questo proposito è doveroso segnalare il coraggioso documentario di James JonesSaudi Arabia Undercover”, dove grazie a una telecamera nascosta si entra in un modo sconosciuto e inquietante. Prodotto per Frontline PBS, questo documentario è stato realizzato nonostante il concreto rischio di arrestato e fustigazione sulla pubblica piazza di Riyadh, dove nel film vengono documentate le tracce di sangue di una delle tante esecuzioni sommarie per decapitazione.

Persino la musica è vietata in Arabia Saudita. Le donne non contano, non possono guidare una macchina e spesso sono oggetto di soprusi e violenza… ma senza un uomo che le accompagni non hanno nemmeno il diritto di fare una denuncia.

Anche per gli attentati dell’11 settembre 2001 i sauditi ne sono usciti “puliti” nonostante ben quindici dei diciannove terroristi coinvolti (e lo stesso Osama Bin Laden) venissero dall’Arabia Saudita. Gli interessi economici vincono sempre.

Jamal Khashoggi

Non c’è dato di sapere cosa ci sia nelle registrazioni audio che i servizi segreti turchi hanno condiviso con USA, Francia, Germania e con il regime di Riyadh… ma quello che contengono ha costretto i sauditi a cambiare la loro prima versione dei fatti. Dopo avere mentito spudoratamente sostenendo che Jamal Khashoggi era uscito dal consolato vivo e vegeto, hanno ammesso che a causa di un “incidente” era deceduto all’interno del consolato… un interrogatorio “andato male”.

Peccato che le autorità turche avessero già identificato una “squadra della morte” composta da dodici persone partite da Riyadh, inviate a Istanbul allo scopo di assassinare il giornalista caduto in disgrazia, in esilio volontario da circa un anno negli Stati Uniti per paura delle conseguenze dopo che aveva apertamente criticato l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman.

E’ una fredda giornata di sole a South Kensington.

south-kensington

Mi sento una sopravvissuta” dice Afdera poco prima della mia partenza. In quei pochi giorni di convivenza, stimolata dalla mia curiosità, si è trovata a ripercorrere il lungo cammino della sua vita e adesso si sente un po’ scombussolata, forse anche disturbata dall’intromissione consenziente nella sua privacy.

Il mio pensiero va alla sequenza di eventi della sera precedente: i racconti fantastici sul padre Raimondo esploratore in Africa, l’incontro con il portiere iracheno, con la ristoratrice siriana e il suo favoloso pollo arrosto…

Un pronipote di Saddam Hussein e una sostenitrice di al-Assad si ritrovano a poche centinaia di metri l’uno dall’altra in uno dei quartieri più esclusivi di Londra, come altri milioni di disperati sono finiti in ogni angolo del mondo, spinti dalle guerre e dalla miseria. Due storie, tra mille e mille, in questo caso collegate dalla conoscenza comune di una vecchia signora italiana, che dopo una vita privilegiata da giramondo si è ritirata a Londra per ritrovare una routine, un’esistenza tranquilla e serena per il tempo che le rimane. Quello che tutti cercano.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

PS

La fine agghiacciante di Jamal Khashoggi mi ha scosso nel profondo e non riesco a smettere di pensarci: un simile orrore non è compatibile con una civiltà che si avvale di organizzazioni internazionali nate per regolare e punire gli eccessi degli stati “canaglia”, aggressivi, retrogradi, spietati… ma questa categoria non compete a chi può contare su una riserva stimata in circa mille miliardi di petrodollari. A Jamal Khashoggi e alla sua famiglia dedico questo approfondimento.

CONTAMINAZIONI n° 12 – Sound art: la memoria corta della storia. L’arca romana di Alvin Curran a Caracalla… nel segno di Sokurov e Tarkovsky

Le imponenti rovine della Roma imperiale, con un automatico paragone in difetto, facilmente ci suggeriscono considerazioni sulla decadenza della civiltà contemporanea.

Terme di Caracalla

Pensiamo al Colosseo, al Pantheon, a Villa Adriana, alle terme di Caracalla e a quello che rimane del passaggio dei romani in ogni angolo dell’impero: l’arena di Pola in Croazia e di Arles in Francia, la porta Nigra in Germania, l’anfiteatro di ElJem in Tunisia, le terrazze di Efeso e il teatro di Aspendos in Turchia…

Anfiteatro di ElJem in Tunisia

Un patrimonio sconfinato e ineguagliabile contro le continue lamentele sul degrado della Roma di oggi, con le buche che rendono pericolosa la circolazione anche in centro e i servizi che non funzionano.

Ai tempi di Augusto e Livia c’erano già oltre un milione di abitanti e sicuramente ci si lamentava anche allora, magari idealizzando il periodo agropastorale di Romolo e Remo, i fondatori, quando lontani dai vizi della decadenza ci si occupava di sane attività, del tipo… procurarsi femmine per generare una discendenza.

Augustus di Prima Porta

La lupa con i gemelli Romolo e Remo

 

Come predoni i primi romani calavano sui popoli vicini per rapire le loro donne, eppure il “ratto delle Sabine” anche sui libri di scuola non è mai stato dipinto come uno stupro di massa ma piuttosto un necessario aggiustamento nella prospettiva dello sviluppo di una grande civiltà. Strano che nessuno abbia ancora segnalato il caso alle attivissime vendicatrici di “Me Too”, ma forse questo è davvero fuori tempo massimo.

 

La civiltà romana si diffuse in quasi tutto il mondo allora conosciuto, portando un metodo, un’amministrazione pubblica efficiente, delle regole di convivenza codificate… imponendo la sua visione innovativa a popolazioni che erano molto più indietro, più o meno dei “barbari”. Non è senza senso quindi la battuta attribuita a un romano di oggi che si rivolge a un inglese:

“E’ inutile che vi diate tante arie… Quando ancora abitavate nelle caverne noi romani eravamo già froci!”

Il paradosso sembrerebbe qui dare un valore positivo alla diversità sessuale quando in realtà vuole solo imporre ad ogni costo la propria superiorità nella disputa, ricorrendo persino alla presunta negazione di pregiudizi omofobici… ma la battuta è filologicamente corretta poiché la percezione dell’omosessualità nell’antica Roma era lontana dalla condanna e dal pregiudizio, codificati più tardi con la chiusura mentale delle religioni moderne.

Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha dichiarato che preferirebbe vedere suo figlio morto piuttosto che omosessuale, una posizione abbastanza comune, e non solo tra i simpatizzanti di una dittatura militare che in Brasile, hai tempi del “plan condor”,  ha torturato e ucciso.

il presidente brasiliano Bolsonaro

A un certo punto nella cultura occidentale sono state definite delle regole che qualcuno si è impuntato a far rispettare con la violenza e la coercizione, come ancora accade in Arabia Saudita, Yemen, Sudan, Nigeria, Tanzania… una settantina di paesi del mondo dove la legge punisce questa “diversità”.

Un caso curioso è rappresentato dall’Iran, dove è prevista la pena di morte per gli omosessuali, ma solo per gli uomini, mentre per le lesbiche ci si limita a cento frustate.

due ragazzi mpiccati nel 2005 per il reato di omosessualità vigente in Iran

Allo stesso tempo dal 1985, già in epoca khomeinista, la legge permette il cambio di sesso. Il primo uomo a diventare donna in Iran fu un certo Feridun Malekara (conosciuta anche come Maryam Khatoon Molkara) che si rivolse direttamente a Khomeini spiegando il suo problema. Pare che tra i due ci fosse un legame di parentela, una voce che gira a Tehran ma non ne ho la certezza. Mi sembra però un’ipotesi più che plausibile: per avere il coraggio di andare dall’Ayatollah in persona e rompergli i coglioni con una richiesta così assurda, e in piena guerra con l’Iraq… beh, come minimo doveva essere il suo nipote preferito.

 

“Zio, zio…”

“Cosa vuoi ancora?”

“Mi sento intrappolato in un corpo che non è il mio. Mi sento donna!”

“Oh cazzo…! Ma sei sicuro?”

 

Maryam Khatoon Molkara

Khomeini

 

Khomeini si dev’essere poi rassegnato all’idea, ordinando di approvare subito una nuova legge, ma molto generica.

“E’ possibile cambiare sesso.” Basta.

La feroce repressione dell’omosessualità combinata alla facilità nel cambio di sesso (basta essere maggiorenni) ha fatto sì che in Iran molti transgender abbiano seguito questa strada (oggi circa duemila casi all’anno, secondo solo alla Tailandia) e la scienza si sia evoluta al punto che questo paese è diventato un pioniere in materia anche dal punto di vista medico.

Non c’è traccia del passaggio dei romani in Iran: si fermarono in Turchia senza mai riuscire a conquistare la Persia. L’imperatore Valeriano fu sconfitto nel 260 d.c. dall’esercito dei Sasanidi, comandato dal re Shapur.

Tutto questo è stato rievocato pensando a una recente visita alle terme di Caracalla, alla scoperta di una straordinaria installazione sonora di Alvin Curran.

Terme di Caracalla

Alvin Curran e l’autore dell’articolo alle terme di Caracalla

Lo spazio delimitato dalle mura perimetrali si compone di enormi palestre e piscine, dove il popolo romano poteva curare il proprio benessere, socializzare, passare il tempo. Un’opera ciclopica, che suggerisce l’apice di una grande civiltà e quasi intimidisce per la sua grandiosa intelligenza progettuale.

L’equazione di Alvin Curran e di mettere in relazione questo enorme oggetto apparentemente inanimato con un’infinita combinazione di suoni in una serie di altrettanto infinite sequenze prodotte da un computer, con diffusori posizionati secondo una logica precisa che fa arrivare il suono dalle più variegate angolazioni. Se s’aggiunge anche il cambiamento della luce naturale e poi la staticità dell’illuminazione notturna, ecco che il quadro è quasi completo. Dico quasi perché mancano altre varianti, come il movimento e la presenza degli eventuali visitatori e la vita “naturale”, selvaggia, che si è impossessata dello spazio… Ci sono gabbiani, gatti, topi ovviamente, e una piccola comunità di falchi pellegrini…

Veduta totale delle Terme di Caracalla

 

Durante il complicato allestimento, mentre i diffusori venivano portati perfino nei cunicoli del sottosuolo sfruttando come via di fuga una serie di aperture, e poi in altri punti più in alto, ci si è posto il problema di questi rapaci, specie protetta e delicata. Un diffusore stava per finire proprio nel loro nido… ma i falchi pellegrini già dalle prime prove tecniche non avevano fatto una piega, anzi, sembrava che quasi gradissero l’intromissione di quel mondo sonoro che un po’ alla volta veniva loro imposto nella composizione del lavoro.

Possiamo quindi affermare, dopo averlo verificato sul campo, che “al falco pellegrino piace la sound art”.

 

Un falco pellegrino in picchiata

 

L’arte sonora è una forma di espressione artistica molto sofisticata e di grande impatto emotivo che, diversamente da quanto generalmente si crede, non nacque negli USA con John Cage (che ne fu certamente un importante e innovativo interprete e catalizzatore) ma nell’Unione Sovietica di Lenin. Quasi tutta la straordinaria sperimentazione dei “soundartisti” sovietici fu distrutta da Stalin che era contrario alle avanguardie. Quello che ci è rimasto, che si è riusciti a recuperare, lo si deve a un’idea geniale di Vladimir Il’ič Ul’janov (il vero nome di Lenin – 22 aprile 1870 – 21 gennaio 1924) che offrì a tutti gli artisti della Russia la possibilità di viaggiare gratis in treno.

Lenin

Molti di loro erano senza fissa dimora… come ci ricorda persino il nome di uno dei protagonisti de “Il maestro e margherita” di Mikhail Bulgakov, il poeta Ivan Nikolayevich Ponyrov, detto “Bezdomny”, cioè “senza casa”. Molti artisti vivevano viaggiando in lungo e in largo per il paese, abitando i treni e le stazioni, fermandosi quando e dove potevano.

Le registrazioni degli esperimenti dei “soundartisti”, sono state ritrovale negli archivi di alcune piccole città, in alcuni casi sperdute, dove la distruzione ordinata da Stalin non ha colpito con l’efficacia sistematica adottata nelle grandi città.

Tra questi pochi superstiti ci sono esempi straordinari e imponenti, come l’opera di Arseny Avraamov che, nel 1922 a Baku, registrò “Symphony of Factory Sirens”, un evento livenel quale dirigeva l’azione delle sirene in alcune fabbrica circostanti.

Arseny Avraamov a Mosca nel 1923

Una fine tragica toccò a Vsevolod Mejerchol’d, fautore della prima sincronizzazione: fu arrestato, torturato e ucciso, durante le purghe di Stalin nel 1940.

Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d

 

Un altro grande sperimentatore fu Lev Theremin, scienziato e inventore di strumenti musicali, in particolare l’eterofono, (ribattezzato poi “theremin”). Nel 1938, al ritorno da una permanenza di alcuni anni in America, fu internato in un campo di lavoro, ma sopravvisse e fu poi riabilitato grazie a una proficua collaborazione con il KGB nella progettazione di tecnologia spionistica. Morì a Mosca nel 1993 a 97 anni.

Lev Theremin ed il suo Eterofono

 

Sono molti gli artisti contemporanei che si dedicano anche (o solo) alla sound art, una forma espressiva ancora poco nota al grande pubblico. Se prendiamo come paragone una classica mostra istituzionale, che ne so… i soliti “impressionisti”, Frida Kalo o Jan Vermeer (magari alle scuderie del Quirinale) la proporzione di pubblico interessato alla soud artforse non arriva l’1%, ma non è certo questo che ne sminuisce il valore. L’esperienza attiva di chi fruisce un’opera sonora può essere qualcosa di veramente speciale: una percezione che utilizza anche il senso dell’udito fa provare sensazioni che coinvolgono in profondità.

All’Auditorium di Roma, Anna Cestelli Guidi, una curatrice sensibile e determinata, ha inventato il “Sound Corner”, sfruttando un corridoio che si allarga all’interno della struttura progettata da Renzo Piano, in uno spazio sufficientemente riservato, adatto alla bisogna.

Il sound corner all’Auditorium di Roma

Questa iniziativa va avanti da qualche anno e contribuisce a diffondere la consuetudine alla sound art a Roma… ma è ovvio che la differenza con un grande spazio aperto come quello delle terme di Caracalla affrontato da Alvin Curran a singolar tenzone, è sostanziale.

La grandiosità dell’intervento di Alvin, più vicino alla land artche a un’installazione sonora, ci riporta idealmente alle sperimentazioni del suono sui grandi spazi, intraprese dei sovietici ai tempi di Lenin, in una sana contaminazione con la tradizione occidentale di John Cage, di cui lui certamente è un degno erede.

veduta aerea delle terme di Caracalla

 

Angelo Farro, giovane compositore e collaboratore di Alvin, mi ha spigato le particolarità tecniche dell’opera: utilizzando dei logaritmi, un computer va a pescare i file sonori da diverse “cartelle” e li rielabora seguendo una casualità che potrebbe vedere lo stesso frammento ripetuto a breve distanza oppure no… un’intelligenza artificiale che una volta attivata, entro certi limiti, collabora autonomamente. Otto diffusori sono stati posizionati nel sottosuolo, mentre altri dodici in vari punti in tutto lo spazio delle terme, su altri due livelli: in altro (le mura in alcuni punti superno i trenta metri) e ad altezza d’uomo. Questo comporta una combinazione di tre diverse provenienze del suono con una specie di effetto dolby sourround. Ci sono poi dei suoni “sinusoidali”, cioè puri, limitati a una precisa frequenza, che viaggiano attraversando lo spazio come delle lame taglienti e invisibili… a loro volta combinati con loro simili che si differenziano solo per pochi hertz. La complessità tecnica e teorica si spinge molto più in là e può avere un senso per gli addetti ai lavori… quello che conta è la percezione di un sistema complesso.

OMNIA-FLUMINA-ROMAM-DUCUNT-TUTTI-I-FIUMI-PORTANO-A-ROMA architetture sonore di ALVIN-CURRAN

Alvin Curran all’inaugurazione della sua opera alle terme di Caracalla

All’inaugurazione del lavoro di Alvin a Caracalla (Omina Flumina Roma Ducunt– Tutte le strade portano a Roma – Architetture sonore di Alvin Curran, a cura di RAM radioartemobile) ho incontrato Donatella Spaziani, un’artista romana, forte, una cara amica… e mentre tutti i visitatori dal grande spazio all’entrata s’incanalavano a destra per procedere in senso anti orario, ci siamo ritrovati a camminare insieme in senso orario, contromano, costeggiando i bellissimi mosaici dalla parte che per tutti sarebbe stata la fine del percorso, dove non c’era ancora nessuno. Era da un po’ che non ci vedevamo, un paio di mesi almeno. Abbiamo cominciato parlando dei nostri dubbi e complicazioni sentimentali e della sua attesa per una nuova sede d’insegnamento. Chissà in quale accademia andrà a finire… Poi abbiamo parlato di un libro scritto da un amico che in copertina riporta una sua opera. Me lo aveva regalato prima dell’estate e per fortuna ho fatto in tempo a leggerlo.

Donatella Spaziani

ESCHE, di Andrea Fiorito, è un libro piuttosto sorprendete sia per la forza della scrittura che per il continuo spiazzamento che impone al lettore… ma si sente che non lo fa per stupirti o per farti vedere quanto poco sia convenzionale, è proprio così che funziona il suo cervello con il quale stabilisce un filo diretto che il suo stile scarno e volutamente grezzo riesce sempre a mantenere a fuoco, mentre vaga tra mondi ed esistenze marginali, puttane, disperati in cerca di sesso, solitudini e ossessioni…

 

Esauriti gli argomenti finalmente ci accorgiamo della meraviglia ci circonda e per un po’ ce ne siamo in silenzio. Camminando lungo una specie di passerella, mentre ascolto la complessità del lavoro di Alvin, mi viene in mente uno straordinario film, ARCA RUSSA (2002) di Alexander Sokurov, un lungo piano sequenza, un punto di vista fantastico che si muove dentro il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, attraversando varie epoche della storia della Russia.

La passeggiata a Caracalla tra le imponenti architetture romane, immerso nelle architetture sonore di Alvin, mi fa sentire come “trasportato”, non solo nello spazio ma anche nel tempo, un tempo che non cerco di definire pensando a quei suoni misteriosi come a una rievocazione soggettiva… La memoria mi riporta all’esplorazione dello Stalker nel capolavoro di Andrei Tarkovsky, che cerca una risposta ai propri dubbi sconfinando nella “zona” proibita, uno spazio pieno di pericoli mortali, dove le regole del mondo esterno sono sospese.

Il mondo reale, i rumori metropolitani della Roma di oggi che arrivano un po’ ovattati fanno da tappeto alla polifonia dei suoni “architettati” in centinaia di file gestiti dal computer e ripescati dal logaritmo che li combina in sequenze imprevedibili.

Le terme di Caracalla al tramonto

 

Poco dopo il tramonto incontriamo Mario e Dora e ci fermiamo qualche minuto, giusto per provare un po’ di affettuosa invidia per il loro entusiasmo, per la loro energia inesauribile: questo grande sforzo produttivo è stato possibile grazie alla loro determinazione e all’impegno della direttrice di Caracalla Marina Piranomonte.

Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier

Mario indica verso l’alto.

“Eccolo… il falco pellegrino!”

Alziamo gli occhi e intravediamo un’ombra alata volteggiare sulle gigantesche mura, ma è un attimo: il cielo scuro l’ha già inghiottita e non è possibile identificarla con certezza.

Mario non ha dubbi. E’ stata una giornata perfetta e la presenza regale del mitico rapace completa il quadro. Il nume tutelare dell’arte deve essere per forza lì presente, in forma di falco pellegrino, sopra le nostre teste.

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

CONTAMINAZIONI n° 11 – The Meyerowitz Stories, un piccolo grande film, e il genio dimenticato di Irene Nemirovsky.

E’ raro che il mondo dell’arte contemporanea sia degnamente rappresentato nel cinema. Il più delle volte si assiste alla messa in scena di banali luoghi comuni come potrebbero sembrare quelli della famosa sequenza del film “Le vacanze intelligenti” (1978), dove Alberto Sordi e la moglie, grassa e ignorante, si avventurano tra i padiglioni della Biennale di Venezia. In realtà quelle scene sono talmente “oltre” che diventano a loro modo geniali: il contesto è quello di una satira casereccia che lamenta la celebrazione di un’arte concettuale i cui “concetti” sono compresi e condivisi solo da un’elite, per simpatizzare con il popolino, preso in giro da quella spocchiosa autoreferenzialità.

Il punto di vista è dichiaratamente limitato a questo semplice conflitto sociale e la critica infatti continua cambiando bersaglio ma con la stessa tesi, nell’imperdibile scena del concerto di musica contemporanea. Qualche anno fa, nell’ultima intervista che ho avuto modo di girare con Getulio Alviani (protagonista dell’arte italiana del secondo 900’, recentemente scomparso) c’è un’analoga critica alla “truffa” dell’arte contemporanea. Nel suo abituale stile polemico “Get” sparava a zero su alcuni suoi colleghi, celebrati e rispettati, ma partendo da motivazioni molto diverse da quelle della coppia di “fruttaroli” catapultati all’edizione del 1978 della Biennale.

Lo Sposalizio della vergine di Raffaello

Avevamo appena attraversato insieme l’accademia di Brera, ammirando alcuni grandi capolavori come il “Cristo morto” del Mantegna e “Lo sposalizio della Vergine” di Raffaello… per citarne due che da soli valgono una visita al museo.

Il Cristo morto di Mantegna

E’ pieno di stupidi! Io l’ho scritto dappertutto… L’arte e il ricettacolo dei peggiori inetti sulla terra… Capisci… Perché sono capaci di farla tutti… Abbiamo appena visto le cose meravigliose dell’arte del rinascimento, che non erano in grado di farla tutti… Non la faceva nessuno, se non un genio!”

Getulio Alviani

Nella filmografia recente un esempio deludente è “Colpo d’occhio” (2008) di Sergio Rubini, dove a nulla è valso che le opere mostrate nel film fossero di un artista di talento come Gianni Dessì, persona di grandi qualità umane, coinvolto anche come consulente… ma dubito che i suoi consigli siano stati ascoltati con la dovuta attenzione, perché la banalità, il “macchiettismo”, la non conoscenza di questo mondo, rendono un brutto servizio sia al cinema che all’arte contemporanea.

Gianni Dessì

Sergio Rubini è un ottimo attore che ha diretto dei film riusciti, ma il suo ritratto superficiale del “critico d’arte/curatore”, una specie di Achille Bonito Oliva svuotato di ogni qualità, senso e dignità, è un banale cliché.

Il protagonista, un giovane artista in ascesa interpretato da un improbabile Riccardo Scamarcio, annaspa tra le sue opere che appaiono totalmente scollegate, come una realtà posticcia che non gli appartiene, mentre il discorso del film accenna vagamente alle presunte dinamiche del “mercato”, al potere dei curatori e dei critici e mai alla “ricerca” che il vero artista mette al centro della sua vita, quel tormento che, al di là delle apparenze e semplificazioni, costituisce il baricentro e il senso del suo lavoro, della “tenuta” che si può riconoscere nella lunga distanza di una vita dedicata. Un’occasione mancata per Scamarcio che recentemente ha dato una notevole prova d’attore in “Loro 1” di Paolo Sorrentino, anzi, è la cosa migliore di un film deludente… In “Colpo d’occhio” certo non è stato aiutato dalla sceneggiatura che lo ha costretto nei limiti di un personaggio banale.

Un’altra caduta di stile la troviamo ne “La grande bellezza” (2013) altro film di Sorrentino, dove si fa della facile ironia su quella tradizione che, a partire da Gina Pane, passando per Marina Abramovich, si è concentra su un tipo di ricerca legata all’utilizzo, spesso disturbante, del corpo umano come campo dell’azione, il corpo dello stesso artista, con tagli, bruciature, sangue, spilli conficcati sulla pelle…

Gina Pane – Azione sentimentale

MArina Abramovich – The artist is present

L’ultima performance in tal senso alla quale ho assistito è stata di Silvia Giambrone, una giovane artista italiana che lavora con grande intelligenza, talento e originalità.

Silvia Giambrone

Sorrentino, il cui cinema ho sempre amato (salvo i due “Loro” del 2018), deve avere conoscenze abbastanza superficiali nel campo dell’arte contemporanea, tanto da cadere anche lui nella banalità della messa in scena di un’assurda performance nella quale un’artista, una donna, corre verso un muro andando volontariamente a schiantarsi con un probabile trauma cranico così da strappare qualche risata tra il pubblico ignorante.

“Anni felici” (2013) di Daniele Luchetti (ispirato a suo padre, artista tormentato, scomparso a soli cinquant’anni) è sicuramente più onesto e interessante di altri film che trattano d’arte ma nonostante la rielaborazione di una sentita autobiografia e un attore protagonista come Kim Rossi Stuart, non convince. Anche qui si finisce per cadere nella descrizione superficiale di presunte dinamiche che possono portare un artista ad avere successo, mentre un altro a vivere la frustrazione del fallimento.

Una foto tratta da “Anni felici”

Ci sono certamente altri esempi negativi di come l’arte è stata raccontata dal cinema, ma preferisco segnalarne uno di molto positivo: “The Meyerowitz Stories” (2017), di Noah Baumbach.

Il cast è stellare ma il film ha il taglio e il sapore del miglior cinema indipendente americano. Racconta le dinamiche familiari che ruotano attorno a un artista praticamente dimenticato, interpretato da Dustin Hoffman. I sui figli di primo letto, Adam Sandler e Elisabeth Marvel (due sfigati) sono sempre stati gelosi del fratellastro Ben Stiller (imprenditore di successo), per il quale il padre, ormai alla terza moglie (Emma Thompson) ha sempre avuto un debole. Adam Sandler (separato e senza lavoro) ha un’adorazione non ricambiata per il padre ed è l’unico ormai a considerarlo un genio incompreso. La sua unica vera ricchezza è la figlia Eliza (Grace van Patten), studentessa di cinema al primo anno, autrice di alcuni divertenti cortometraggi dal contenuto provocatoriamente erotico, mostrati nel film per intero.

IL cast del film di Baumbach a Cannes

La performance di tutti gli attori è di altissimo livello e in particolare i tre figli di Hoffman sono dei mostri di bravura nel dare ai loro personaggi la complessità, le contraddizioni e l’umanità che fanno decollare il film.

Il mondo dell’arte è raccontato con grande competenza e capacità di sintesi in una serie di scene precise ed essenziali, dove quello che conta rimane la storia e il rapporto tra i personaggi. Non si prede tempo a sbrodolare teorie improbabili, a spiegare inutili prospettive al pubblico o a mostrare personaggi caratterizzati allo scopo di divertirlo… c’è invece un grande rispetto e una conoscenza profonda delle dinamiche di quel mondo, lontano dai luoghi comuni e con il giusto punto di vista.

L’amico e compagno di strada di Dastin Hoffman (interpretato da Judd Hirsch), è divento una super star dell’arte, celebrata dal mercato e dai musei. La scena in cui s’incontrato è piena d’informazioni sui sentimenti contrastati degli artisti, ma sempre in relazione alla vita e alle dinamiche esistenziali mosse dai protagonisti della storia.

Il cast alla 55^ edizione del NY film Festival, al centro Judd Hirsch

Con le dovute differenze, la sceneggiatura di Noah Baumbach, per l’elegante giostra dei personaggi, mi ha fatto pensare alle perfette architetture narrative di Irene Nemirovsky. Anche qui abbiamo una rappresentante dell’intellighenzia ebraica, ma circa novant’anni prima. Dopo aver letto quasi per caso il suo primo romanzo, “David Golder” (1929), ho capito di essermi imbattuto in un gigante della letteratura…

così sono andato a Campo dei Fiori, alla libreria “Fahrenheit 451” dalla mia amica Catia, e ho ordinato tutta la sua produzione disponibile in Italia, in gran parte pubblicata da Adelphi: un viaggio straordinario nelle pagine di una grande narratrice, capace in poche frasi di trascinare il lettore dentro la storia e di continuare a sorprenderlo fino alla fine.

Irene Nemirovsky

Nata a Kiev, figlia di un ricco banchiere ebreo, con la rivoluzione bolscevica fu costretta a fuggire in Francia. Aveva imparato il francese dalla sua governate, una figura affettiva molto più vicina di quanto lo sia mai stata sua madre, donna frivola e profondamente egoista che ispirerà diversi personaggi dei suoi romanzi. Anche il padre, sempre lontano per affari, non ebbe mai un ruolo centrale nella sua vita. Fin da ragazza iniziò a scrivere come sfogo, una reazione alla sua infelicità affettiva, inventandosi un metodo di lavoro che l’ha portata già molto giovane alla scrittura di un capolavoro come “David Golder”. Era già a Parigi da diversi anni quando mandò il manoscritto a un editore usando solo il cognome del marito sul mittente… ma siccome era incinta della prima figlia, per alcuni mesi non rispose alle lettere nelle quali la casa editrice le comunicava l’intenzione di pubblicare subito il romanzo.

Quando finalmente s’incontrarono, l’editore stentò a credere che quella giovane donna fosse davvero l’autrice di un simile capolavoro, potente, scarno, spietato e innovativo.

“David Golder” racconta gli ultimi mesi della vita di un vecchio ebreo che traffica in petrolio e altre rischiose speculazioni tra Parigi, Londra, New York, Mosca… A quel tempo non c’erano i collegamenti aerei e per concludere i suoi affari si trascina con ogni mezzo arrancando a fatica sui percorsi impervi di un mondo già globalizzato, mentre un’angina pectoris lo conduce lentamente verso la morte. E’ un romanzo che analizza lucidamente i rapporti umani restituendoci uno scenario senza speranza, ma la forza motrice del protagonista è proprio il rimanere aggrappato alla vita terrena che ogni tanto regala qualche soddisfazione, oppure la tenerezza di un lontano ricordo che inaspettatamente affiora dall’oblio del passato, richiamato in superficie da una qualche coincidenza o evocazione.

“David Golder” fu un grande successo e nel 1933 divenne il primo film sonoro del cinema francese.

Anche i successivi romanzi consolidarono la posizione di Irene Nemirowsky, ma per le modalità con le quali trattava dall’interno i suoi personaggi, quasi sempre ebrei, finì per essere accusata di antisemitismo, proprio come accadde a Hannah Arendt nel 1963, quando scrisse “La banalità del male”.

Hannah Arendt

Non c’è nulla di specifico “contro” la cultura e la comunità ebraica ma la conoscenza profonda di quel mondo che viene messo a nudo con straordinarie capacità narrative, ne esaltava spesso alcuni tratti non proprio edificanti… e forse fu anche per questo motivo che, dopo aver trovato al morte in un campo di concentramento nazista, la Nemirowsky fu praticamente dimenticata per oltre sessant’anni.

Nel 2004, la pubblicazione del suo ultimo manoscritto, “Suite francese” (affidato alle due figlie bambine, che miracolosamente si salvarono) riportò l’attenzione su di lei e la critica si accorse di aver ripescato una grande scrittrice: da lì un nuovo successo mondiale.

Suite francese” è diventato un mediocre film (con un budget di venti milioni di dollari) produzione anglo americana (2014), dove solo alcune delle trame sono state sviluppate… mentre la straordinarietà del romanzo è proprio la coralità delle vite dei personaggi davanti alla tragedia della guerra che travolge tutti.

Il banco di prova per “Suite francese”, con lo stesso tema della reazione degli uomini all’arrivo della guerra, è un altro fantastico romanzo: “I doni della vita”.

A Saint-Elme, una cittadina della provincia francese, un’intera famiglia vive in ostaggio della volontà di Julien Hardelot, un vecchio dispotico, proprietario della più fiorente industria nella regione. Il figlio Charles, orami rassegnato e debole di natura, in vita sua non è mai stato in grado di prendere una decisione autonoma: l’ultima parola è sempre stata del vecchio padre padrone. Ora che anche suo figlio Pierre, dopo gli studi si sta affacciando alla vita, vede per lui un analogo destino, impiegato nella fabbrica di famiglia come lui e promesso in matrimonio a Simòne, una ragazza del posto per nulla attraente ma con un’ottima dote, con la benedizione del nonno che già pregusta di poter ampliare i suoi affari con nuovi investimenti. Per il bene della famiglia Pierre accetta il suo destino senza discussioni, pur essendo innamorato di Agnès, un’orfana di padre di modeste condizioni. Ma ecco che la vita sorprende tutti con una soluzione inaspettata: un innocente appuntamento tra i due innamorati per dirsi addio poco prima del matrimonio di Pierre viene riferito da una domestica impicciona, dando adito a chiacchiere e sospetti.

Per la moralità dell’epoca Agnès ne esce irrimediabilmente compromessa e di fronte alla prospettiva di rovinare la vita della sua amata, Pierre, che a differenza del padre ha un carattere molto forte, rompe il fidanzamento con Simòne e la sposa.

Il “nonno padrone” non accetta l’affronto di un’opposizione alle sue volontà e Pierre viene allontanato, perdendo la prospettiva dalla sicurezza di un’occupazione nella fabbrica di famiglia.

Dopo un trasferimento a Parigi, con la forza dell’amore e con le sue capacità, troverà presto un impiego in Spagna che gli permette di mantenere la moglie e il primo figlio… ma ecco che la guerra, la prima guerra mondiale, cambia le carte in tavola e Pierre torna a Saint-Elme per affidare la moglie e il figlio ai suoi genitori, e parte per il fronte.

I doni della vita

La storia della famiglia di Pierre s’intersecherà poi con quella di Simòne, la sua moglie mancata… in uno starno destino comune.

I twist sempre sorprendenti nelle trame di Irene Nemirowsky, mi suggeriscono un finale a sorpresa per questa “contaminazione”, con tre ricette per i fusilli e una piccola storia personale.

 

Qualche anno fa, per poche ore, incontrai il proprietario di un pastificio di Barletta, Ignazio Maffei. Un amico comune ci aveva messo in contatto per la possibile sponsorizzazione di un film. La cosa non ebbe seguito ma l’incontro mi colpì profondamente: Ignazio trasmetteva una grande serenità e la sua qualità umana traspariva immediatamente, fin dalle prime parole. Qualche anno prima, per un grave incidente automobilistico, era rimasto in bilico tra la vita e la morte e da allora la sua prospettiva era cambiata.

Mi parlò di “semplificazione della vita”… del saper apprezzare quello che ogni giorni ci troviamo a dover affrontare… niente di complicato quindi, ma il linguaggio, il tono, la sua pace interiore, facevano la differenza.

In quel momento in particolare (oggi la situazione non è molto cambiata) la mia vita era piena di complicazioni a tutti i livelli… In parte lo posso imputare alle circostanze e ai lunghi strascichi di alcune scelte che ho fatto, privilegiando sempre lo spirito d’avventura, senza preoccuparmi troppo delle possibili conseguenze… e certamente c’è una responsabilità diretta per la mia incapacità tenermi lontano dai guai. Soddisfare la mia curiosità e mettermi in gioco è forse un modo per stare sempre lontano dalla “noia”, dalla prevedibilità di una vita “non spericolata”… Solo negli ultimi anni ho cominciato a pensare anche alle possibili conseguenze delle mie scelte a volte avventate, nel tentativo di limitare questa tendenza, ma spesso l’istinto è troppo forte per poterlo limitare con la razionalità.

In quell’incontro Ignazio mi parlò anche del suo pastificio, una storia familiare iniziata nel 1960 con il padre Savino. Oggi ha 105 dipendenti e 12 linee di produzione. La pasta Maffei è distribuita prevalentemente in Italia ma si sta allargando nel mondo, già in una quindicina di paesi.

pastificio maffei

Qualche mese fa in un supermercato di Roma ho visto dei “fusilli integrali” Maffei (quelli freschi da conservare in frigo) e così, dopo oltre quattro anni da quell’unico incontro, ho ripensato a Ignazio… un nome che per altro mi ricorda la famosa poesia di Garcia Lorca (“Lamento per la morte di Ignacio Sanchez Mejias”) con la voce vibrante di Arnoldo Foà in un LP che mio padre ascoltava sempre, tanto che mio fratello Alessandro ed io, marmocchi, lo conoscevamo a memoria dall’inizio alla fine.

Alle cinque della sera
Eran le cinque in punto della sera
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l
ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.

… eccetera eccetera…

Alessandro e Ferdinando Vicentini Orgnani

Ma torniamo alla pasta…

In quel supermercato a Roma feci una grossa scorta di varie tipologie di prodotti del pastificio Maffei… integrali e non.

Il giorno dopo avevo invitato a cena qualche amico e decisi di preparare dei fusilli con fave salsiccia, olive taggiasche e l’aggiunta della piccola storia del mio incontro con Ignazio.

Fusilli con fave, salsiccia e olive taggiasche

Gli ospiti apprezzarono molto la mia ricetta, la pasta del mio amico… e anche la storia. Nelle settimane successive ho provato gli stessi fusilli anche con carciofi, guanciale e ricotta di pecora e poi con pere, guanciale e pecorino, e poi le orecchiette, con le cime di rapa e al pomodoro e mentuccia.

Fusilli carciofi, guanciale, ricotta di pecora

Avevo ancora il numero di cellulare di Ignazio e pensai di chiamarlo per dirgli che ero ormai diventato un affezionato cliente del pastificio Maffei… ma poi pensai che era meglio scrivergli una mail, allegando anche una foto delle mie ricette realizzate.

Qualche giorno dopo arrivò la risposta sua risposta.

” Buongiorno Ferdinando.

Innanzitutto ti ringrazio per il contenuto della tua e-mail, sia dal punto di vista affettivo che gastronomico.

Io sto bene, cerco di non complicarmi la vita, e già questo è importante.
Ci vediamo presto.

IM

Fantastico quel “cerco di non complicarmi la vita”. In questi quattro anni Ignazio non è cambiato. Forse le nostre strade s’incontreranno ancora.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

 

 

CONTAMINAZIONI n° 10 – La lotta per la “sopravvivenza”: comunicazione e persuasione occulta

The Magdalene Sisters, il film di Peter Mullan, Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 2002, è ambientato nell’Irlanda degli anni 60’ e racconta cosa accadeva nei conventi gestiti dalle “Sorelle della Misericordia”. Ragazze senza famiglia e senza mezzi venivano “ospitate” dalle suore ma erano poi costrette a un lavoro durissimo nella loro catena di lavanderie con la scusa di una necessaria “espiazione dei peccati”.

Le colpe di queste sfortunate giovani donne: essere una madre nubile, essere troppo bella o troppo intelligente… e chi non eseguiva gli ordini alla lettera subiva pesanti punizioni corporali e psicologiche. Migliaia di donne sono vissute e sono morte in questa raccapricciante versione terrena dell’inferno ma ciò che lascia allibiti e scoprire che l’ultima di queste lavanderie è stata chiusa nel 1996!

L’Osservatore Romano ha definito il film “una provocazione rabbiosa e rancorosa”, ma nessuno ha potuto smentire la realtà agghiacciante che costringeva alla schiavitù quelle malcapitate.

E’ evidente che lo scopo della codificazione di regole ferree da seguire, partendo dai dieci comandamenti, nasce dalla volontà di un controllo sociale. Tutta questa complessa sovrastruttura è molto lontana dall’insegnamento semplice e rivoluzionario di Gesù Cristo ma il progressivo smantellamento che si avverte nell’aria fa ben sperare in tardivo recupero del messaggio originario.

Papa Francesco si è trovato costretto ad adeguarsi alla una cultura sempre più diffusa del “deconstructing gender”: omosessuali e transgender sempre più vicini alla chiesa perché…

Se una persona è gay… cerca il signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”

Ed ecco che immediatamente arriva il plauso da tutto il mondo civilizzato per la sorpresa che il Papa sud americano non è un conservatore arroccato e intransigente come quello precedete, il “pastore tedesco”, che non ha caso ha dato le dimissioni.

Ormai per tutte le grandi multinazionali, anche per il Vaticano, vale la regola che non stare al passo con i tempi può compromettere la sopravvivenza e un po’ alla volta tutti questi nodi stanno venendo al pettine, come recentemente i dubbi espressi dal Papa sull’accanimento terapeutico.

E’ giusto ritardare artificialmente la morte “contro natura” grazie a un’esasperate evoluzione della tecnica, o c’è un limite?

La verità, difficile da accettare anche di fronte alla logica e all’evidenza, è che l’industria farmaceutica vuole dei malati che vivano più a lungo possibile e non certo persone sane che non hanno bisogno di farmaci e terapie.

Le case farmaceutiche considerano già un risultato importante che la vita di un malato si allunghi di un mese ma per queste multinazionali che operano in un settore così delicato, è evidente che il fine ultimo è, e sempre rimarrà, “il profitto”. Ogni mese di terapia in più porta degli utili e la qualità della vita del paziente non è certo una preoccupazione a meno che con altri farmaci ci sia la possibilità di migliorarla, con un ulteriore guadagno.

Un mio vecchio amico pochi mesi fa ha rischiato di andarsene per un Carcinoma al rene, asintomatico. Si dovrà curare per tutto il resto della sua vita con un farmaco, il Sutent (un receptor protein-tyrosine kinase inhibitor) con effetti collaterali pesanti ma sopportabili. Il costo è di circa 9.000 € al mese.

Questo farmaco “targeted” (mirato) ha un’efficacia di un paio d’anni perché a un certo punto le cellule che sopravvivono al trattamento (impossibile eliminarle tutte) si trasformano, e allora bisogna cambiare passando al Sutent 2… poi al 3 e così via. Nel caso del Carcinoma al rene l’aspettativa di vita si allungata notevolmente con questa cura ma lo stesso principio non vale ad esempio per il Melanoma che è molto più aggressivo e veloce nel trasformarsi e il malato può resistere solo pochi mesi.

Come la quasi totalità dalle banche, il cui scopo è unicamente quello di arricchirsi a spese dei correntisti che hanno dato loro fiducia, così le industrie farmaceutiche si occupano della salute dei pazienti in una forma sempre subordinata alla logica del profitto. Girano storie tra la fantapolitica e la fantaeconomia, secondo le quali queste “associazioni per delinquere” avrebbero già le cure per alcune malattie ma le terrebbero segrete per motivi di mero profitto. Prendiamo il Diabete, una malattia cronica causata dalla carenza di insulina nel sangue. Se davvero esistesse una cura risolutiva quale sarebbe la perdita in termini economici per le multinazionali? Rimaniamo in Italia, dove ci sono tre milioni e settecentomila diabetici e si stima un milione di casi non ancora diagnosticati. Ogni malato costa circa 4.000 € all’anno che moltiplicato per il numero dei malati produce una cifra vicina ai quindici miliardi di €, ovvero quasi il 15% del fondo sanitario nazionale.

Negli ultimi trent’anni il numero dei diabetici è quasi raddoppiato e questa spesa è destinata a salire. Il giro d’affari relativo al Diabete (15 miliardi di € all’anno solo in l’Italia) a livello mondiale arriva delle cifre difficili persino da concepire. Senza la necessità di affidarsi alla fantapolitica basta affidarsi alla “logica”.

Se esistesse una cura efficace per debellare il Diabete pensate che le industrie farmaceutiche la diffonderebbero per il bene dell’umanità? Io non ci credo. Non è logico ed è contrario alla natura e allo scopo primario di questi grandi gruppi che influenzano le decisioni dei governi per ottenere le migliori condizioni, le più appetibili opportunità di arricchimento a spese dei contribuenti e dei malati.

Qualche anno fa un gruppo di ricercatori italiani mise a punto un rimedio risolutivo per l’ipertensione, un disturbo che colpisce più del 30% della popolazione mondiale. Una casa farmaceutica acquistò il brevetto che fu immediatamente “congelato” e non se ne seppe più nulla. Ovviamente non è possibile ottenere la testimonianza dei diretti interessati poiché la prassi prevede la sottoscrizione di un NDA “non-disclosure agreement”. Il potere economico continua a essere considerato un’arma legittima anche in un caso come questo, dove il vantaggio rimane di pochi mentre la privazione della possibilità di questa cura colpisce miliardi di persone.

Sono consapevole di non avere delle “prove”, solo molti indizi, congetture, e di affidarmi unicamente alla logica per arrivare a queste conclusioni ma, come diceva Giulio Andreotti (che ho avuto occasione di intervistare due volte)…

“A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.”… ben consapevole che era anche quello che si pensava di lui.

Giulio Andreotti

Se andiamo ad analizzare lo scenario a fondo, l’unica differenza tra le multinazionali e le grandi organizzazioni criminali è che queste ultime operano al di fuori della legge e rischiano pesanti condanne, mentre le industrie farmaceutiche non corrono alcun pericolo perché hanno trovato all’interno della legalità lo spazio per muoversi liberamente e arricchirsi sotto gli occhi di tutti facendo pagare la collettività, con la complicità dei governi. Per certi versi il crimine organizzato è molto meno diabolico delle multinazionali farmaceutiche: nel momento in cui decidiamo di comprare della droga da un pusher facciamo una libera scelta, forse sbagliata e pericolosa, ma libera, e sappiamo benissimo che le droghe fanno male. Nel caso dei farmaci, come per le vaccinazioni ad esempio, spesso il popolo non ha scelta, o viene indirizzato e persuaso con delle false informazioni.

Vi ricordate l’iniziativa del nostro Ministero della Sanità in occasione della presunta epidemia di “influenza aviaria” partita dall’Asia, che intorno all’anno 2000 cominciò a diffondersi?

Grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità, spinta dai centri di controllo medico americani, il Tamiflu (antivirale prodotto dalla multinazionale svizzera Roche) diventò il farmaco elettivo per il trattamento dell’influenza aviaria.

Ormai è stato appurato il Tamiflu, che avrebbe impedito il passaggio dell’influenza dai polli all’uomo su scala mondiale combattendo un’epidemia che nei grafici clinici avrebbe potuto causare 150mila morti soltanto in Italia, era del tutto inutile. Dall’inizio del diffondersi del panico al 2006, è vero che sono morti alcuni miliardi di volatili, ma nel mondo intero per questo tipo d’influenza ci sono stati solo 62 casi di morte accertata di esseri umani, quando un normalissimo ceppo influenzale provoca una media di 400mila morti all’anno.

Quella del Tamiflu è stata la più colossale montatura della storia della sanità mondiale (tra quelle accertate) e la Roche, grazie all’ondata di panico collettivo magistralmente orchestrata, in un solo anno ha venduto nel mondo confezioni di Tamiflu per 2,64 miliardi € che furono utilizzate da circa 50 milioni di persone. Inutilmente.

Nel novembre del 2005 George W. Bush chiese e ottenne dal congresso americano 1,4 miliardi di dollari per acquistare il Tamiflu. Si scoprirà che il brevetto del farmaco era della società Gilead Sciences Inc, il cui presidente (e proprietario del 22% delle quote) era Donald Rumsfeld, Segretario di Stato della stessa amministrazione Bush, che proprio in quei giorni di “emergenza costruita a tavolino”, impose la somministrazione obbligatoria del Tamiflu alle truppe nordamericane.

(a sx) Donald H. Rumsfeld e George W. Bush nel novembre del 2003

Ecco gli altri ordinativi per questo farmaco del tutto inutile: 2,3 milioni di dosi la Svizzera, 5,4 milioni il Canada, 13 milioni la Francia, 14,6 milioni la Gran Bretagna. L’Italia, governo Berlusconi (Francesco Storace ministro della Sanità), autorizzò l’acquisto di antivirali per il 10 % della popolazione: sei milioni di confezioni, la maggior parte delle quali non furono mai utilizzate e finirono nella spazzatura, con un costo per il contribuente italiano di circa 50 milioni di €.

(a sx) Storace e Berlusconi

Le multinazionali “della salute” investono una parte dei loro immensi untili in un’attenta comunicazione e in una miriade di attività benefiche: sostengo alle università, fondi per la ricerca, borse di studio, finanziamento di riviste e congressi, retribuzioni sottobanco e vacanze premio ai medici per la promozione dei loro prodotti, oltre ai miliardi spesi per la normale pubblicità. Con un potere economico praticamene illimitato non è difficile distogliere l’attenzione dalla realtà ed esercitare un controllo.

La manipolazione dell’opinione pubblica e dei media si fa sui grandi numeri e con grandi mezzi, confezionando un’immagine che viene venduta a miliardi di utenti, attraverso ogni forma che la tecnologia mette a disposizione, mentre le voci controcorrente passano praticamente inosservate.

L’articolo che state leggendo arriverà al massimo a qualche migliaio di persone, di cui forse solo qualche centinaio sarà interessato ad approfondire realmente l’argomento con una lettura che richiede tempo e attenzione, ben oltre la sintesi di un Twitter o di un messaggino su WhatsApp a cui ormai sempre di più tutti siamo abituati.

Kim Jong Un

Non è forse lo stesso per le ultime guerre che ci hanno fatto vedere comodamente seduti davanti alla televisione… dove il reparto “comunicazione” ha ormai la stessa importanza di quello propriamente militare? Il primo grande esperimento è stato Desert Storm e da allora tutte le guerre sono state gestite con la stessa impostazione. Vediamo i lanci dei missili Nord Coreani quasi in tempo reale, davanti alla corte sorridente e compiaciuta di Kim Jong-un, probabilmente un altro pazzo furioso con il bottone per scatenare una guerra nucleare a portata di mano. Molti altri leader non sono da meno, come Donald Trump, le cui conoscenze di geografia politica sono così scarse da ignorare persino che le Virgin Islands sono parte degli Stati Uniti. Una figura di merda a livello planetario, eppure tutto passa, tutto scorre… la stampa ci va a nozze, strabuzza gli occhi e scuote la tesa ridacchiando davanti alle sue sparate proto-naziste.

Donald TrumpL’importante è l’auditel non il contenuto. Forse Kim Jong-un è meno peggio di quello che sembra e nel suo delirante isolamento auto celebrativo rappresenta un elemento di instabilità anarchica che in un’ottica più ampia potrebbe costituire una variabile persino positiva in un mondo sempre più controllato e omologato che andando oltre il maquillage della superfice ricalca sempre di più la geniale profezia formulata da Orwell nel 1948, con un suo romanzo capolavoro “1984”.

Non è un caso se le proteste dell’opinione pubblica sono ormai irrisorie rispetto a situazioni del passato come ad esempio la guerra in Vietnam, dove il dissenso era enorme, visibile in tutte le piazze del mondo.

La “persuasione occulta” è diventata il modus operandi di qualsiasi tipo di comunicazione e con i mezzi che i potentati hanno oggi a disposizione non è così difficile convincere la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica che quella “guerra giusta” era invitabile, necessaria a far uscire quel popolo dal medioevo per aiutarlo a conquistare la democrazia, glissando sulle conseguenze disastrose che quella guerra ha provocato.

La stessa strategia prevede la concessione di qualche spazio al dissenso facendo parlare ogni tanto persone illuminate come Gino Strada, ma quel tanto che basta per dare l’illusione della possibilità di una coscienza critica.

Gino Strada

E’ solo e unicamente il profitto il fine ultimo. L’economia della guerra muove trilioni di dollari ogni anno e non è mai in crisi. Quelli che pensano il contrario rappresentano il successo della manipolazione delle informazioni, di cui la maggior parte degli organi di stampa in qualche modo è complice.

Non mi faccio grandi illusioni quindi, ma continuo come tanti a fare il mio dovere, “David contro Golia”, consapevole di quali sono le forze in gioco. Non si sa mai che un giorno fortunato, con una “frombola” (il tipo di fionda che si serve della forza centrifuga per il lancio della pietra usata da David) si possa far crollare un intero sistema grazie un singolo colpo ben assestato che provochi una reazione a catena: ogni tanto è possibile in un mondo globalizzato dove tutto accade simultaneamente.

Il David del Bernini

 

Basti pensare a “mani pulite” (che iniziò il 17 febbraio 1992, con il “colpo” dell’arresto di Mario Chiesa) o a quanto è accaduto con il caso delle molestie sessuali di Harvey Weinstein, un episodio che inaspettatamente ha trovato un pertugio nel muro del silenzio, delle complicità, ed esplode diffondendosi in mezzo mondo, modificando il comportamento e le consuetudini di miliardi di persone, come un tumore, in questo caso benefico, che prende il sopravvento sull’intero “sistema” di un corpo umano.

Mario Chiesa (a sinistra) e Bettino Craxi

 

 

 

Harvey Weinstein

La parabola apocalittica del film “The Matrix” (1999) dei fratelli Wachowscki è una spettacolarizzazione geniale della cecità, dell’ignoranza nella quale siamo costretti a vivere… perché è molto più facile e convenite fare così. Quando Neo (Keanu Reeves), il protagonista del film, si sveglia dal sonno indotto di una vita perfetta e si trova proiettato nell’incubo della realtà, apre gli occhi per la prima volta e solo allora comincia la sua vera vita che appare subito durissima e piena d’insidie.

The Matrix

Neo sceglie comunque di combattere, di morire se necessario, stimolato della scoperta dell’amore per la bellissima Trinity (Kerry-Anne Moss) e dalla fiducia che il carismatico leader dei ribelli Morpheus (Laurence Fishburne) ripone in lui.

Ma Cypher (Joe Pontoliano), il traditore, si mette d’accordo con il diabolico rappresentante del sistema, l’Agente Smith (Hugo Weaving), preferendo tornare a una vita irreale e illusoria, dimenticando l’orribile realtà.

La “medicina traslazionale” è una branca interdisciplinare del campo biomedico il cui obiettivo è di combinare e coordinare le discipline, le risorse, le competenze e le tecniche per promuovere miglioramenti nella prevenzione, nella diagnosi e nelle terapie in generale.

La realtà è che il mondo della ricerca, nella stragrande maggioranza dei casi, è scollegato e “astratto” rispetto alla pratica della medicina, ed è ormai diventato una roccaforte di potere carrieristico e economico che lo rende autoreferenziale e lo allontana dallo sfruttamento clinico delle scoperte.

Ovviamente non si può generalizzare ed esistono molti esempi di “perle” in mezzo alla spazzatura degli interessi delle caste e delle lobby anche nel mondo della ricerca biomedica, che ha permesso di curare tumori prima incurabili, come ad esempio il linfoma di Hodgkin o la leucemia promielocitica.

Se consideriamo però l’efficacia delle terapie, per la stragrande maggioranza dei tumori le cose sono cambiate di poco, magari qualche mese di sopravvivenza in più… ma vale veramente la pena vivere ventotto mesi, invece di ventidue, al costo di terapie debilitanti e costosissime? Il nostro istinto di sopravvivenza ci tiene ancorati alla vita oltre la razionalità, ogni attimo ha un valore e tiene viva un’inconscia speranza insita nella natura umana.

E’ uno dei temi affrontati da Wim Wenders nel suo bellissimo documentario “Lightning Over Water (Lampi sull’acqua – Nick’s movie) del 1980, sugli ultimi mesi di vita di Nicholas Ray (il regista di “Gioventù bruciata”), suo amico e maestro, mentre stava consapevolmente morendo di cancro.

Nicholas Ray

 

La scena finale è bellissima e terribile: dopo aver dimostrato totale disponibilità a mostrare il suo dramma davanti alla macchina da presa, Nicholas Ray dice “basta”, con un gesto brusco della mano come a scansare l’occhio indiscreto dell’obbiettivo: il momento della morte è sacro, richiedere una privacy che non ammette eccezioni.

I finanziamenti per la ricerca vengono concessi secondo dei criteri che non seguono quasi mai la logica della “medicina traslazionale”, nonostante quello che viene sbandierato dalla propaganda. Per esempio, all’inizio degli anni ’80 una grande % dei finanziamenti per la ricerca sui tumori cominciò a riversarsi sulla “terapia genica”, la modifica del DNA delle cellule cancerose al fine di curare non solo le patologie genetiche ma anche il cancro. Fin dall’inizio la maggior parte dei ricercatori era perplessa, convinta che questa strada non fosse efficace, data l’impossibilità di modificare tutte le cellule tumorali con la terapia genica; ma la ricerca “(pseudo)traslazionale” ha devoluto enormi risorse per più di vent’anni a fondo perduto su una strada che poi è stata, come ampiamente previsto, abbandonata.

Perché hanno continuato a finanziare in modo così massiccio le ricerche sulla terapia genica? E’ difficile spiegarselo. Forse chi ha il potere di influenzare la concessione dei fondi per la ricerca in parte risponde anche alle logiche perverse del sistema, incluso il controllo delle carriere accademiche e ospedaliere, ormai quasi esclusivamente basate sulle pubblicazioni scientifiche ad alto “Impact Factor”, che richiedono ricerche sofisticate e altamente costose .

Molte fondazioni o enti che finanziano la ricerca sul cancro, ad esempio l’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), spesso sembrano scegliere le ricerche da finanziare seguendo delle logiche incomprensibili al pubblico che tendono a privilegiare “la novità” e la “sofisticatezza metodologica” di un progetto piuttosto che la sua potenzialità di fare un passo avanti, in linea di principio o sul piano applicativo, nella lotta contro i tumori.

Se una ricerca è “nuova” (ad esempio, la scoperta di un ennesimo “oncogene”) ma in fondo si sa bene che con ogni probabilità rimarrà confinata nell’ambito della ricerca di nicchia, non sarebbe forse meglio lasciare che sia finanziata da fondi pubblici e invece finanziare con le donazioni dei parenti dei malati di cancro qualcosa meno “trendy” ma con la possibilità di arrivare a un successo dove altri hanno fallito in passato?

Può succedere ad esempio di vedersi rigettata per “mancanza di novità” una richiesta di finanziamento per una ricerca che si proponeva di stabilizzare la Melatonina per farne una formulazione adatta ad essere usata come farmaco anti tumorale.

La Melatonina, oltre a controllare il nostro ritmo sonno-veglia, è un potentissimo antitumorale “in provetta” ma non funziona quando viene assunta dall’organismo. La ricerca di un modo per renderla efficace anche sui pazienti non ha ancora portato a un risultato perché non si è ancora riusciti a stabilizzarla (cioè a evitare la sua rapida escrezione). Un organismo è un “sistema aperto”, non è come una provetta in cui si può controllare e mantenere la concentrazione desiderata di una sostanza aggiunta. Non è mai stato provato che la stabilizzazione della Melatonina è impossibile da realizzare, è solo che fino ad ora nessuno ci è riuscito.

Vivendo in genere nella più totale ignoranza chi è l’insensibile che non risponderebbe positivamente a una vaga promessa di “lotta contro il cancro”? Ma tutto rimane astratto e ci si guarda bene di entrare nei dettagli per far capire a chi tira fuori i soldi come verranno spesi e secondo quali criteri.

“Voi ci date i soldi e noi decidiamo come spenderli…”

Questa è la realtà. Se l’opinione pubblica avesse accesso a una corretta informazione potrebbe scegliere con cognizione di causa a chi destinare il denaro delle offerte, ma la corretta informazione diffusa è un miraggio che si produce di rado.

Perché non sono resi noti dati che ci informino di quanti tra i progetti finanziati da AIRC, Telethon o simili fondazioni siano poi sfociati in “clinical trials” (quelle prove cliniche a largo raggio che comparano l’esito di terapie innovative rispetto a quelle correnti) che sono la principale, se non l’unica, base dei reali avanzamenti terapeutici?

A una lettura superficiale delle statistiche che ci vengono propinate si potrebbe pensare che la lotta contro il cancro sia ormai in dirittura d’arrivo. Di quando in quando, la stampa si preoccupa di comunicarci queste “buone notizie”, forse per riempire qualche vuoto all’ultimo momento o forse perché sparare ogni tanto un po’ di ottimismo sembra una buona cosa per bilanciale il flusso delle continue pessime notizie… ma se puntiamo una lente di ingrandimento sui dati che ci vengono venduti ci apparirà una realtà ben diversa. Prendiamo quelli forniti nel 2015 dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica: a cinque anni dalla diagnosi di un tumore la percentuale di sopravvivenza era del 57% per gli uomini e del 63% per le donne. Nel 1990 era del 39% per gli uomini e del 53% per le donne. In venticinque anni un bel progresso che farebbe ben sperare. Ma è veramente così? Se ci limitiamo invece all’efficacia delle terapie, la realtà è che per la stragrande maggioranza dei tumori le cose sono cambiate di poco.

E allora, come spiegare queste statistiche così “brillanti”?

Le tecniche diagnostiche e chirurgiche negli ultimi decenni hanno avuto una grande evoluzione e queste due variabili in particolare fanno sì che il risultato finale sia sfalsato: infatti c’è la tendenziosa abitudine di conteggiare i casi di cancro che non si sarebbero mai sviluppati (i cosiddetti tumori “dormienti”) nel novero dei “curati”.

Ma i tumori dormienti sono tantissimi, probabilmente tutti noi ne abbiamo, ma per la stragrande maggioranza dei casi resteranno dormienti fino a che moriremo per tutt’altre cause. Ad esempio, quasi la metà delle biopsie eseguite su uomini e donne di età maggiore di 60 anni, morti per cause traumatiche (quindi “sani”), presentano piccoli tumori alla prostata o alla mammella…. Una proporzione molto, molto maggiore di quelli che in effetti svilupperanno un cancro nei successivi 30 anni. E così, invece di informare che abbiamo imparato a “vedere” anche i tumori dormienti, le statistiche includono quei casi tra i tumori “guariti”!

Se questo non è barare…

Sicuramente spargere un po’ di ottimismo non fa male, anzi aiuta il morale dei malati e magari sortisce anche un benefico effetto placebo. Ma siamo sicuri che sia questa la ragione principale? Oppure c’è un interesse a manipolare il consenso?

“Le cose stanno procedendo nel verso giusto grazie alle donazioni che ci avete fatto in passato e se continuerete ad aiutarci abbiate fede che riusciremo a rendere il cancro una malattia sempre più curabile”.

Il fatto poi che con quelle donazioni si finanziano ricerche di nicchia non comparirà sui bollettini trimestrali distribuiti ai benefattori.

 

“Padova, ragazza 18enne muore di leucemia: i genitori si erano opposti all’uso della chemioterapia.”

 

“Padova, famiglia rifiuta la chemio, ragazza muore di leucemia.”

 

“I genitori le negano la chemioterapia. Eleonora muore a 18 anni di leucemia.”

 

“Minorenne rifiuta chemio e muore: indagati genitori.”

Ecco come la stampa presenta in modo tendenzioso una notizia come quella di una minorenne che rifiuta la chemioterapia con il consenso dei genitori e muore. Si vuole mettere una simile scelta alla stessa stregua di un testimone di Geova che non vuole una trasfusione.

“Non hai fatto la cura e sei morto!”

Il messaggio subliminale è:

“Noi curiamo il cancro.”

Lo fanno in modo subliminale perché non ti posso promettere: “Hai la leucemia? Io ti guarisco.”

Possono dirti però:

“Non hai voluto fare la terapia è sei morto.”

Ovviamente quello che non dicono è:

“Quasi sicuramente saresti morto anche con la terapia, magari allungandoti la vita di qualche mese al prezzo di effetti collaterali pesantissimi e un costo esorbitante.”

 

Matrix è la realtà.

 

 

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

CONTAMINAZIONI n° 9 – Il Rolex di Che Guevara

Il 1° aprile 1971, una giovane donna di nazionalità tedesca si presentò al Consolato della Bolivia di Amburgo per un visto e chiese di incontrare il console, Roberto Quintanilla Pereira, un colonnello dei servizi speciali dell’esercito boliviano passato alla carriera diplomatica. Dopo un po’ di anticamera fu ammessa nello studio del console e i due rimasero soli. L’incontro fu breve. Non sappiamo se ci fu una vera e propria conversazione o soltanto dei convenevoli. La donna estrasse una Colt Cobra 38 Special e sparò tre colpi uccidendo l’uomo all’istante.
Prima di fuggire lasciò un foglio di carta con scritto “Vittoria o morte” e la sigla ELN (Ejército de Liberación Nacional).
La moglie di Quintanilla, accorsa per gli spari, tentò inutilmente di fermare l’assassina che nella colluttazione si lasciò dietro una parrucca, la borsa e la pistola.

Quintanilla presenta il cadavere del Che

I documenti contenuti nella borsa svelarono la sua vera identità: Monica Ertl. Era nata in Germania nel 1937 ma dal 1952 viveva in Bolivia. Aveva “giustiziato” Roberto Quintanilla, colpevole di aver fatto scempio del cadavere di Ernesto Che Guevara tagliandogli le mani per consegnarle agli americani (così da poterlo identificare con certezza) e di aver ucciso Inti Peredo, compagno di Monica, che aveva assunto il comando della “guerrilla” in Bolivia dopo la cattura del Che.

Monica Ertl

Il governo boliviano mise una taglia di 20mila dollari sulla sua testa, una cifra enorme all’epoca. La pistola utilizzata per uccidere il console boliviano era stata regolarmente acquistata in un’armeria di Milano il 18 giugno 1968 da Giangiacomo Feltrinelli, nei cui confronti fu subito spiccato un mandato di cattura per complicità nell’omicidio. Feltrinelli, che aveva finanziato l’intera operazione, deve aver incontrato Monika Ertl nelle settimane precedenti. Da tempo si era dato alla clandestinità, che continuò fino a quando il suo corpo dilaniato dalla dinamite fu trovato sotto un traliccio a Segrate il 14 marzo 1972.

Giangiacomo Feltrinelli

Due anni dopo l’azione di Amburgo, il 12 maggio 1973, Monika Ertl cadde in un’imboscata a La Paz. Il suo corpo non fu mai restituito alla famiglia. Era l’unica figlia di Hans Ertl, operatore cinematografico che lavorò con Leni Riefenstahl nel celeberrimo film sui giochi olimpici di Berlino del 1938. Hans fu poi fotografo e cineoperatore di Rommel in Africa. Pur non essendo un “nazista”, spesso veniva ricordato come “fotografo di Hitler” e sicuramente dopo la guerra non ebbe vita facile, tanto che nel 1950 decise di emigrare con tutta la famiglia per cominciare una nuova vita. Approdò in Cile ma l’anno dopo si trasferì in Bolivia, a Chiquitania, a 100 chilometri circa da Santa Cruz de la Sierra.

HANS ERTL e LENI RIFENSTAHL

Monika aveva quattordici anni quando iniziò l’esilio degli Ertl. La sua storia è nota. Un giornalista tedesco, Jurgen Schreiber, ha scritto un libro su di lei: “La ragazza che vendicò Che Guevara”. Rimangono invece molti dubbi intorno alla morte del Che, alle circostanze e convenienze che la favorirono. Molte le versioni dei fatti, piene di congetture e inesattezze, distorte dalla mitologia germinata attorno alla figura del guerrigliero/eroe per eccellenza, come il racconto celebrativo e ideologico “El mi amigo Che”, del giornalista argentino Ricardo Rojo. Diversi documentari sono stati realizzati sull’argomento e alcuni film, tra i quali quello del 1969 “Che!” di Richard Fleischer con Omar Sharif nei panni di Ernesto Guevara, e quello del 2008 di Steven Soderbergh “Che l’argentino”, con uno straordinario Benicio del Toro, premiato come miglior attore a Cannes.

Omar Sheriff interpreta El Che

Benicio Del Toro nei panni del Che

 

Il primo si può definire un “instant movie” ante litteram realizzato sull’onda dell’immediata mitizzazione del Che. E’ certamente un film datato e retorico ma non privo di coraggio: la posizione morbida nei confronti della rivoluzione cubana, alla quale viene riconosciuto il merito di aveva ribaltato la feroce e corrotta dittatura militare di Fulgencio Batista, non era per niente scontata a quel tempo.

Il film di Soderbergh, diviso in due parti, dura più di quattro ore: dal successo della rivoluzione cubana che sorprese il mondo e determinò un altro polo nel gioco della “guerra fredda”, alla fine del Che, braccato dall’esercito boliviano, catturato e giustiziato. Si percepisce molto bene il senso di sconforto e disorientamento che deve aver accompagnato Che Guevara nelle ultime settimane della sua vita, quando si accorse che la missione in Bolivia aveva persino meno senso di quella già fallimentare in Africa, ma il film non prende alcuna posizione su ciò che avrebbe senso cercare di ricostruire dopo tanti anni. A parte l’intrattenimento e la qualità degli interpreti è difficile comprendere la necessità di un’ennesima ricostruzione di uno degli episodi più discussi della storia recente, senza aggiungere nulla di nuovo, di significativo, senza rivelare nulla sulle forze in gioco che portarono alla fine iniqua del Che in Bolivia.

La lettura superficiale della realtà può essere fatale ed è proprio quello che gli successe in Bolivia nel 1967. “Cada macaco no seu galho” un proverbio che ho sentito in Brasile suggerisce di impegnarci in ciò conosciamo bene e non in quello che con arroganza pretendiamo di conoscere.

La missione in Bolivia era assurda per vari motivi. Il Presidente in carica, René Barrientos, era molto popolare: nonostante fosse arrivato al potere nel 1964 con un colpo di stato e avesse assunto come consigliere il criminale nazista Klaus Barbie, era stato poi democraticamente rieletto nel 1966. Padroneggiava le lingue tradizionali (Aymara e Quechua) e con il suo elicottero viaggiava continuamente, raggiungendo ogni piccolo borgo sperduto, dove spesso si ubriacava con i campesinos e si prestava a tenere a battesimo i loro figli.

René Barrientos Ortuño

La sua riforma agraria aveva già concesso molte terre ai contadini e quando il Che chiedeva aiuto ai boliviani con la prospettiva di un’equa distribuzione della terra, non si rendeva conto che la politica populista di Barrientos aveva già annullato un elemento chiave della sua strategia.

Anche il partito comunista boliviano fu poco collaborativo con il Che perché aveva ricevuto precise indicazioni dall’Unione Sovietica che lo considerava un elemento pericoloso e destabilizzante, specie dopo le sue aperte critiche ai pericoli dell’influenza sovietica in Africa con il discorso di Algeri del 24 febbraio 1964.

Il Che ad Algeri

Dariel Alarcón Ramiréz, detto “Benigno”, fu uno dei pochi sopravvissuti del gruppo del Che in Bolivia. Aveva combattuto al suo fianco dal 57’ e lo aveva seguito anche in Congo. Con due compagni, dalla Bolivia era riuscito ad attraversare il confine cileno. I tre sopravvissuti se l’erano cavata grazie alla protezione di Salvador Allende, allora Presidente del Senato. Al rientro a Cuba, Benigno fu accolto da eroe e fece carriera, ebbe cariche e riconoscimenti, ma nel 1996 fuggì a Parigi approfittando di un permesso dell’unione degli scrittori cubani e rinnegò la sua vita, accusando Castro di aver tradito la rivoluzione.

Fidel Castro

Le rivelazioni di Benigno sono interessanti per inquadrare meglio il disastro dell’avventura boliviana del Che.

«Cienfuegos e Guevara facevano ombra a Fidel. C’erano contrasti nel gruppo dirigente. Poi Cienfuegos morì in un misterioso incidente. Ero con Guevara in Congo, quando Fidel rese pubblica una lettera in cui Guevara dichiarava di rinunciare ad ogni incarico e alla nazionalità cubana. Il Che prese a calci la radio e urlò: Ecco dove porta il culto della personalità! Il comandante aveva scritto la lettera dopo il discorso di Algeri in cui aveva messo in guardia i paesi africani dall’imperialismo sovietico. Credo che quel discorso fu la sua condanna a morte.». 

Dariel Alarcón Ramiréz

Dal 2008 al 2013 ho viaggiato nove volte in Bolivia per le riprese di un documentario. Sapevo che il Che aveva trovato la morte proprio li, durante una della sua tante “crociate in difesa dei deboli”, braccato e accerchiato dalle forze reazionarie, con l’aiuto dei soliti americani che ne avrebbero chiesto l’esecuzione sommaria, senza immaginare che stavano contribuendo alla creazione di un mito. Era una lettura molto superficiale. Del tutto accidentalmente ho avuto poi accesso a delle informazioni dirette sulla morte di Che Guevara e dopo averle lasciate sedimentare per un po’ mi sono deciso a scriverne, nonostante l’argomento sia quasi “intoccabile”. Mi sento legittimato dalla mia grande fiducia nella logica…

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”

E’ importante ricordare ogni tanto le parole di Pier Paolo Pasolini che con il suo indimenticabile intervento sul Corriere della Sera (14 novembre del 1974) definisce il senso più profondo del nostro lavoro e la responsabilità che comporta.

Pier Paolo Pasolini

Dopo il fallimento della missione in Africa il Che era tornato a Cuba, dove ormai stava diventando sempre più scomodo per Fidel Castro. Il suo carisma era enorme, la sua popolarità ingombrante. La sua natura di guerrigliero e il suo carattere poco si adattavano alla gestione del potere politico e a tutte le problematiche e burocrazie annesse e connesse.

La mia amica Eloisa Lopez-Gomez è nata in Brasile ma i suoi genitori emigrarono da Cuba: il padre nel 1961, la madre nel 1966. A firmare i documenti di espatrio per sua madre fu proprio Ernesto Guevara, appena tornato dall’Africa. Eloisa sperava che sua madre avesse conservato quel “foglio di via”, ma purtroppo è andato perduto.

Fidel castro e il “Che”

Se pure è logico e ovvio, rimane sorprendente come i frammenti di storie lontane s’intersecano nel mondo in luoghi e piani temporali differenti, e questo frammento che Eloisa mi ha riportato suggerisce un Che “piccolo burocrate”, obbligato ad applicarsi nelle noiose mansioni pratiche che la sua carica istituzionale a Cuba necessariamente comportava, lontana dall’esistenza avventurosa dei campi di battaglia.

D’altra parte a Cuba non sarebbe mai potuto diventare “Fidel” essendo lui argentino, uno straniero quindi, nonostante tutto. Il suo sogno era di portare il modello della rivoluzione cubana anche nel suo paese, dove a pieno diretto sarebbe potuto diventare il “leder maximo”.

Nel 1962 in Argentina un colpo di stato militare aveva fatto cadere il presidente Arturo Frondizi. Jorge Ricardo Masetti fu l’unico giornalista argentino a coprire la rivoluzione cubana e si fermò alcuni anni a Cuba dove nel 1959 fondò e diresse l’agenzia si stampa ufficiale del governo rivoluzionario “Prensa Latina”. Tornato nel suo paese nel 1963 con un gruppo di guerrilla tentò di far partire la rivoluzione anche in Argentina, ma dal 1964 scomparve nella giungla, si persero per sempre le sue tracce.

Jorge Ricardo Masetti

Il Che, che voleva ripartire da dove Masetti aveva lasciato, non ascoltò i consigli dei suoi compagni boliviani che suggerivano di concentrare l’azione a nord est, una zona che conoscevano bene, dove potevano contare sull’appoggio della popolazione locale, ma si ostinò invece a spingersi a sud, verso il confine argentino appunto. Con soli trenta uomini, senza appoggi, braccato da tremila soldati, la sua fine era già scritta.

La sua prigionia durò solo un giorno, in una baracca nei pressi del villaggio La Higuera, dipartimento di Santa Cruz. La decisione di giustiziarlo fu presa molto rapidamente, non dai soliti americani come erroneamente si crede (che avrebbero preferito interrogarlo a dovere) ma dal presidente dalla Bolivia. René Barrientos era reduce da una vicenda analoga che non voleva si ripetesse: il caso Debray. Qualche mese prima, giornalista francese, uno dei componenti della guerrila del Che era stato catturato.

Jules Régis Debray

 

L’intenzione della giustizia boliviana era di metterlo a morte ma con il passare dei giorni si era sollevata una grade protesta. Oltre al governo francese e alle varie ONG, per salvare la vita a Debray firmarono importanti intellettuali di molti paesi del mondo tra i quali gli italiani Ungaretti, Pratolini, Moravia, Pasolini, Fellini, Silone…

Alla fine Barrientos fu costretto a cedere: Debray fu liberato.

Per questo motivo quando il Che fu catturato, la decisione di eliminarlo fu presa in meno di ventiquattro ore.

Jules Régis Debray è considerato da molti il vero traditore di Che Guevara, quello che avrebbe fornito le informazioni utili alla sua cattura. Il suo avvocato ha reso pubblica una lettera scritta da Debray durante la prigionia, nella quale comunicava di aver raggiunto un accordo con il governo boliviano… ma questo è un elemento secondario del puzzle.

Ecco come andarono le cose.

Nel 1967 Gary Prado Salmòn era un giovane Capitano dei Rangers dell’esercito boliviano, aveva solo 28 anni quando il gruppo al suo comando catturò il Che a la Quebrada de Churo.

Gary Prado Salmon

A differenza delle varie versioni, più o meno romanzate, fu lui l’ultima persona a parlare con Che Guevara prima della sua esecuzione. Gli comunicò che la decisione era stata presa e che l’ordine sarebbe stato eseguito. Il Che gli affidò il suo Rolex, chiedendogli di farlo avere alla sua famiglia. Fu Mario Teran, un soldato semplice di 27 anni, a premere il grilletto.

Anni dopo Gary Prado ebbe modo di mantenere la promessa e consegnò il Rolex all’ambasciatore cubano, che a sua volta lo fece arrivare alla famiglia Guevara.

Una foto del “Che” con il Rolex GMT

E’ probabile che esistano diversi Rolex del Che e altre storie e particolari che li riguardano (come a Zanzibar esistono diversi luoghi dove sarebbe nato Freddie Mercury)… ma questa versione, una testimonianza diretta di Gary Prado, mi sembra la più attendibile e anche la più bella.

Le imprecisioni sul momento della morte di Che Guevara sono anche dovute al fatto che nell’esercito boliviano c’erano ben tre Mario Teran. Un giornalista americano intervistò un “Mario Teran”, ma non era lui il boia di Che Guevara. In cambio di qualche centinaio di dollari, l’omonimo soldato, che come tutti conosceva bene la storia, andò a braccio e anche per compiacere il giornalista offrì una versione romanzata dei fatti, quello che voleva sentire.

Mario Teran

A Montero, dove ancora oggi vive Mario Teran, c’è una cultura contadina molto semplice, dove “farsi belli” di fronte agli altri è qualcosa di impensabile. Il vero Mario Teran non ama parlare di quell’episodio ma assicura che nessuno gli ordinò di uccidere il Che, fu lui a offrirsi volontario perché poco tempo prima la guerrila aveva ucciso il caporale Kalani, il suo migliore amico, e altri soldati dell’esercito boliviano, tutti giovanissimi.

Si trovano molti resoconti di quelle ultime ore del Che nelle quali si afferma che gli ufficiali gli fecero bere una bottiglia di Rum affinché si facesse coraggio di fronte alla prospettiva di uccidere il grande uomo. Ciò non corrisponde al vero. Mario Teran era pieno di risentimento: entrò nella baracca dove il Che stava seduto con le gambe appoggiate a un tavolo. Gli avevano sparato alle gambe e la ferita doveva essere molto dolorosa: teneva il capo chino, con una smorfia di dolore. Non alzò mai lo sguardo. Senza tergiversare e certamente senza alcuno scambio di parole con la sua vittima, sparò una prima raffica di mitra, si avvicinò e sentì un rantolo… Saprò una seconda raffica per finirlo, giustiziando quello che per lui era un assassino e non un mito.

La famosa foto di Alberto Korda, icona del 68’, è ancora oggi tra gli scatti più famosi della storia della fotografia e ha contribuito a fare dell’immagine del Che una presenza familiare per diverse generazioni in tutto il mondo. La foto che ritrae Che Guevara morto, altra icona che ricorda il meraviglioso “Cristo morto” del Mantegna (conservato nella Pinacoteca di Brera), fu scattata dopo aver lavato il suo corpo, sistemando anche barba e capelli.

Il Cristo del Mantegna

Certi scatti hanno caratteristiche misteriose e permettono di consegnare al mito il soggetto che riproducono, risultato di un’equazione che combina l’intuizione geniale del fotografo con le circostanze della vita del soggetto in rapporto al momento storico. Magiche coincidenze che, come per le storie d’amore, rimarranno sempre un mistero che fa sognare.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

PS

Devo ringraziare il mio amico boliviano, Hugo Acha (ingiustamente perseguitato dal regime di Evo Morales, rifugiato politico a Miami) per tutte le informazioni utili che mi ha fornito e per avermi aiutato focalizzare questa vicenda lontana nel tempo, avendo conosciuto personalmente la maggior parte dei testimoni che ho citato, persino il “boia di Lione” Klaus Barbie, che quando Hugo era un bambino (biondissimo), aveva visto in lui un perfetto esemplare della “razza ariana”.

CONTAMINAZIONI n° 8 – Il misterioso annullamento dell’inerzia. “The Salesman” di Asghar Farhadi e “Interazioni d’urto n°1” (la porta magica di Daniele Puppi)

La Cinematheque di Miami Beach (1130 Washington Ave) è forse la sala cinematografica più accogliente che conosco. Avrà al massimo sessanta/settanta posti. Una pianta irregolare, con una specie di corridoio aperto che le gira intorno e permette al pubblico di passare dietro lo schermo, seguendo un percorso di manifesti, fotografie, oggetti e libri… sempre interessanti per curiosare un po’ in attesa del film. Ci sono andato diverse volte negli ultimi due anni, da quando ho iniziato a frequentare assiduamente Miami, e la speciale atmosfera che si respira, un po’ retrò, è perfetta in quella miniatura che ti fa sentire fuori dal tempo. E’ uno spazio sospeso, e la visione di un film si arricchisce di quello che il “contenitore”, come un velo discreto e avvolgente, aggiunge all’abituale magia della proiezione in sala per un gruppo di sconosciuti che hanno scelto di assistere allo stesso spettacolo.

cinemateque

La selezione è tipicamente “art house”: in quel cinema ho sempre visto dei film interessati ma l’ultimo è stato davvero sorprendete. La sorpresa deve venire anche dal fatto che si tratta di un film iraniano, prodotto di un altro mondo quindi, di un’altra cultura, di una diversa sensibilità.

The Salesman” di Asghar Farhadi, premio Oscar come miglior film straniero 2017. Il regista non è andato a Los Angeles a ritirarlo per protesta contro il provvedimento del governo Trump che vuole limitare l’ingresso negli Stati Uniti dei cittadini di sette stati considerati ad alto rischio terrorismo, tra i quali appunto l’Iran. Durante la premiazione degli Oscar, in un clima un po’ radical chic e militante, decisamente critico verso il neo eletto Presidente, Farhadi ha affidato a una lettera le sue rimostranze, ricevendo la prevedibile ovazione della sala.

salesman

Il film è straordinario nella sua esotica semplicità. Emad insegna in un liceo, ma è anche un attore di teatro piuttosto apprezzato. Lui e la moglie Rana sono i protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, che una compagnia teatrale sta mettendo in scena.

Costretti ad abbandonare il loro appartamento per un cedimento strutturale del palazzo, trovano una soluzione abitativa temporanea grazie a un collega, e si trasferiscono in un altro quartiere di Teheran. Per un errore di persona, Rana, mentre sta facendo la doccia, viene aggredita da un vecchio cliente/amante della precedete inquilina, una donna di facili costumi..

rana

Emad non vuole coinvolgere la polizia e inizia una sua indagine personale che lo porta a scoprire il colpevole in un finale carico di tensione, sorprendete per il movimento tellurico dei sentimenti dei tre protagonisti.

Con pochi mezzi, senza effetti speciali, affidandosi solo a una grande scrittura e un gruppo di bravi attori, Farhadi conduce il pubblico nel suo gioco perfetto. La storia si muove con passo lento, ma con un ritmo emotivo incalzante che non da tregua. Significativo il fatto che scelga Rana quale depositaria di un’istintiva saggezza e umanità, di una superiorità morale: davanti al suo assalitore, umiliato e vinto, lei sola è capace di perdonare, mentre il marito, accecato dal rancore, non vede al di la del suo naso.

rana 2

Il colpevole, un uomo anziano e malato, è certamente un essere meschino ma è anche vittima del caso e della sua stessa debolezza. Le scuse che rivolge a Rana sono sincere, ma solo lei è in grado di leggere la sua disperazione, il terrore di perdere la faccia davanti alla sua famiglia per gli atti indegni che ha commesso, per la sua pochezza umana. La donna, in quel momento drammatico, non può che provare dell’affetto per lui e tendergli la mano con una carità che nel nostro mondo potremmo banalmente definire “cristiana”, ma è invece qualcosa di universale che convive in ogni essere umano con gli istinti più feroci. Questo movimento di sentimenti, contrastanti e contrastati, è davvero commovente.

Il film di Farhadi rimane nell’animo e ogni tanto riaffiora, per associazione, per similitudine, o per contrasto. Mi è tornato in mente pochi giorni fa, dopo un paio di mesi, quando meno me lo aspettavo.

The-Salesman-Banner-490x220

Era un po’ di tempo che avevo la curiosità di vedere dal vivo un’opera realizzata da Daniele Puppi a Milano, a casa di una coppia di collezionisti.

Ho conosciuto Daniele a Roma nel 2006 per scoprire che eravamo cresciuti a pochi chilometri di distanza in due paesi del Friuli, in provincia di Pordenone. Negli anni a seguire siamo diventati amici, abbiamo iniziato a collaborare ogni volta che si sia presentata un’occasione e ci teniamo informati sulle novità delle nostre vite e del lavoro. Sicuramente siamo dei “compagni di viaggio”, una tipologia speciale di amici, particolarmente preziosa, che non da mai niente per scontato ma non ha bisogno di conferme. Esiste una parola turca che sintetizza questo concetto: DOST. Nel mondo posso contare su una piccola rete molto selezionata di “dost” che “camminano con me” appunto. Daniele è uno di loro.

Daniele Puppi
Daniele Puppi

L’opera che sono andato a vedere a Milano è stata realizzata su commissione, in uno spazio molto preciso: l’ingresso di un grande appartamento del centro, dove vivono Franco Tatò e sua moglie Sonia Raule. Sapendo che presto sarei andato a Milano, Daniele ha chiesto a Sonia se potevo passare a vedere la sua opera. Per un altro caso della vita (o per un’ennesima conferma della teoria dei “sei gradi di separazione”) quando ancora non conoscevo Daniele, avevo già incontrato Sonia a Roma, attraverso un comune amico che ha avuto un’importanza notevole per entrambi. Un altro “dost”, che purtroppo ha concluso la sua vita nel giungo del 2005. E’ con lui che anche Sonia, dopo essersi occupata di televisione per diversi anni (fino a diventare direttore dei programmi a Tele Montecarlo nel 2000) ha iniziato a produrre cinema con diversi film interessanti all’attivo, tra i quali “Miral” di Julian Schnabel, tratto dal libro dalla sua allora moglie, Rula Jebreal.

Sonia Raule e Franco Tatò
Sonia Raule e Franco Tatò

Sono arrivato all’appuntamento con la mia abituale puntualità friulana, alle 17:55. Sonia non era ancora arrivata e mi sono presentato a Franco Tatò che era in compagnia di una delle sue figlie. Non sapevano chi fossi ma mi hanno accolto bene e sono rimasto a conversare con loro in attesa della padrona di casa, che era rimasta un’ora indietro e pensava fossero ancora le 17:00.

Avevo sentito parlare molto di Franco Tatò quando era Amministratore Delegato dell’Enel (dal 1996 al 2002), ed era soprannominato “Kaiser Franz” per il rigore che aveva dimostrato nella sua volontà di risanamento dell’azienda.

Ne ho avuto subito un’ulteriore conferma.

Per rompere il ghiaccio e trovare un terreno comune, ho buttato lì la mia esperienza di lavoro per l’Enel con la produzione di un documentario nel 1994 che aveva un budget notevole.

“Quando c’era uno spreco vergognoso di denaro pubblico.” – ha commentato con ironia – Poi sono arrivato io.”

E’ andata meglio con Cardarelli, quando il discorso si è spostato sui suoi anni di formazione a Lodi. Nato nel 1932, a undici anni Franco Tatò ha avuto un incontro fondamentale con un insegnante che tra le altre cose aveva imposto ai suoi allievi, contro corrente, la traduzione dell’Odissea di Ettore Romagnoli (Zanichelli, 1923) rispetto a quella in versi del 1805 di Ippolito Pindemonte, all’epoca ancora utilizzata a tappeto in tutte le scuole del regno. Lo stesso insegnante, invece delle poesie di Pascoli, gli aveva fatto imparare a memoria quelle di Vincenzo Cardarelli… e lì forse ho guadagnato qualche punto, ricordando la citazione/omaggio che Tomasi di Lampedusa fa a Cardarelli nel Gattopardo.

Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli

Mentre sorseggiava un beverone di proteine, criticato dalla figlia assolutamente contraria a quel tipo di alimentazione, Franco Tatò ha iniziato improvvisamente a declamare Cardarelli, ma non con intento auto celebrativo… era un momento della sua dimensione mitologica privata che regalava alla figlia, e in quel caso anche a me che ho avuto la fortuna di capitare li al momento giusto. Quello scambio padre/figlia era molto bello e sincero. Lei ammetteva di non essere stata mai esposta alla poesia, di ignorare ci fosse Cardarelli, e si rammaricava che con tale ritardo il padre l’avesse stimolata con quei suoi lontani ricordi. Quello che mi ha sorpreso è la capacità di Franco Tatò nel declamare versi: uno stile asciutto ma partecipe, autorevole ma per niente aulico, molto intimo invece in quanto rivolto alla figlia che gli stava davanti. Bravissimo!

Il discorso è poi tornato ancora sulla grande lezione del suo insegnate delle medie che era riuscito a stimolarlo nella giusta direzione, dandogli la dimensione di elasticità e adattabilità che dovrebbero avere la cultura e l’insegnamento.

Mi ha fatto pensare a mio padre, laureato in fisica teorica, che mi aveva parlato di un suo insegnante di matematica del liceo e di quanto fosse stato fondamentale per la sua formazione. Se penso ai miei insegnanti del liceo non trovo nulla del genere. Solo più tardi, all’università, ho riconosciuto dei maestri: Jean Chirstensen, docente di storia della musica all’università di Louisville… Francesco Dal Co e Massimo Cacciari che ho seguito per un paio d’anni quando insegnavano rispettivamente storia dell’architettura ed estetica alla facoltà di architettura di Venezia.

Cacciari (dx) e Dal Co (sx)
Cacciari (dx) e Dal Co (sx)

Forse nell’arco di poche generazioni c’è stato un decadimento del livello degli insegnanti di medie e liceo, oppure mio padre e Franco sono stati più fortunati di me.

Il discorso è poi passato alla Divina Commedia che da ragazzo aveva imparato a memoria integralmente… ma ora si ricorda solo qualche frammento. Ed ecco che nel bel mezzo di una declamazione dantesca, Sonia fa il suo ingresso in casa…

Sonia Raule
Sonia Raule

Ci siamo fermati un attimo a ricordare il comune amico che ci ha lasciati (il “dost” che abbiamo condiviso) e dopo qualche informazione di carattere generale mi ha portato a vedere l’opera di Daniele nell’ingresso, accendendo le luci.

Ci vuole del coraggio per osare un simile azzardo e ospitare un’opera così invasiva nel proprio ingresso di casa! Mi sono avvicinato, spostandomi nella stanza per osservarla bene dalle diverse angolazioni.

“E’ stata lei…!” ha puntato il dito Franco.

A quanto pare, approfittando di una sua assenza per lavoro, lo aveva messo davanti al fatto compiuto, facendo installare l’opera dove lui aveva pensato di sistemare una parte della sua grande biblioteca.

Conosco bene il lavoro del mio amico friulano, ma quello che ha fatto in quello spazio “privato” è qualcosa di completamente nuovo.

Ho lavorato con lui la prima volta nel marzo del 2008, girando una breve documentario su una sua grande video installazione all’hangar Bicocca (“Fatica n° 16”) realizzata in collaborazione con Magazzino d’Arte Moderna di Roma e curata da Federica Schiavo. In quello spazio enorme, prima della ristrutturazione dell’hangar (100 x 30 metri, 8 metri di altezza), aveva utilizzato sette videoproiettori sincronizzati che con la necessaria complicità del suono davano per una frazione di secondo la sensazione di una dilatazione dello spazio, giocando con lo sfalsamento della percezione dei nostri sensi.

fatica n. 16
fatica n. 16

Il lavoro a casa di Sonia e Franco invece, è un oggetto fisso e inanimato che stranamente riesce a dare una percezione analoga e persistente, giocando con la proporzione sballata del volume in relazione con lo spazio che lo ospita.

E’ una “porta gigante” che seguendo una traiettoria quasi diagonale, taglia la stanza a metà, con spavalderia, osando un gesto estremo che sembra non temere conseguenze, che non si preoccupa in alcun modo di avere una funzionalità, un senso pratico. Quel movimento aggressivo e inaspettato è una sorpresa per chiunque entri in casa. Il titolo dell’opera rende l’idea: “Interazioni d’urto n° 1”

Interazioni-d'urto-foto-n.1-bassa

Questo lavoro, forse più degli altri, è in linea con il carattere di Daniele che a volte appare totalmente privo di diplomazia e pur di chiarire il suo punto di vista arriva a essere quasi aggressivo, parlando senza filtri, lasciando le persone che lo ascoltano perplesse, a volte offese. Mi è capitato più volte di assistere a queste dinamiche che mi divertono molto, che per me sono una conferma del valore della persona e del suo lavoro. In un mondo pieno di lacchè che non si vogliono esporre, che si muovono timidamente per non perdere posizioni, Daniele va avanti con spavalderia e coraggio, rischiando sempre, con candore e onestà intellettuale.

Interazioni d'urto
Interazioni d’urto n. 1

Come per il film di Asghar Farhadi che fa esplodere i sentimenti dei protagonisti della storia nell’immobilità di una stanza, ecco un altro movimento tellurico interiore che annulla l’inerzia dell’oggetto e gli dà vita con una dinamica misteriosa, troppo complessa per essere sviscerata razionalmente, ma il cui potente effetto percettivo e innegabile. La grande “porta magica” vibra come un diapason, ma è come se lo facesse in una dimensione parallela di cui percepiamo solo l’eco, in contrasto con la nostra lettura razionale.

Jim Morrison
Jim Morrison

Sarebbe certamente piaciuta a Jim Morrison, che scelse per la sua band il nome “The Doors”, proprio pensando a “The doors of Perception” di Aldous Huxley… e a Dino Buzzati, che nella sua Milano, raccontava spesso di porte misteriose che permettevano il passaggio da una dimensione all’altra.

Poema a fumetti
una tavola tratta da “Poema a fumetti” di Dino Buzzati

E’ bello sapere che a casa di Sonia e Franco esiste uno di questi “passaggi segreti”, risultato del felice incontro tra la visione di un artista e la volontà sperimentale, l’apertura mentale di chi gli ha dato fiducia, accogliendo il mistero di una creatività estranea tra la mura della propria casa.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani

CONTAMINAZIONI n° 7 – Grillo VS Grillo – Fallimento e rigenerazione: il paradosso di Wittgenstein e i “sei gradi di separazione” perduti.

Ogni qual volta attraverso la barriera della sicurezza che porta agli imbarchi di un aeroporto dedico almeno qualche secondo a maledire l’infame che tentò di far saltare un aereo nascondendo del plastico esplosivo nelle scarpe. Il suo nome è Richard Colvin Reid (nato il 12 Agosto 1973), nazionalità inglese, membro di al-Quaeda. Il 22 dicembre 2001 si presentò all’aeroporto Charles de Gaulle per salire sul volo American Airlines 0063 Parigi-Miami, ma fu bloccato in tempo.

Richard Colvin Reid
Richard Colvin Reid

Da allora, centinaia di milioni di persone ogni anno devono togliersi le scarpe e passarle ai raggi X, con un fastidio e una perdita di tempo che, se sommati con un’equazione esponenziale, fanno di questo coglione il terrorista di maggiore successo della storia.

scarpe esplosive
scarpe esplosive

controllo scarpe
controllo scarpe

shoes

Se esistesse un “premio Osama bin Laden”, senza alcun dubbio andrebbe a lui. Magra consolazione che si sia beccato tre ergastoli e si trovi recluso in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti. Mi auguro che San Pietro, se mai ci sarà un giudizio universale, si renda conto della gravità del suo misfatto.

“Vieni un po’ qua Richard!  Allora… per quella bella pensata delle scarpe esplosive, ti condanniamo a spalare merda per l’eternità nel più fetido girone dell’inferno.”

Giustizia è fatta!

Non discuto sulle motivazioni ideologiche che l’hanno spinto a una simile azione: le complesse dinamiche della storia ci hanno portato a una gravissima crisi del sistema e l’estremismo islamico è una conseguenza facile da condannare, ma altrettanto facile da comprendere. La sua crescita esponenziale nell’ultimo ventennio è dovuta in buona parte alla politica estera ottusa, aggressiva, arrogante, insensata, degli Stati Uniti e di alcuni suoi alleati. La scusa di imporre la democrazia in paesi dove non c’è una tradizione democratica, dove le istituzioni sono molto deboli, saltando un processo che normalmente richiede diverse generazione, ci ha portato al disastro a cui stiamo assistendo, con il concreto pericolo di disgregazione dell’Europa.

L’invasione dell’Iraq, la catastrofe della Libia… e vogliamo parlare dell’Egitto? Tanto è stato fatto per trovarsi con un nuovo stato di polizia che tortura e uccide il povero Giulio Reggeni, colpevole di simpatizzare con un sindacato che si oppone al regime. Si passa da una dittatura all’altra senza scrupoli morali. Quello che sta in mezzo, l’economia della guerra, è ciò che conta: business as usual, al costo di milioni di morti e sofferenze indicibili per le popolazioni civili, com’è appena successo in Siria.

Alcuni analisti semplificano tutto con la spiegazione che la guerra muove migliaia di miliardi di dollari e rivitalizza l’economia portando utili inimmaginabili.

“Finché c’è guerra c’è speranza”, come la commedia amara con Alberto Sordi nei panni di un rappresentate di armi che bazzica per il terzo mondo devastato dalle guerre civili, rischiando ogni giorno la pelle per dare alla sua viziata famiglia un tenore di vita che non merita.

Alberto Sordi ne "Finché c'è guerra c'è speranza"
Alberto Sordi ne “Finché c’è guerra c’è speranza”

C’è da domandarsi se quella che sembra stupidità non sia invece un piano preciso, portato avanti scientificamente. Non era difficile immaginare che milioni di giovani mussulmani avrebbero aderito al sogno di vendetta di fronte all’ignoranza criminale dell’altra parte del mondo. Quanto è accaduto nell’ultimo ventennio era stato profetizzato con estrema precisione nel 1992 da Samuel P. Huntington nel suo saggio “The Clash of Civilizations”, un’opera bandita e osteggiata fino a pochi anni fa, nella quale si prevedeva che il maggiore conflitto in arrivo sarebbe stato legato all’identità religiosa. Con un approccio scientifico, analizzando le curve demografiche e i flussi economici, Huntington prevede che le cose cominceranno a migliorare solo verso il 2032. Il peggio quindi, deve ancora venire…

 Samuel P. Huntington
Samuel P. Huntington

La lotta al terrorismo rimane un alibi perfetto e solo poche voci isolate hanno il coraggio di svelare apertamente cosa c’è dietro lo scontro frontale, il fallimento dell’integrazione di cui parlava Oriana Fallaci, che ormai ha raggiunto in punto di “non ritorno”.

Oriana Fallaci
Oriana Fallaci

La minaccia nelle grandi capitali europee è ormai costante. Non è chiaro come mai a Roma non sia ancora accaduto nulla. Dubito che i servizi segreti italiani, o quelli del vaticano, siano più bravi degli altri. E’ probabile che stiano aspettando il momento giusto per attaccare un simbolo, oppure che non vogliono farlo proprio perché è un simbolo… o forse evitano di prendersela direttamente con dei “colleghi”. Solo qualche secolo fa in fondo, il comportamento della chiesa cattolica era piuttosto violento con miscredenti ed eretici. Il Vaticano ogni tanto si scusa… vuoi per i preti pedofili, vuoi per non essersi opposto apertamente al nazismo, vuoi per le persecuzioni dei non cristiani nel lontano passato… Nel 1992 hanno chiesto scusa per quello che hanno fatto a Galileo nel 1633.

Galileo Galilei
Galileo Galilei

Forse anche l’Isis pensa che tra qualche centinaio di anni potrà chiedere scusa. In fondo, a parità di condizioni, pensando alle dominazioni islamiche, quando anche nel mondo occidentale la religione aveva un ruolo centrale, i mussulmani erano molto più tolleranti. Vale anche per l’Impero Ottomano e la moderna Turchia, dove Mustafa Kemal (1881-1938) era un convinto sostenitore della separazione del potere politico dalla religione, mentre Recep Tayyip Erdoğan, Primo Ministro dal 2003 e Presidente dal 2014 (leader per partito AKP) sta portando il paese verso una pericolosa regressione.

Come Huntingon aveva previsto nel 1992, ci troviamo ormai in mezzo a un “clash” tra due mondi.

La propaganda è parte integrante di questo sistema che va ad alimentare patriottismo e nazionalismo con formule semplici e convincenti, specie per chi vive nella più profonda ignoranza. La maggior parte dei giovani americani mandati a morire in Afghanistan e nelle varie missioni di guerra (citati con orgoglio dalla politica nei discorsi ufficiali) conosce a malapena la geografia e la storia del proprio paese, figuriamoci quello che può sapere di culture così lontane diverse. Lo stesso vale per i giovanissimi mussulmani indottrinati e plagiati con la promessa di una pletora di vergini che li attenderebbero in paradiso non appena si saranno fatti saltare in aria per la causa. Bisognerebbe far sapere a questi giovani obnubilati dal testosterone che le tanto agognate vergini il più delle volte sono noiose e inesperte.

Il “sacrificio della vita per la patria” è un valore intoccabile, ma nella maggior parte dei casi la triste realtà è “spreco della vita a favore degli interessi di pochi” ovvero, per dirlo con Paul Valery: “La guerra è il massacro di persone che non si conoscono, per conto di persone che si conoscono e non si massacrano tra di loro.”

Paul Valery
Paul Valery

Nel mondo globalizzato non esistono più i famosi “sei gradi di separazione” (Six degrees of separation), titolo della commedia di John Guare portata poi sul gande schermo nel 1993 da Fred Schepisi con un cast stellare (che comprende gli allora giovanissimi Will Smith e Philip Seymour Hoffman).

sixdegreesofseparationposter

Il film è molto bello. Racconta di un giovane sbandato, senza famiglia, negro, omosessuale, che simulando di essere la vittima di un’aggressione a Central Park, si presenta a casa di un ricco mercante d’arte (Donald Sutherland), spacciandosi per un amico dei figli che al momento sono all’università in un altro stato e non lo possono smentire. Con la sua vivace intelligenza, con una classe impeccabile, fa credere al padrone di casa e alla sua signora di essere nientedimeno che il figlio di Sidney Poitier, la star di “Indovina chi viene a cena?”.

Lo stratagemma serve a mettere a nudo le contraddizioni della società americana, nella definizione pretestuosa dei ruoli.

Il resoconto dell’episodio diventa oggetto d’intrattenimento nei salotti della New York che conta fino a che la sofisticata ma sensibile moglie del mercante d’arte (una straordinaria Stockard Channing) crolla di fronte alla consapevolezza del vuoto della sua vita, che per attimo aveva trovato un senso grazie all’incontro con Will Smith, il magnifico impostore, dotato di grande intelligenza e di una rara capacità maieutica.

La teoria che da il titolo al film, fu formulata nel 1929 dallo scrittore ungherese Frigyes Karinthy: ognuno di noi può essere collegato a qualunque altra persona al mondo attraverso una catena di relazioni che contano non più di cinque intermediari.

Ormai il numero dei gradi di separazione è in caduta libera.

Frigyes Karinthy
Frigyes Karinthy

Per fare qualche esempio con me stesso (evitando il mondo del cinema perché sarebbe troppo facile)… prendiamo i leader delle tre grandi potenze del mondo.

La mia amica Elga conosce molto bene un uomo d’affari che incontra regolarmente il Presidente cinese Xi Jinping. Due gradi si separazione quindi tra me è il capo della più popolosa e ricca nazione del mondo.

Un’altra amica, Evelina, è stata a una cena con Vladimir Putin (ma non posso svelare le circostanze). Un grado di separazione.

Tony Lo Bianco, un attore americano con il quale ho lavorato in due film, vecchio repubblicano convinto (per me è come uno zio e gli voglio molto bene), era con Donald Trump nella sua villona di Palm Beach a festeggiare capodanno 2016. Un solo grado di separazione con Donald.

l'autore con Tony Lo Bianco (a destra)
l’autore con Tony Lo Bianco (a destra)

Un grado di separazione con Nelson Mandela: nel 2009 a Washington ho intervistato Sten Greenberg, che ha lavorato con lui come principale consulente della sua prima campagna elettorale. E’ quello che l’ha convito ha sostituire lo slogan “Now it’s the time!” vagamente minaccioso con la prospettiva della presa del potere nero in Sud Africa, con “A better life for all!” più inclusivo e rassicurante. Lo stesso Greenberg ha seguito la campagna elettorale di molti altri leader tra i quali Bill Clinton a Tony Blair… e anche con loro posso quindi contare un unico grado di separazione.

Stan Greenberg
Stan Greenberg

Jimmy Carter l’ho incontrato quando era governatore della Georgia negli anni 70’. Avrò avuto dieci anni… ma se anche non fosse successo, ecco che attraverso l’ex presidente boliviano Gonzalo Sancez de Lozada (intervistato più volte per un documentario sulla Bolivia) avrei comunque un solo grado, perché Goni e Jimmy si conoscono molto bene.

(da sinistra a destra) GONZALO SANCHEZ DE LOZADA, FERDINANDO VICENTINI ORGNANI E HUGO ACHA
(da sinistra a destra) GONZALO SANCHEZ DE LOZADA, FERDINANDO VICENTINI ORGNANI E HUGO ACHA

L’amico Hugo Acha, anche lui rifugiato politico negli USA, è stato accusato dal governo boliviano di essere a capo di un tentato golpe in Bolivia, con un esercito privato (inesistente) di 15.000 paramilitari. Hugo è un avvocato e giornalista, poliglotta e coltissimo… ma a parte questo (nel gioco dei gradi di separazione) conosce bene Mario Teran, il sergente dell’esercito boliviano che il 9 ottobre del 1967, a 28 anni, si offrì volontario per giustiziare Ernesto Che Guevara.  Ecco quindi che posso vantare due soli gradi di separazione anche con il Che.

Mario Teran (in uniforme) e il "Che"
Mario Teran (in uniforme) e il “Che”

Pensando alle fidanzate che ho avuto in gioventù mi vengono in mente in pochi secondi i nomi di alcuni uomini famosi delle loro vite con i quali, mio malgrado, ho un solo (imbarazzante a pensarci) grado di separazione, nella condivisione di un amore, di una passione, di un’intimità… Jeff Bridges, George Roy Hill, Rod Stewart, Mick Jagger, Silvio Berlusconi, Gigi Riva, Franco Califano, Placido Domingo… e questo è il poco che ho saputo senza indagare, solo per aver ricevuto qualche confidenza.

Wittgenstein e Hitler si conoscevano da bambini. Lo racconta Beppe Grillo in un lungo e sorprendete monologo trasmesso su Netflix.

beppe-grillo

La storia che Grillo racconta è corredata da una vecchia foto scolastica del 1901, con Ludwig Wittgenstein e Adolf Hitler ritratti insieme a una ventina di altri bambini (scoperta dello storico inglese Kimberly Cornish). Non erano in classe insieme ma nella stessa scuola. Coetanei, entrambi nati nell’aprile 1889, Hitler il 20, Wittgenstein il 26. Di pochi giorni più vecchio quindi, il futuro dittatore era però un anno indietro. Hitler di umili origini, mentre il Wittgenstein veniva da una delle famiglie ebree più ricche d’Europa (il padre era un magnate dell’acciaio).

hitler-and-wittgenstein

A quanto parte Wittgenstein, pur essendo ebreo, avrebbe poi rinnegato la sua gente scegliendo anche di rinunciare alle grandi ricchezze di famiglia. Nella fantasiosa visione di Grillo, sarebbe stato Wittgenstein a suggerire al suo compagno di scuola che gli ebrei sono gentaglia.

“Ma dai, Ludwig… non esagerare.” Gli rispondeva il piccolo Adolf.

Alla fine Wittgenstein deve essere stato molto convincete.

Questa geniale trovata satirica di Grillo non ha certo lo scopo di una ricostruzione esegetica della tragedia dell’olocausto, ma usando un paradosso punta a un discorso più ampio su come nella vita gli incontri possano dare una direzione completamente diversa alla storia di una persona, a volte di una nazione o dell’intera umanità.

Grillo porta ad esempio la sua esperienza personale: dal laboratorio del padre tornitore a Genova e una breve stagione di rappresentante di capi d’abbigliamento, passa al racconto dei suoi esordi… Dalle conzoncine satiriche ai primi monologhi, fino al successo sorprendete della TV, quando c’erano solo Rai 1 e Rai 2. Tutti i passaggi sono corredati da spiegazioni in linea con il tema di fondo del racconto: ogni fallimento diventava l’occasione per rigenerarsi e aggiustare il tiro verso il compimento del proprio destino personale.

Beppe Grillo alla trasmissione RAI Fantastico
Beppe Grillo alla trasmissione RAI Fantastico

Anche la famosa puntata di Fantastico del 1986, nella quale Grillo accusò i socialisti di essere ladri, viene analizzata con precisione antropologia. Se Bettino Craxi non si fosse incazzato (negando l’evidenza di una disonestà ormai istituzionalizzata) il suo destino sarebbe stato un altro. Essere sbattuto fuori dalla Rai per sedici anni dopo aver pronunciato una verità ormai evidente a tutti, lo trasformò immediatamente in un eroe che con i suoi monologhi riempiva i teatri, e poi addirittura gli stadi. Questa dimensione da outsider, con un grande seguito di pubblico, ha definito le basi della sua discesa in politica.

E’ curioso come venga spontaneo in italiano parlare di “discesa” in politica. In spagnolo, forse con più ottimismo, l’espressione è “dare il salto” alla politica.

Erano molti anni che non vedevo Grillo in azione e il lungo monologo su Netfilx me l’ha restituito nel ricordo con un assestamento spontaneo alla sua maturità e alla mia, in questa nuova stagione della vita. Il mio grado di separazione con lui è una sua partecipazione a un film di Sabina Guzzanti del quale ero produttore esecutivo, “Viva Zapatero!” (2005), dove Grillo si rivolgeva a un gruppo di giornalisti, senza astio, dicendo che parlare con loro era inutile poiché avrebbero sicuramente manipolato le sue parole. All’epoca però non ebbi modo di incontrarlo.

Il disegno dello spettacolo trasmesso su Netfilx è perfetto, come la sceneggiatura di un film ben scritto, che spazia tra i ricordi personali, l’analisi antropologica della società italiana in un momento di profonda crisi e decadenza, gli accenni amichevoli e nostalgici della giovinezza condivisa con Fabrizio De Andrè e  Gino Paoli (presente in sala)… Il top è quando racconta della sua amicizia con Renzo Piano e del disaccordo da quando è stato nominato “senatore a vita”, immaginando che Napolitano lo chiamasse per farlo andare a votare in senato.

Renzo Piano (davanti) insieme a Beppe Grillo (dietro) ed altri tra cui Gino Paoli (a sinistra)
Renzo Piano (davanti) insieme a Beppe Grillo (dietro) ed altri tra cui Gino Paoli (a sinistra)

La parte più esilarante è il racconto di una serata alla Casa Bianca per un premio consegnato da Clinton all’archistar Renzo Piano che aveva invitato Grillo e signora a seguirlo (The Pritzker Arichitecture Prize, edizione 1998). Dopo la quasi vivisezione di Parvin Tadjk all’aeroporto di Washington (la moglie di Grillo, di origine iraniana), il comico/politico non resite all’occasione che gli si offre quando Clinton chiama uno ad uno i vincitori delle edizioni precedenti del prestigioso premio. Le varie archistar del mondo si alzano e raccolgono un applauso. Ma ecco che uno dei nominati è assente… forse un errore del protocollo e forse è andato in bagno. Senza esitazioni Grillo si alza, raccogliendo l’applauso: archistar anche lui, per un minuto. Una ricchissima cinese seduta al suo tavolo ci casca in pieno e gli chiede per quale opera aveva ricevuto il premio.

“Per un ponte – improvvisa Grillo – che va dall’altra parte e poi torna indietro perché andare di la non aveva più senso.”

Pare che Renzo Piano si sia proprio arrabbiato.

Il racconto delle diatribe personali con l’amico architetto è corredato dai filmati realizzati con il cellulare in uno studio dentistico di Pegli, dove entrambi si fanno trapanare. Mentre il primo è sotto i ferri con la bocca spalancata e non può parlare, l’altro lo tartassa… poi i ruoli s’invertono.

Nello stesso monologo Grillo svela che a Genova, negli anni dell’infanzia, il suo vicino di casa era Donato Bilancia, futuro serial killer, condannato per 17 omicidi.

La madre di Grillo quando uscivano la sera gli diceva:

“Mi raccomando… Poi torna a casa con Donato così mi sento tranquilla.”

Questa coincidenza gli permette di asserire legittimamene:

“Ma non lo capite che io non ho paura di niente? Da bambino sono stato coccolato da un serial killer!”

Il serial killer Donato Bilancia
Il serial killer Donato Bilancia

La conclusione della brillante e movimentata esposizione di Grillo è ovviamente il suo approdo alla politica: l’incontro con Casaleggio e la creazione del Movimento 5 Stelle.

L’elettorato italiano, ormai esasperato, sta premiando questo tentativo di rivoluzione che ha lo scopo far saltare un sistema profondamente corrotto, con il sogno di una diversa forma di rappresentanza.

“Basta delegare a un’associazione per delinquere!”

Non c’è da stupirsi per il successo dei 5Stelle quando gli altri fanno una figura di merda dopo l’altra e continuano sistematicamente a mentire. Virginia Raggi si è un po’ incartata come sindaco di Roma, facendo una serie di errori, ingenuità e cazzate abbastanza gravi che forse hanno frenato il volo del movimento dopo la disfatta del referendum Renzi/Boschi… ma ancora il margine è ampio rispetto alla pochezza dell’ennesimo rimpasto di governo, alle faide interne al PD, alle boutade proto naziste di Salvini, alla volgarità cronica di altri protagonisti. Quanto dovremo aspettare prima di avere un Presidente del Consiglio votato dai cittadini? Monti, Letta, Renzi, Gentiloni… tutti risultato di accordi politici sotterranei “nell’interesse del paese”. Balle! Quegli accordi sono nell’interesse dei partiti di governo e di alcuni potentati, non certo dei cittadini.

Nel 2006 intervistai Massimo Cacciari per un documentario sul 68’ realizzato per Cinecittà-Luce. Era amico di mio zio Vittorio e di mia cugina Alberta Basaglia, lo conoscevo abbastanza bene anche per aver dato un esame con lui nel 1984, quando insegnava “estetica” alla facoltà di architettura di Venezia. Gli sarò sempre grato per avermi insegnato/suggerito un metodo di approccio alle cose, un’impostazione analitica che cerca di lasciare al caso il meno possibile.

Durante l’intervista, allargando il discorso agli anni di piombo, disse una cosa che spesso mi torna alla mente.

“Non dimentichiamoci che il giorno in cui fu rapito Aldo Moro il partito comunista avrebbe votato in parlamento il sostegno al governo Andreotti, passando dall’astensione al “sì”… E non diciamo che il terrorismo non paga. Il terrorismo paga eccome! Cosa sarebbe stato questo paese se fosse andata avanti la politica del compromesso storico che poteva essere garantita solo da Moro e Berlinguer?”

La domanda legittima è se il movimento di Grillo, sarebbe in grado di gestire una transizione nel momento in cui avesse davvero l’occasione di riformare il paese.

Mi sembra che la tendenza generale è la convinzione che non possa fare peggio di chi l’ha preceduto: meglio rischiare il tutto e per tutto che la delusione continua, le bugie, l’illusione cronica del “meno peggio”. Una classe politica profondamente corrotta e autoreferenziale che ha perso il contatto con la realtà, che ha infettato il paese come un cancro, contribuendo al dissesto del sistema bancario… dalle alte sfere ai piccoli consigli comunali, alle mille inutili poltrone d’impensabili enti che fanno vivere molto al di sopra dei loro meriti una schiera infinita di mediocri approfittatori… quella che già il Principe di Salina vedeva arrivare come un’orda barbarica.

“La mia è un’infelice generazione, a cavallo tra due mondi e a disagio in tutti e due. Noi fummo i gattopardi, i leoni… Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene…”

Burt Lancaster ne "Il gattopardo"
Burt Lancaster ne “Il gattopardo”

Qualche anno dopo Tomasi di Lampedusa, un’altra analisi spietata del grande Richard Buckminster Fuller, architetto, filosofo, inventore, scienziato… che nella sua lucida e profetica visione del mondo, divideva gli uomini in cinque categorie.

“La quinta e ultima categoria è quella dei politici, persone che non hanno particolari capacità, per lo più mediocri, ma che hanno la determinazione, il carisma, l’arroganza o la fortuna di arroccarsi in una condizione di potere, di controllo sulle altre categorie, difendendo quello status che gli garantisce la sopravvivenza a un livello molto superiore di quello che le loro effettive capacità gli consentirebbero.”

Richard Fuller
Richard  BuckminsterFuller

Il tentativo riformatore di Matteo Renzi purtroppo è miseramente fallito, non credo per malafede o disonestà, ma per ignoranza, per arroganza, per aver scelto ancora una volta dei collaboratori inadeguati. Una grande occasione perduta.

Devo ammettere che mi sento molto più preparato sulla politica boliviana che su quella italiana. Della Bolivia so quasi tutto e sono costantemente informato da una rete molto attiva.

La complessità dell’Italia è scoraggiante e poiché da diversi anni vivo la maggior parte della mia vita all’estero, mi sento meno legittimato a intervenire nella specificità dei problemi di casa nostra. Quando leggo i giornali italiani on line mentre sono in viaggio, mi sento quasi un turista che cerca inutilmente di comprendere le notizie e la loro forma, spesso palesemente faziosa. La sostanza è che in Italia siamo quotidianamente vessati, minacciati, soffocati dalla burocrazia che approfitta della debolezza del singolo, perseguitandolo sistematicamente, mancando completamene nel rigore e nelle certezze che uno Stato dovrebbe dare al “suddito” per avere credibilità. Invece della semplificazione mille volte promessa, arrivano ogni giorno nuove complicazioni. E’ un sistema che celebra e difende il suo ruolo, nascondendo con la boria un’evidente inadeguatezza, un’incapacità di risolvere i problemi.

Quello che spaventa davvero è la profonda ignoranza della maggior parte dei politici. Saranno anche lo specchio del paese, ma in una prospettiva davvero scoraggiante. Non è detto che la cultura, la conoscenza, siano sinonimo di onestà, ma sono convinto che una visione più ampia, un metodo, la curiosità e il rispetto per tutto ciò che non si conosce a fondo, l’amore per l’arte… possano essere l’ispirazione per un vero impegno civile. Poi forse, sporcarsi le mani nella mischia diventa inevitabile, chissà, bisognerebbe avere la voglia di provarci. Finora non ho mai avuto la “tentazione della politica” se non per qualche istante di rabbia, quella stessa rabbia e delusione che certamente hanno motivato Beppe Grillo.

L’Italia potrebbe vivere di cultura per il patrimonio unico che possiede, ma non ha mai avuto una politica culturale.

La strada da percorrere non può che essere quella della competenza, delle capacità di affrontare i problemi con la sicurezza che deriva da un bagaglio di conoscenze, non da una sistematica e ridicola improvvisazione. Basta con l’incompetenza! E’ anche vero che solo gli strafalcioni e le figure di merda dei politici fanno notizia, ma negli ultimi tempi c’è stato un peggioramento progressivo che porta addirittura al rimpianto di una stagione ormai tramontata. Una Ministra dell’istruzione che millanta una laurea mai conseguita… Un leader di partito che confonde per ignoranza una cosa per un’altra… “Pinochet dittatore del Venezuela” e che lotta perennemente con i congiuntivi… e ancora peggio, ancora più pericoloso, presentarsi agli appuntamenti internazionali con i potenti della terra, rappresentati da un ministro degli esteri che non spiccica una parola d’inglese e si spiega a gesti, in un ridicolo e imbarazzante teatrino.

Il livello è troppo basso. Così non c’è speranza.

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani

CONTAMINAZIONI n° 6 – Da CARANDIRU a FUORI FUOCO – in memoria di Hector Babenco

Nel gennaio 2017 ci sono state delle gravi sommosse in tre grandi prigioni brasiliane. La prima nel carcere Anisio Jobim di Manaus, Amazonia: 56 morti più altri 4 in una struttura vicina. La seconda a Boa Vista, nel penitenziario statale di Porto Velho, nello stato di Rondonia: 33 morti. La terza nel penitenziario di Alcacuz, Stato del Rio Grande del Nord: altri 30 morti. Il conto supera i 120 morti… torturati, decapitati o bruciati vivi, e quasi altrettanti detenuti evasi.

Manaus_600x_b0bddac9759c07ce427636450923b3bb

Il motivo scatenante per questi tre episodi di feroce violenza è il controllo del narcotraffico. Due organizzazioni criminali si combattono quotidianamente per la gestione di un mercato miliardario: la Familia do norte (Fdn) e il Primeiro Comando da Capital (Pcc), la banda San Paolo. Le faide all’interno delle prigioni rappresentano l’ultima frontiera dello scontro.

manaus

Il Brasile è il quarto Paese al mondo per popolazione carceraria con oltre 622mila detenuti a fronte di una capacità che, secondi i dati ufficiali, sarebbe al massimo di 371mila.

La maggior parte della cocaina consumata in Brasile proviene dalla Bolivia. I circa 3.000 km di foresta amazonica sul confine tra i due paesi sono difficilmente controllabili e rendono il traffico molto agevole. I dati ufficiali parlano di quasi tre milioni di consumatori abituali in Brasile… qualche tonnellata al giorno quindi, ma altre centinaia di tonnellate transitano dai porti brasiliani verso l’Europa, l’Africa e l’oriente. Ormai è ampiamente documentato che molte cellule terroristiche, anche quelle degli ultimi sanguinosi attentati nel cuore dell’Europa, si finanziano grazie al narcotraffico… La catena causa/effetto che parte dagli oltre 40mila ettari di coca coltivati in Bolivia, porta quindi a delle conseguenze piuttosto gravi e complesse anche a casa nostra.

cocaleros

In territorio boliviano operano ormai diversi cartelli colombiani e messicani che, grazie alle connivenze nelle alte sfere del governo, lavorano quasi indisturbati. In pochi anni dalla presa del potere del presidente Evo Morales, l’economia legata al traffico della cocaina ha guadagnato una posizione predominate.
Quello che aveva tentato di fare Pablo Escobar in Colombia negli anni ottanta è successo in Bolivia con una progressiva trasformazione a partire del gennaio 2006.

evo_morales

Un’organizzazione criminale molto capace (i “Cocaleros”, coltivatori di coca del Chapare) ha ben compreso che le rivendicazioni legate all’uso tradizionale delle foglie di coca (usta dei contadini dell’altopiano per resister alla fatica dell’altura) non erano una bandiera efficace con l’opinione pubblica internazionale. Molto meglio farsi carico delle rivendicazioni delle popolazioni indigene della Bolivia, la cui esclusione sociale per centinaia di anni è innegabile. In un decennio, il processo democratico è stato sostituto da un potere assoluto mascherato da democrazia che controlla il traffico della cocaina e ha portato la Bolivia su un cammino molto pericoloso.
Il Brasile, nonostante gli enormi problemi interni di questa fase, si comincia finalmente a rendere conto dell’emergenza cocaina in arrivo dalla vicina Bolivia.

Quando ho avuto notizia delle sanguinose rivolte nelle prigioni brasiliane, ho subito pensato al bellissimo film di Hector Babenco sulla rivolta nel carcere di “Carandiru” e la violenta repressione delle forze speciali che il 2 ottobre 1992 entrarono sparando ad altezza d’uomo con il risultato di 111 morti. Il film è del 2003, l’anno dopo la demolizione della prigione, ormai macchiata dal peggior massacro della storia carceraria dal paese.

220px-Carandiruposter

Un’opera potente e realista, quasi un docu-film, che segue alcuni detenuti e le loro vicende, prima e durante la rivolta.

032394-hector-babenco
Hector Babenco

Era un po’ di tempo che pesavo di scrivere un piccolo omaggio a Hector Babenco, dopo la sua morte avvenuta a Sao Paulo il 13 luglio 2016. Ho avuto l’occasione di lavorare come suo assistente durante le riprese di un film a Venezia nel 1998, dove Hector dirigeva la seconda unità e faceva anche un ruolo da attore. “The Venice project” (regia di Robert Dornhelm) è un film curioso, non completamente riuscito ma interessante, con un cast stellare che comprendeva Lauren Bacall e Dennis Hopper.
Con Hector è nata subito una reciproca simpatia e siamo sentiti per anni… Al festival di Rio nel 2000, dove ero invitato con il mio primo film (“Mare Largo”), Hector mi ha portato a una memorabile cena con Julian Schnabel che con “Before Night Falls” aveva appena vinto il premio speciale della giuria a Venezia. Un film straordinario, che lanciò Javier Bardem in America. Avevo già incontrato Julian a Venezia e quindi ero molto contento, ma dispiaciuto di essere seduto a tavola lontano da lui. Vicino a me c’era un tipo magro e discreto che a un certo punto mi chiese come mai mi trovavo a Rio… Per educazione anch’io gli feci qualche domanda. Disse che scriveva canzoni e poco altro. Quando la mia amica Uta mi venne a prendere mi disse con rammarico: “Perché non mi hai detto che eri a cena con Caetano Veloso, sarei venuta un po’ prima…” Non lo avevo riconosciuto!

Caetano Veloso
Caetano Veloso

Dopo Rio, con Hector ci siamo persi, per poi incontrarci di nuovo anni dopo, per caso, e abbiamo mantenuto i contatti fino alla fine.
L’occasione di questo ricordo personale di un grande uomo di cinema, è legata ad altre coincidenze: la fine del montaggio di un documentario che ho seguito per circa due anni, realizzato con la “casa circondariale” di Terni (la prigione in parole povere) in collaborazione con Rai Cinema, concluso il 14 febbraio 2017, giorno di San Valentino, patrono di Terni.

carcere-terni-vocabolo-sabbione

L’idea di Chiara Pellegrini, appassionata e lungimirante direttrice del carcere, era quella di “ridare la voce ai detenuti” con la responsabilità della loro immagine fuori dal carcere. Per la prima volta (credo nella storia) sono stati loro a realizzare le riprese da “autori”, scegliendo contenuti e linguaggio. Il cambiamento del punto di vista è la cifra del film.
Il progetto è partito grazie a Oreste Crisostomi, che a Terni aveva iniziato un cineforum con i detenuti. Dopo vari cambiamento di percorso ha poi finalmente trovato una sua definizione produttiva, grazie alla determinazione di Sandro Frezza, che con me l’ha prodotto.
Sei detenuti (selezionali in accordo con la direttrice e con il comandate del carcere Fabio Gallo), hanno avuto in mano una telecamera per alcune settimane allo scopo di documentare la loro vita, in piena libertà di azione da registi-operatori, ovviamente nei limite della loro condizione… chi nella sezione “comuni”, chi in quella dei “semi liberi”, chi ormai in “affidamento” fuori dal carcere.
Ottenere i permessi non è stato facile, anche per le procedure legare alla sicurezza che devono essere sempre rispettate. Rosario, Alessandro ed Erminio vengono dalla Campania. Thomas da Milano, ma è cittadino svizzero. Slimane dal Marocco. Rachid dalla Tunisia.
Sei storie e personalità molto diverse. Per tutti e sei, condanne piuttosto pesanti: omicidio, rapina, spaccio di droga.
Il titolo “Fuori Fuoco” è nato durante il seminario per l’apprendimento dell’uso della telecamera… un po’ per scherzo, perché all’inizio molte riprese erano sfocate, ma può anche far pensare che ora i sei registi-detenuti sono lontano dal “fuoco delle armi” e del pericolo delle loro vite precedenti.

Entrare in un carcere, familiarizzare con un gruppo di detenuti e frequentarli per oltre due anni può riservare molte sorprese. Prima di tutto si rimane colpite dalle persone. L’intelligenza e la sensibilità dei detenuti che ho incontrato durante la lunga realizzazione di questo film mi porta a supporre che l’esperienza del carcere sia, nel bene e nel male, molto formativa.
“Chi galera non prova, libertà non apprezza!”
Una specie di proverbio che nel film viene pronunciato da Thomas, che si è formato e ha “lavorato” con gli ultimi componenti della banda Vallanzasca. La sua storia è particolarmente curiosa, perché viene da una “buona famiglia”. Non gli mancava nulla, ma fin da ragazzo si era sentito irresistibilmente attirato da una vita fuori dalle regole, una vita nel crimine. All’epoca, le bande operanti a Milano, avevano una specie di “codice d’onore” e le armi erano considerate un male necessario. Lo scopo era l’arricchimento, la violenza gratuita era impensabile.

La banda Vallanzasca durante il processo
La banda Vallanzasca durante il processo

Thomas aveva appena quindici anni quando cominciò a frequentare il bar dove alcuni personaggi della Milano criminale passavano il tempo, giocando a carte e ritrovandosi a bere. Erano rapinatori di banche della vecchia scuola, con una grande esperienza e un approccio quasi scientifico. Ben presto era diventato il “pinella”, il ragazzo di bottega che veniva mandato a comprare le sigarette e a fare piccole commissioni, ma niente di illegale. Per questo già riceveva delle mance, di molto superiori alla paghetta che i suoi genitori, del tutto ignari, gli passavano ogni sabato.
L’inizio della sua storia ricorda molto quella del personaggio interpretato da Ray Liotta in “Goodfellas” di Martin Scorsese.

Ray Liotta in "Goodfellas"
Ray Liotta in “Goodfellas”

Aveva iniziato facendo il palo, poi l’autista al cambio delle macchine… l’autista fuori dalla banca. Poi, siccome era molto giovane e aveva una faccetta d’angelo, i capi decisero di utilizzato per le “aperture”. Si presentava alla porta della banca prescelta, dove la guardia non esitava a farlo entrare… ma ecco che in pochi secondi arrivavano gli altri con le armi.
“Le rapine sono peggio della droga… perché ti danno una scarica di adrenalina, e ne vuoi sempre di più, al di la dei soldi.”
Thomas non è finito in galera per rapina, lo hanno fregato un po’ come Al Capone, con un accumulo di piccole pene in seguito a 23 controlli fatti a un indirizzo falso che aveva dato, dopo essere fuggito in Brasile mentre era in libertà vigilata. Quando è stato catturato, pensava ingenuamente di dover scontare un paio d’anni al massimo: ne ha avuti diciotto, ridotti poi a quattordici.

Al Capone
Al Capone

Rachid era in prigione per omicidio, pieno di rabbia e di rancore, ma un giorno aveva seguito il suggerimento di un educatore e si era messo a scrivere quello che pensava, trovando nella poesia la forma a lui più consona… nella sua lingua, ma anche in italiano, che orami parla con proprietà di linguaggio ed eleganza.
Nel film ci sono due poesie di Rachid. Una delle due è declamata da Gilberto, un altro detenuto: la sua voce su un montaggio d’immagini statiche.
Silenzio assordante
risiede nell’anima e nella mente.
Ne alba ne tramonto.
Ho visto momenti difficili
vissuti in angoli di buio
e giornate insignificanti.
Ho visto vite apparenti di esseri umani
sepolti vivi e morti viventi.
Ho visto draghi senz’ali, rassegnati,
inghiottiti dai cancelli.
Nel passeggio, pezzettini di carta
sotto il soffio del vento,
residui di urla interiori,
di una vita andata in brandelli.
Nel colloquio, fazzolettini
bagnati di lacrime,
da un’anima amareggiata,
e tanti, tanti baci, stampati
su quella maledetta vetrata.

Rachid ha pubblicato il libro delle sue poesie. Ormai è vicino alla fine della sua condanna, nel giro di un mese o due dovrebbe essere liberto.

carcere terni
l’interno del carcere di Terni

Erminio faceva una vita apparentemente normale: una famiglia, un buon lavoro da trasportatore… ma poi, ogni tre/quattro mesi, lui e la sua banda, rapinavano un portavalori. Con la moglie e il figlio riusciva a giustificare un migliaio di euro in più ogni mese, con la scusa di qualche straordinario, e quindi qualche spesa extra, una vacanza, un regalino, qualche ristorante…
In realtà in cantina nascondeva centinaia di migliaia di euro: ogni mattina ne prendeva una mazzetta, tre/quattromila euro che poi consumava nel corso della giornata… donne, droga, gioco d’azzardo.
“Manie di grandezza, stupidità…”
La sua parte nell’ultimo bottino era di centotrentamila euro. Se avesse confidato alla moglie la sua doppia vita è certo che lei lo avrebbe lasciato e denunciato… ma quando l’hanno beccato (per una fatalità non prevedibile) è rimasta con lui e l’ha aspettato fino alla liberazione. In carcere ha scritto un libro in collaborazione con Gilberto, un altro detenuto, che è stato pubblicato dalla casa editrice AGA nel 2015: “Vademecum del detenuto. Manuale per sopravvivere in un carcere italiano”
Al momento delle riprese del film aveva già finito di scontare la sua pena e si trovava in una casa famiglia a Terni.

vademecum detenuto

Alessandro preferisce non parlare dell’episodio che l’ha portato a una lunga detenzione. Dopo una lite, era andato a casa a prendere la pistola. Era alterato, e aveva sparato con l’intento di uccidere… ma aveva sbaglio bersaglio, troncando la vita a una bambina che si trovava lì per caso. Il senso di colpa lo perseguita e non è un caso se nel suo percorso di riabilitazione abbia intersecato la vita di un ragazzo autistico, con il quale ha stabilito un rapporto molto speciale, con un reciproco sostegno, scambio di amicizia e affetto. Forse ha trovato la sua strada… sembra che abbia una vera capacità di relazione con questi ragazzi problematici e potrebbe continuare a lavorare in questo settore. Adesso è in semi libertà e ha trovato una ragazza con la quale spera di ricominciare.

Rosario ha un sorriso speciale, una stazza da rugbista, un carisma che si avverte ancora per un po’ nell’ambiente quando se ne va per tornare nella sezione dei semi-liberi… A Napoli ha una moglie e un figlio. Gli hanno dato 14 anni e 8 mesi per spaccio, quando aveva poco più di vent’anni.
E’ difficile comprendere la pesantezza di certe condanne quando sentiamo che fatti di cronaca con stupri, pedofilia e omicidi, spesso si concludono con pene molto più leggere. Chi non ha i mezzi per difendersi adeguatamente paga per tutti.
Rosario mi ha spiegato che il motivo della sua grave condanna è che aveva un fratello a Como… spacciatore anche lui.
“Ma non lavoravamo insieme… Ognuno per se.”
Ogni tanto si telefonavano per salutarsi e così gli hanno dato anche l’associazione a delinquere, con il relativo inasprimento della pena. Questa è la sua versione… Non ho letto gli atti del processo ma mi è difficile non credere alla parola di Rosario che sprizza simpatia, entusiasmo e speranza, nonostante la sua condizione.
A parte il rammarico di essersi perso dietro le sbarre gli anni della crescita di suo figlio, il suo ottimismo partenopeo lo porta verso un futuro che sono certo sarà migliore del suo passato.

Slimane è evaso, è fuggito in Marocco. Gli mancavano solo un paio d’anni e questa evasione è difficile da spiegarsi se non per l’inquietudine che lo accompagnava. Ogni tanto diceva di non farcela più… Il personaggio di Slimane apre e chiude il film.
Ormai aveva maturato il diritto a un permesso premio senza accompagnatore. Un cugino è venuto a prenderlo per portarlo a Perugia qualche giorno. Dopo essere andato alla caserma dei carabinieri a firmare, guadagnando ventiquattro ore, ha fatto perdere le sue tracce. Pensiamo che sia in Marocco, dove non esistono accordi per l’estradizione.
Non avrebbe senso per me giudicare le sue azioni, non ne so abbastanza, ma non posso che essere felice di saperlo finalmente libero, nel suo paese, con la sua famiglia.
La cosa straordinaria è che dopo la fuga, controllando il materiale da lui girato, abbiamo trovato una lunga ripresa notturna, fatta all’interno della sua cella. Con un notevole gusto dell’immagine e una “regia” davvero efficace, si è ripreso riflesso sul vetro della finestra che dà sul grande cortile interno della prigione, attraverso le sbarre. Un lungo monologo in arabo. Abbiamo chiesto a Rachid di tradurlo e il risultato è stato sorprendete. Slimane in quel momento di solitudine e disperazione racconta la sua storia. Alla luce delle decisioni che poi ha preso questa testimonianza rappresenta una specie di testamento spirituale, l’ultimo atto della sua partecipazione al progetto FUORI FUOCO. Un finale da brivido!
Da film maker a film maker: grazie amico.

Durante il festival di Cannes del 2010, poco prima della proiezione del film di Sabina GuzzantiDraquila – l’Italia che trema”, incontrai per l’ultima volta Hector Babenco. Erano passati dodici anni da quando avevamo lavorato insieme a Venezia, dieci dall’incontro a Rio.
Cannes riproponeva alcuni suoi film nella sezione “Classics”. Fui molto contento di quell’incontro fortuito, anche perché con un certo orgoglio gli potevo dire che ero invitato al festival come “produttore di un film della selezione ufficiale”.

Hector Babenco a Cannes
Hector Babenco a Cannes

Gli presentati Sabina e poi rimanemmo a parlare per un po’. Mi venne in mente, e glielo ricordai, una storia personale che mi aveva raccontato dodici anni prima a Venezia. Riguardava una donna che aveva lasciato un segno profondo nella sua giovinezza. Molti anni dopo l’aveva incontrata in Brasile. Hector era ormai un regista affermato, con una nomination all’Oscar. Inizialmente l’incontro era stato molto emozionante ma poi la cosa aveva preso una piega inaspettata. La sua antica fiamma gli aveva ricordato un episodio della loro giovinezza nel quale avevano fatto l’amore in modo particolarmente passionale e poi lui l’aveva accompagnata a casa con un vecchio pick up…
Già alcuni particolari del racconto non tornavano, ma a quel punto Hector aveva capito che, nel ricordo, il “grande amore della sua vita” lo aveva confuso con un altro. Lui non aveva mai avuto un pick up! E pensare che per quella donna aveva corso dei rischi gravissimi, ritardando la partenza dall’Argentina, suo paese natio: solo per una serie di fortuite causalità era scampato all’arresto ed era fuggito, prima in Italia, poi in Brasile dove sarebbe vissuto fino alla sua morte.

Dopo quell’incontro a Cannes ho ripreso i contatti con Hector, ma in due successive occasioni non siamo riusciti a incontrarci a Sao Paulo, quando fui invitato al festival nel 2013 (con “Un minuto de silencio”) e nel 2014 (con “Vinodentro”).

vinodentro

La prima volta Hector non era in città, la seconda era in ospedale. Evidentemente non era destino che le nostre strade s’incrociassero ancora se non nel mondo virtuale della memoria che qui viene fermata e diventa una piccola storia.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

Ferdinando Vicentini Orgnani

CONTAMINAZIONI n° 5 – LA CONVERSAZIONE… e le origini del NOIR a casa di Dashiell Hammett.

Essere fermati dalla polizia stradale negli Stati Uniti può essere una brutta esperienza, proprio come accade in molti film. Nell’immaginario collettivo, quando un poliziotto americano ti ferma e chiede i documenti, già si mette male… se poi dice:
“Sir… step out of the car.” beh, allora sono c…i!
La stessa situazione in America Latina, in Africa, in buona parte dell’Europa dell’Est, si potrebbe facilmente risolvere con una transazione. Negli anni mi è successo a Kiev, in Tanzania e in Bolivia, dove me la sono cavata con una media di 50 Euro.
Per un italiano, abituato a cercare sempre “una soluzione”, queste modalità, magari discutibili da un punto di vista etico, sono più congeniali dell’inflessibilità anglosassone, anche se in Italia non mi è mai giunta voce di corruzione palese della polizia stradale.
Il tentativo di corrompere un poliziotto americano può portare a dei seri guai, in alcuni casi a conseguenze estreme, come succede al personaggio che Steve Buscemi interpreta in “Fargo“.

FARGO, Peter Stormare, Steve Buscemi, 1996
FARGO, Peter Stormare, Steve Buscemi, 1996

La banconota da cento dollari, infilata “per caso” tra i documenti nella speranza che il funzionario non proceda con l’accertamento, porta a un netto peggioramento della situazione e all’intervento risolutivo del personaggio interpretato da Peter Stormare (delinquente psicopatico seduto al fianco di Buscemi) che senza pensarci due volte fredda l’agente con un colpo di pistola e poi stermina una famigliola di sfortunati passanti per non avere testimoni.

Dopo un viaggio in macchina di sette ore da San Francisco a Los Angeles, ero arrivato a casa di un vecchio amico, Alessandro Jacchia, un produttore televisivo che ha colto al volo l’invito di insegnare in una prestigiosa università americana per lasciare definitivamente Roma e trasferirsi in California.

Il produttore Alessandro Jacchia
Il produttore Alessandro Jacchia

Era passato qualche anno dall’ultimo incontro e siamo rimasti a parlare fino all’una di notte, riflettendo sull’ingenuità della nostra scelta di fare i produttori in Italia, in un sistema chiuso e troppo rischioso, dove la burocrazia kafkiana, il ritardo cronico nei pagamenti della pubblica amministrazione, le vessazioni subite da Equitalia, la crisi del sistema bancario, hanno portato molte importanti realtà produttive alla canna del gas o al fallimento, in tutti i settori, non solo nell’audiovisivo.

Con le bottiglie di un ottimo Tempranillo aperte durante la cena avevamo sicuramente un tasso alcolico molto al di sopra del livello consentito… e prima di andarmene, mentre salivo in macchina, mi sono sentito dire:

“Attento alla polizia. Se ti fermano sono guai…”

Con questo monito profetico mi sono avventurato sulla highway che mi avrebbe portato verso l’aeroporto.

Mi sentivo sicuro alla guida, ma non conoscendo bene il tragitto devo aver avuto qualche esitazione, passando da una corsia all’altra mentre seguivo il navigatore con la coda dell’occhio… E’ bastato questo a far materializzare dal nulla i lampeggianti di una volante alle mie spalle. Con un megafono mi venivano impartiti ordini semplice e perentori da una voce distorta, senza aggressività, ma con un tono certamente inquietante per un italiano sperduto nella notte su un’autostrada a sei corsie della California. Ho svoltato alla prima uscita come mi veniva ordinato dall’anonima voce gracchiante alle mie spalle e mi sono ritrovato in una zona industriale completamente deserta, dove ho fermato la macchina.

Ho avuto un attimo di panico: in un luogo come quello, nel cuore della notte, poteva succedere qualsiasi cosa… ma poi, grazie a una misteriosa combinazioni di fattori, ho ritrovato il sangue freddo. Il primo pensiero “Sono fregato” (la concreta prospettiva della prigione, un processo e un mare di guai) ha lasciato il posto a “Stai calmo. Non lasciarti intimidire… e ricordati che non sei in un film.”

Attraverso il finestrino ho consegnato la mia patente italiana.

Tra le varie cose, ho pensato alla leggerezza con la quale Sam Spade, l’investigatore privato uscito dalla penna di Dashiell Hammett, avrebbe affrontato la situazione. Non ero in pericolo di vita… Potevo passare dei guai, ma niente d’irreparabile.

Alla domanda se avevo bevuto dell’alcool ho risposto senza esitazione e con una calma che ha sorpreso me per primo:

“Un bicchiere di vino a cena.”

“Ho visto che ti spostavi da una corsia all’altra…” ha incalzato il poliziotto mettendo chiaramente in dubbio le mie parole.

“Mi sono perso. Stavo cercando la corsia giusta per non mancare l’uscita… Il navigatore non funziona bene. Da noi le autostrade hanno solo due corsie…”

Con la rivelazione che in Italia le autostrade farebbero ridere rispetto a quelle americane, il poliziotto ha avuto un moto di soddisfazione: meglio passare da provinciale che finire in galera. Ma ciò nonostante…

“Sir… step out of the car.”

Dal 2006 ho iniziato ad andare spesso a San Francisco, sia per le riprese di un documentario sul sessantotto prodotto da Cinecittà-Luce, che per un progetto con il Teatro di Roma e Lawrence Ferlinghetti (in collaborazione con Francesco Conz e Laura Zanetti), concretizzatosi poi nel 2008 con una serie di iniziative in vari teatri e biblioteche della capitale: “NOT LIKE DANTE – Lawrence Ferlinghetti a Roma”.

not-like-dante

Lawrence (che è nato il 24 marzo del 1919) all’epoca aveva già 89 anni, e seri problemi alla vista, tanto che quella del 17 maggio 2008 al teatro di Tor Bella Monaca (con la traduzione live di Giorgio Albertazzi e Michele Placido) è stata la sua ultima lettura pubblica ufficiale.

Al suo arrivo a Roma eravamo stati invitati in Campidoglio per un incontro/conferenza stampa con il neo eletto sindaco Gianni Alemanno che, pur ignorando chi fosse l’illustre ospite, fece un discorso molto convinto, imbeccato dal suo assessore alla cultura Umberto Croppi e dal giornalista Adalberto Baldoni, che gli avevano suggerito di non lasciarsi sfuggire l’occasione, se pure il progetto era nato con la precedete amministrazione di sinistra.

“Il più importante poeta americano vivente… Punto di riferimento e catalizzatore della beat generation… Editore di Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gergory Corso, Neal Cassidy…”

Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Gregory Corso al Greenwich Village
Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Gregory Corso

Lawrence era perplesso quando fu informato sull’appartenenza politica del sindaco, ma alla fine, quell’accoglienza affettuosa persino da parte dell’estrema destra, doveva aver convinto tutti sulla legittimità di un diritto trasversale alla cultura.

Tra le varie iniziative in programma c’era un’happening al Teatro India, con la lettura multimediale di “Underware” una poesia molto nota di Ferlinghetti…

 

I didn’t get much sleep last night

thinking about underwear

Have you ever stopped to consider

underwear in the abstract

When you really dig into it

some shocking problems are raised

Underwear is something

we all have to deal with

Everyone wears

some kind of underwear

Even Indians wear underwear

Negroes often wear white underwear

which may lead to trouble

The Pope wears underwear… I hope

… (continua)

 

Mentre sul palcoscenico Lawrence dipingeva con simboli e parole delle vecchie sottovesti, il poeta sardo Alberto Masala leggeva la sua traduzione italiana di “Underware”… seguita poi da un video proiettato su uno schermo sospeso dove, a City Lights (la storica libreria di Ferlighetti a San Francisco) Amanda Plummer (la ragazza con la pistola di Pulp Fiction) leggeva la stessa poesia in originale. Ho lavorato con Amanda nel 2002 quando partecipò al mio film sulla vicenda di Ilaria Alpi. Siamo diventati amici e da allora ogni tanto l’ho coinvolta in qualche iniziativa interessante.

Amanda Plummer in Pulp Fiction
Amanda Plummer in Pulp Fiction

La lettura sullo schermo di Amanda veniva poi ripetuta dal vivo da Ferlinghetti, mente sei ragazze, che nel frattempo avevano indossato le sottovesti dipinte, si aggiravano tra il pubblico offrendo vino. Sullo schermo intanto scorrevano le immagini del quartiere di North Beach con la presenza di altri amici poeti come Jack Hirshman e sua moglie Aggie Falk al caffè Trieste (all’angolo di Valejo Street a Grant Avenue), loro ritrovo abituale.

Durante una delle mie visite al suo studio, una warehouse alla periferia di San Francisco, Lawrence mi aveva regalato una sottoveste sulla quale aveva scritto in blu “I AM NOT YOUR MOTHER”.

sottoveste-dipinta

Negli anni abbiamo fatto parecchie riprese… una volta anche mentre guidava il suo pick up rosso e quasi finivamo fuori strada per evitare un tamponamento: i problemi alla vista erano cominciati. Ciò nonostante quel giorno era di ottimo umore e stranamente si era persino prestato a una vera a propria intervista (cosa che normalmente rifuggiva) fuori dal caffè Trieste, nella quale racconta di quando Gregory Corso era stato sorpreso a rubare nella sua libreria. Non era stato lui a sporgere denuncia, anzi, lo aveva subito avvertito che la polizia lo stava cercando e lo aveva consigliato di filarsela per un po’… E fu allora che Gregory Corso partì per l’Italia dove sarebbe rimasto in esilio per più di un anno.

Ferlinghetti al Caffé Trieste
Ferlinghetti al Caffé Trieste

Il Teatro di Roma aveva il budget per il viaggio e l’ospitalità di Ferlinghetti ma per il resto delle spese ci avevano pensato una giovane coppia di filantropi di San Francisco, Robert Anderson e Nìcola Minor, che avevo conosciuto grazie a un comune amico. La loro fortuna è legata alla compagnia di computer Oracle, fondata dal padre di Nicola, Bob Minor, nel 1977.

Robert è uno scrittore, sceneggiatore, attore e anche produttore cinematografico, appassionato di Jazz e di poesia: una sensibilità artistica, combinata a grandi possibilità economiche può essere una fortuita combinazione. Il mecenatismo è abbastanza diffuso negli Stati Uniti, mentre da noi è più raro. La coscienza di essere parte di un tessuto sociale e di poter contribuire a migliorarlo investendo un po’ della propria fortuna al servizio della collettività dovrebbe essere una cosa normale e logica, ma l’egoismo e l’individualismo sono molto più diffusi della generosità.

Tra le varie cose che Robert e Nìcola fanno a San Francisco, oltre alla normale beneficenza e al sostegno del festival della poesia e del Jazz, c’è anche il recupero e la valorizzazione del patrimonio della città, a volte ignorato dalla pubblica amministrazione per miopia o per disinteresse. E’ questo il caso dell’appartamento di Dashiell Hammett all’891 di Post St, interno 401, dove il grande scrittore ha abitato dal 1922 e ha scritto i suoi romanzi (tra i quali il celeberrimo “The Maltese Falcon”). La ristrutturazione è stata fatta con l’intento di creare un’atmosfera e ogni dettaglio è stato curato con passione e precisione, per dare al visitatore la sensazione di essere ancora negli anni venti.

Durante il mio ultimo viaggio a San Francisco (pochi giorni prima dell’incontro con la polizia stradale a Los Angeles) Robert e Nìcola erano in Giappone con i loro quatto figli, per cui non ci saremmo potuti incontrare.

robert-in-giappone

E’ stata però una bella sorpresa ricevere l’offerta di utilizzare per qualche giorno l’appartamento di Hammett a Post Street invece che andare in albergo.

foto-1

Nonostante la cucina sia perfettamente funzionante ho preferito evitarne l’utilizzo… tra il vecchio grammofono a tromba, il telefono a manovella, il lampadario di alabastro la sensazione del “museo” rimane dominante… e così, appena sveglio, sono uscito per fare colazione.

foto-3 foto-2

Ero arrivato la sera prima, lasciando la macchina in un garage dietro l’angolo, e non avevo ben capito dov’ero… ma fatti pochi passi mi sono ritrovato a Union Square, una piazza che ho ben impressa nella memoria poiché teatro della scena chiave di un grande film di Francis Ford Coppola “The Conversation” (1974) vincitore della Palma d’Oro a Cannes.

Harry Caul, un investigatore privato, esperto di sistemi di sorveglianza… viene incaricato da un potente uomo d’affari di spiare una coppia di amanti. I due s’incontrato durante la pausa pranzo a Union Square e parlano mentre si muovono tra la gente, inconsapevoli che le loro parole vengono registrate da diversi microfoni in movimento, azionali dagli uomini di Caul.

the-conversation-movie-poster-1974-1020299110

Gene Hackman ci regala una magistrale interpretazione del protagonista, un uomo solo e complesso, nella tradizione di Sam Spade, che dimostra però un disperato bisogno d’amore e una contraddittoria debolezza ancora non pensabile per lo stile hard bolied di Hammett. Si potrebbe dire che Harry è l’evoluzione Sam, nello spazio di una cinquantina d’anni, nello stesso quartiere della città.

Union Square a San Francisco
Union Square a San Francisco

Il montaggio del suono del film, curato dal mitico Walter Murch, è pieno d’invenzioni straordinarie.

Una volta rientrato nel suo laboratorio Harry comincia a “ripulire” la conversazione registrata a Union Square, isolando le frequenze fino a raggiungere quella che sembra essere l’anima delle parole… fino a capire, com’è già successo in passato, che anche questa volta il suo lavoro potrebbe mettere in pericolo la vita delle persone coinvolte, in questo caso la coppia di giovani amanti. Il passato pesa su Harry Caul come una pietra e non gli permette mai di rilassarsi. Quando viveva a New York, era riuscito a registrare la conversazione tra il capo di un potente sindacato e il suo contabile: i due parlavano solo quando andavano a pescare, su una barca a prova di microspie. Ma lui era riuscito nell’impresa scoprendo che avevano costituto un fondo segreto e illegale. Il contabile e la sua famiglia al completo erano stati uccisi per quelle rivelazioni e da allora Harry, perseguitato dal senso di colpa, si era trasferito a San Francisco.

Il film è meraviglioso. Perfetto. Una sceneggiatura geniale, piena di vasi comunicanti, che pur complicando la storia e la psicologia dei personaggi, procede con grande rigore e chiarezza, utilizzando soluzioni sorprendenti come la scena del sogno… dove Harry cammina solitario in un paesaggio desolato e nebbioso, mente la sua voce fuori campo si perde in strani e inquietanti ricordi d’infanzia… oppure la scena in chiesa, quando il protagonista sente l’impellente necessità di una confessione se pure reticente, come se il vuoto e la miseria umana della sua vita terrena lo facesse sperare per un attimo in una forza superiore con la quale rapportarsi, alla quale potersi affidare per un attimo, così da sfuggire al vuoto della sua mancanza di certezze, alla solitudine opprimente che lo circonda.

Gene Hackman nel film "The Conversation"
Gene Hackman nel film “The Conversation”

Anche i personaggi femminili del film di Coppola sono facilmente riconducibili agli archetipi di Hammett: donne senza scrupoli che usano il proprio fascino per confondere le capacità critiche del protagonista, che mentono spudoratamente, che spariscono all’improvviso… ma che in fondo non sono da condannare, anche loro vittime di un mondo feroce e impietoso.

Indimenticabile la scena in cui Harry per un attimo sembra dimenticarsi della sua sfiducia cronica nel mondo, e si confida con una donna che ha appena incontrato… Le parla di un’altra donna, quella che l’ha appena abbandonato proprio per la sua incapacità di fidarsi, per la sua ossessiva riservatezza. Cerca risposte che nessuno gli può dare: le sue inutili domande piene di disperazione a quella sconosciuta che rappresenta l’universo femminile, ci fanno provare per lui una grande tenerezza, nonostante sia un personaggio così schivo e sfuggente.

Come Sam Spade, Harry Caul è l’uomo delle occasioni perdute, destinato alla solitudine… l’uomo che può aspirare solo a qualche sporadico istante di felicità, come un raggio di sole che scalda per un attimo un angolo freddo. La sua unica possibilità di sopravvivenza è la dimensione mitologica dell’eroe solitario che con la sua forza di volontà si oppone alle avversità del mondo, fuori e dentro di se. Il mito di Ulisse ritorna sempre, si rinnova e prende altre sembianze, ma l’essenza rimane.

Mentre camminavo per tornare all’appartamento di Hammett a Post Street, le immagini e le suggestioni del film di Coppola mi tornavano alla mente… e quando sono entrato in casa l’atmosfera mi ha portato ancora più indietro nel tempo, dagli anni settanta agli anni venti. Seduto alla scrivania di Hammett, davanti alla vecchia macchina da scrivere Royal… ho iniziato a leggere “Il Falcone Maltese“, nell’esatto punto in cui il romanzo è stato scritto.

L'autore dell'articolo Ferdinando Vicentini Orgnani
L’autore dell’articolo Ferdinando Vicentini Orgnani

Sono convinto che qualche frammento di quel mondo, di quelle suggestioni appena vissute, mi sia venuto in aiuto durante l’incontro con la polizia stradale a Los Angeles… Rispetto ai guai di Sam Spade, quello che avrei dovuto affrontare era abbastanza semplice.

Ma ecco la scena…

LOS ANGELES, ZONA INDUSTRIALE – EST NOTTE

“Sir… step out of the car.”

Quando sono uscito dalla macchina il poliziotto mi ha spigato quello che avrei dovuto fare: seguire con lo sguardo il movimento di una penna, mentre con una piccola torcia elettrica illuminava i miei occhi alla ricerca di un’esitazione, di un’assenza, di una mancanza di riflessi che giustificasse un intervento più approfondito. Ho capito che in quel momento non era il caso di chiedere spiegazioni o mostrare una qualsiasi debolezza e così, quando mi ha chiesto se era tutto chiaro, ho semplicemente annuito con calma.

Pochi minuti dopo ero di nuovo libero sulla high way a sei corsie, con la sensazione di aver superato una prova importante ma senza sapere esattamente come. Tutti i miei amici americani, ascoltando il racconto nei giorni a seguire, erano allibiti, non potevano credere che il poliziotto mi avesse risparmiato.

Il commento più comune è stato: A miracle!

E’ possibile e che dopo aver bevuto un litro di Tempranillo, assieme a una lieve ebrezza si possa raggiungere una specie di calmo distacco dal mondo, uno stato di atarassia che con un po’ di fortuna può essere preso per sicurezza, per confidenza in se stessi… o forse lo spirto di Dashiell Hammett con il quale ho abitato per qualche giorno, mi è stato vicino in quel momento non facile, e come ha sempre trovato una via d’uscita per i suoi personaggi in situazioni disperate mi ha guidato come un angelo custode, facendomi trovare il giusto stato d’animo, quella calma apparente che mi ha salvato.