Filmmaker Festival – SPARTA di Ulrich Seidl e LA MISURA DEL CORAGGIO

Ulrich Seidl torna a FILMMAKER con “Sparta”, proiettato ieri , martedì 21 novembre, in prima italiana fuori concorso. 

Tra gli ospiti più attesi dell’edizione 2023, Ulrich Seidl è tornato a FILMMAKER per presentare in anteprima italiana il suo ultimo Sparta, alla Cineteca Arlecchino. Il regista austriaco, cui il festival ha dedicato la prima personale italiana e un successivo focus, costruisce qui una sorta di controcampo dark di Rimini (2022) a formare idealmente un inquietante racconto famigliare collettivo. Sparta sposta l’attenzione dal cantante Richie Bravo, protagonista del primo film, al fratello Ewald, un ingegnere che ha lasciato la casa natale in Austria per trasferirsi in Romania. Se Richie è un’anima perduta nel cinismo dei suoi fallimenti, Ewald è segnato da un’infanzia di violenze, soffocata da un passato rimosso, come quello del suo paese.

Si può essere vittime e al tempo stesso persecutori? La risposta in qualche modo è implicita ma il percorso è complesso, sfuggente, pieno di rischi e di ambiguità che fanno di questo film il più ambizioso nella ricerca del regista, e il più controverso nel racconto dei paradossi umani.

 

 

Alla stessa ora all’Arcobaleno Film Center Bruno Bigoni e il Gruppo Maelstrom, un collettivo di giovani filmmaker attivi a Milano, hanno presentato in prima mondiale fuori concorso il docufilm La misura del coraggio: tre ragazze vogliono raccontare la Resistenza in Val di Susa dalla parte delle donne mentre un’altra troupe le filma al lavoro, in un gioco di specchi alla ricerca di uno sguardo femminile sulla Storia e sul cinema. Agli scritti di Ada Prospero Gobetti che è stata partigiana in quei luoghi, si intrecciano le voci di altre donne che abitano la valle e nel loro quotidiano mettono in campo nuove forme di resistenza, dalle lotte contro i cantieri della Tav all’aiuto ai migranti che attraversano la frontiera con la Francia.

Sempre nella giornata di martedì 21 si sono aperte le porte anche della terza sede del festival, Anteo Palazzo del Cinema, che fino al 23 novembre ospiterà FILMMAKER EXPANDED, la sezione sulla realtà virtuale e immersiva realizzata insieme ad AN-ICON, gruppo di ricerca dell’Università degli Studi di Milano.

L’iniziativa prevede il concorso Gradi di Libertà dedicato alle opere italiane e un programma internazionale con una sezione monografica sulla pluripremiata autrice sudcoreana Gina Kim: per la prima volta a Milano verrà mostrata l’intera trilogia –  Bloodless (2017), Tearless (2019), Comfortless (2023) – di opere in realtà virtuale sulle cosiddette “US military comfort women”, le “donne di conforto” coreane destinate ai militari statunitensi che venivano reclutate in tutta la Corea del Sud per soddisfare sessualmente i membri delle forze armate. Un percorso feroce e intimo che mira a decostruire una duplice forma di potere e sopruso (degli uomini sulle donne e di un popolo su un altro) catapultando l’user direttamente al centro dell’azione, senza l’ausilio di informazioni o sintesi narrative pregresse.

Il Premio Gradi di Libertà per la migliore opera italiana in VR, del valore di 2000 €, e il Premio Rai Cinema Channel, del valore di 3.000 €, consistente in un contratto di acquisto dei diritti web dell’opera per tre anni da parte di Rai Cinema, verranno assegnati nella serata conclusiva del festival da una giuria ufficiale, domenica 26 novembre alle 21.30 all’Arcobaleno Film Center.

 

 

 

 

 

Francesca De Santis

KILLERS OF THE FLOWER MOON – Martin Scorsese

Dove: In sala
Genere: Drammatico
Regista: Martin Scorsese
Nazione: USA
Interpreti : Robert De Niro, Leonardo Di Caprio, tra molti altri
Durata: 206 minuti

Nel 1920 una tribù di nativi americani, gli Osage, viene massacrata. L’FBI indaga e risolve uno dei casi più difficili della storia.
Gli Osage avevano scoperto sotto il proprio territorio enormi giacimenti petroliferi e da quel momento avevano dovuto fare i conti con uno stuolo di uomini bianchi desiderosi delle loro ricchezze.
Basandosi sul libro con lo stesso titolo, Scorsese, come in altri film, scava sul cinismo e l’avidità di conquista dei bianchi.
Un cast spettacolare e bellissime sequenze tengono legati allo schermo per più di tre ore. Ma non manca un’ansia mossa dal senso di ingiustizia che attraversa tutta la pellicola.
Da vedere. Uno dei must del 2023.
Voto: 10

 

Pia Larocchi

APOLLO 11

L’APPUNTAMENTO PER RIVIVERE, “IN PRESA DIRETTA” E PER LA PRIMA VOLTA AL CINEMA, LA STORICA MISSIONE DELLA NASA CON IMMAGINI INEDITE NELLA STRAORDINARIA DEFINIZIONE DEL FORMATO 70 MM. Il racconto di quel viaggio epico, con immagini mai viste prima recuperate dagli archivi US, sarà nelle sale italiane solo il 9, 10, 11 settembre.

All’inizio della proiezione in anteprima mondiale, il pubblico del Sundace Festival deve essere rimasto incredulo: perché le immagini di APOLLO 11, l’evento cinematografico proposto nelle sale per l’anniversario dello sbarco sulla Luna, sembrano girate una manciata di settimane fa tanto straordinaria è la qualità che le contraddistingue.

Quando 50 anni fa, nel 1969, la missione Apollo 11 si avviò verso lo spazio, vennero infatti girate centinaia di ore di immagini in formato 70 mm: pellicole straordinarie riscoperte solo recentemente da un archivista del Nara (National Archives and Records Administration), l’agenzia statunitense che si occupa di preservare documenti governativi e storici. Immagini che il regista Todd Douglas Miller non ha esitato a definire “la collezione di riprese di miglior qualità sulla missione Apollo 11”.

Da quello stesso archivio, sono state anche recuperate circa 11mila ore di dialoghi Nasa sulla missione. Grazie a questo incredibile materiale digitalizzato in 4K, Todd Douglas Miller ci conduce direttamente nel cuore della più celebre missione della NASA, quella che per prima ha portato l’umanità sulla Luna, consegnando alla Storia gli astronauti Neil Armstrong e Buzz Aldrin, i primi a toccare il suolo lunare, assieme a Michael Collins, pilota del modulo di comando.

Per rivivere quelle ore e quei giorni epici che hanno dato vita a un’infinità di film caposaldo della storia del cinema, arriva nelle sale italiane  solo il 9, 10, 11 settembre APOLLO 11, che al Sundance Film Festival 2019 si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria Documentari per il Miglior Montaggio.

Proprio quel montaggio serrato ci permette di rivivere, nel senso più stretto del termine, quei momenti di 50 anni fa, facendoci immergere nella prospettiva degli astronauti, della squadra ‘Mission Control’ e dei milioni di spettatori sintonizzati sulla terra, con tutta l’adrenalina di quei giorni e la tensione di quelle ore memorabili in cui il genere umano fece un balzo gigantesco verso il futuro.

Con immagini fedelmente digitalizzate in 4K, mai viste prima, progettate sin dalle origini per essere guardate sul grande schermo, e con una colonna sonora elettronica “propulsiva”, il regista Todd Douglas Miller (premiato agli Emmy per Dinosaur 13) trasporta letteralmente il pubblico sulla Luna e gli fa fare ritorno sulla Terra attraverso una sbalorditiva ed entusiasmante documentazione della storica missione.

Acclamato come nuovo punto di riferimento nel cinema documentario, APOLLO 11 a 50 anni esatti dallo Sbarco sarà distribuito nelle sale cinematografiche italiane solo il 9, 10, 11 settembre 2019 da Nexo Digital .

Comunicato stampa Luana Solla

THE HOUSE THAT JACK BUILT

Jack può fare tutto: trascinare un cadavere sulla strada e avere un temporale che cancella ogni traccia; uccidere due bambini davanti alla madre; farsi un portafogli con una mammella; trasportare decine di cadaveri in piena città e non essere visto. Si vede che Jack è come un regista: indiscutibile e magistrale, padrone o master del suo campo. Solo una cosa gli è negata da Von Trier, che è il regista del regista: uccidere sei persone con un solo proiettile. Prima perché il proiettile non è un full metal jacket, e bisogna cambiarlo (questo implica una perdita di tempo); poi perché il mirino del fucile non mette a fuoco il bersaglio, che è troppo vicino (questo implica non sparare più). A questo punto si apre la seconda porta e appare Verge, cioè Bruno Ganz. Ganz è stato l’angelo umanizzato del Cielo sopra Berlino e ora è Virgilio, con gli abiti ottocenteschi di una specie di Dr Watson. Jack – che ha già indossato una cappa vermiglia per l’ultima strage – diventa un perfetto Dante. A questo punto inizia la catabasi, ma è un altro discorso. Jack può fare quello che vuole, in modo simbolico e paradossale – cioè impunemente –, come Christian Bale in American Psycho. Ma perché il regista – regista del regista, architetto dell’architetto – gli nega l’ultima strage? Guardiamo meglio. In realtà c’è un’altra cosa che sfugge a Jack. È proprio the House. The House viene costruita e demolita più volte, all’aperto, nella forma di una casa classica. The House sarà costruita solo alla fine, con i cadaveri congelati, e non all’aperto. Sarà paurosa e non classica; e sarà paurosamente simile ad un igloo di Mario Merz (e uno dei grandi igloo di Merz ha come insegna un cadavere: un cervo). Di fatto è un’installazione museale. Un’opera di Merz (per la forma) e di Spoerri (per la materia organica). Ed è facile pensare che sia volutamente un’opera museale, che sta al chiuso, in una cella frigorifera (prima destinata alle pizze: parodia e secondo nome delle grandi bobine di pellicola). In pratica: la grande cultura è roba da frigorifero, preparata maniacalmente e destinata a rimanere al chiuso. All’esterno di questo Museo Ghiacciato, Jack è un fallito, ed è un fallito proprio nella sua missione artistica. Quindi: Jack fallisce come architetto all’aperto e vince come architetto al chiuso; vince come massacratore di una persona alla volta (all’aperto), ma perde come stragista (al chiuso). Quando perde come stragista (al chiuso), vince come architetto (sempre al chiuso), e quando perde come stragista e vince come architetto, allora si manifesta Verge (che c’è sempre stato, con il suo stile da Watson, in secondo piano; ma non si è mai fatto vedere, né all’aperto né al chiuso: non era il suo tempo). Quando si manifesta Verge, Jack diventa Dante. Quando tutti e due si manifestano – uno come duca e uno come poeta – il film rallenta. Rallenta, letteralmente: nelle immagini e nel suono, fino all’abominio di Hit the Road, Jack rallentata nei titoli di coda. Il rallentamento implica che siamo nel campo dei Novissimi. Torno alla domanda fondamentale: perché Jack può tutto ma non può uccidere sei persone al chiuso, con un colpo solo? Vediamo: sei individui sono stati catturati singolarmente, e sono le prime prede vive di Jack. In altre parole: Jack sbaglia a portare la vita dentro il suo museo, per ucciderla; la vita deve essere uccisa fuori e portata, morta, al chiuso; la vita deve essere uccisa con una certa improvvisazione, e non con troppa programmazione; anche the House all’aperto viene costruita con un eccesso di programmazione, e non può essere mai finita. Al chiuso – tra le pizze, nel gelo, senza Sole, e quindi in una specie di casa del Vampiro – the House è fattibile, ma – attenzione – può essere fatta solo con materia morta. Nessun vivo può essere ucciso in questo luogo chiuso. Nemmeno lo stesso Jack può morire nel Museo Ghiacciato, e – a quanto pare – Jack scende all’inferno da vivo. Adesso ci siamo. Jack è il solito genio, uno di noi professionisti. E sbaglia quando vuole essere contemporaneamente vivo e creativo, improvvisatore e programmatore. Sbaglia quando vuole agire da artista nel mondo (all’aperto), e sbaglia quando vuole agire da umano nel museo (al chiuso). È uno schema molto semplice, un po’ come l’amico di Tonio Kröger che si chiude in un locale quando arriva la primavera inesorabile. All’esterno del Museo, il vampiro può solo cercare prede, ma non può innalzare una casa tradizionale. Nel Museo, si può costruire l’igloo di Merz, ma non è the House tradizionale. Ammetteremo, da creativi, di essere un po’ mostruosi? Ma certo. Se lo fa Von Trier possiamo farlo anche noi. Che poi ci si senta in colpa, isolati e isolabili, contemporaneamente vincenti e perdenti – e che tutto questo non piaccia – è un altro discorso. In fondo, a noi vampiri, ci piace un po’ di autocritica, stimolata da gente che vediamo al nostro Livello: Virgilio, per esempio, con il viso di un grandissimo Ganz. Niente di meno? Niente di meno.

Massimo Sannelli

THE HOUSE THAT JACK BUILT

Jack può fare tutto: trascinare un cadavere sulla strada e avere un temporale che cancella ogni traccia; uccidere due bambini davanti alla madre; farsi un portafogli con una mammella; trasportare decine di cadaveri in piena città e non essere visto.

Si vede che Jack è come un regista: indiscutibile e magistrale, padrone o master del suo campo. Solo una cosa gli è negata da Von Trier, che è il regista del regista: uccidere sei persone con un solo proiettile. Prima perché il proiettile non è un full metal jacket, e bisogna cambiarlo (questo implica una perdita di tempo); poi perché il mirino del fucile non mette a fuoco il bersaglio, che è troppo vicino (questo implica non sparare più).

A questo punto si apre la seconda porta e appare Verge, cioè Bruno Ganz. Ganz è stato l’angelo umanizzato del Cielo sopra Berlino e ora è Virgilio, con gli abiti ottocenteschi di una specie di Dr Watson. Jack – che ha già indossato una cappa vermiglia per l’ultima strage – diventa un perfetto Dante. A questo punto inizia la catabasi, ma è un altro discorso. Jack può fare quello che vuole, in modo simbolico e paradossale – cioè impunemente –, come Christian Bale in American Psycho.

Ma perché il regista – regista del regista, architetto dell’architetto – gli nega l’ultima strage? Guardiamo meglio. In realtà c’è un’altra cosa che sfugge a Jack. È proprio the House. The House viene costruita e demolita più volte, all’aperto, nella forma di una casa classica. The House sarà costruita solo alla fine, con i cadaveri congelati, e non all’aperto. Sarà paurosa e non classica; e sarà paurosamente simile ad un igloo di Mario Merz (e uno dei grandi igloo di Merz ha come insegna un cadavere: un cervo). Di fatto è un’installazione museale. Un’opera di Merz (per la forma) e di Spoerri (per la materia organica). Ed è facile pensare che sia volutamente un’opera museale, che sta al chiuso, in una cella frigorifera (prima destinata alle pizze: parodia e secondo nome delle grandi bobine di pellicola). In pratica: la grande cultura è roba da frigorifero, preparata maniacalmente e destinata a rimanere al chiuso.

All’esterno di questo Museo Ghiacciato, Jack è un fallito, ed è un fallito proprio nella sua missione artistica. Quindi: Jack fallisce come architetto all’aperto e vince come architetto al chiuso; vince come massacratore di una persona alla volta (all’aperto), ma perde come stragista (al chiuso). Quando perde come stragista (al chiuso), vince come architetto (sempre al chiuso), e quando perde come stragista e vince come architetto, allora si manifesta Verge (che c’è sempre stato, con il suo stile da Watson, in secondo piano; ma non si è mai fatto vedere, né all’aperto né al chiuso: non era il suo tempo). Quando si manifesta Verge, Jack diventa Dante. Quando tutti e due si manifestano – uno come duca e uno come poeta – il film rallenta. Rallenta, letteralmente: nelle immagini e nel suono, fino all’abominio di Hit the Road, Jack rallentata nei titoli di coda. Il rallentamento implica che siamo nel campo dei Novissimi.

Torno alla domanda fondamentale: perché Jack può tutto ma non può uccidere sei persone al chiuso, con un colpo solo? Vediamo: sei individui sono stati catturati singolarmente, e sono le prime prede vive di Jack. In altre parole: Jack sbaglia a portare la vita dentro il suo museo, per ucciderla; la vita deve essere uccisa fuori e portata, morta, al chiuso; la vita deve essere uccisa con una certa improvvisazione, e non con troppa programmazione; anche the House all’aperto viene costruita con un eccesso di programmazione, e non può essere mai finita.

Al chiuso – tra le pizze, nel gelo, senza Sole, e quindi in una specie di casa del Vampiro – the House è fattibile, ma – attenzione – può essere fatta solo con materia morta. Nessun vivo può essere ucciso in questo luogo chiuso. Nemmeno lo stesso Jack può morire nel Museo Ghiacciato, e – a quanto pare – Jack scende all’inferno da vivo. Adesso ci siamo. Jack è il solito genio, uno di noi professionisti. E sbaglia quando vuole essere contemporaneamente vivo e creativo, improvvisatore e programmatore. Sbaglia quando vuole agire da artista nel mondo (all’aperto), e sbaglia quando vuole agire da umano nel museo (al chiuso).

È uno schema molto semplice, un po’ come l’amico di Tonio Kröger che si chiude in un locale quando arriva la primavera inesorabile. All’esterno del Museo, il vampiro può solo cercare prede, ma non può innalzare una casa tradizionale. Nel Museo, si può costruire l’igloo di Merz, ma non è the House tradizionale. Ammetteremo, da creativi, di essere un po’ mostruosi? Ma certo. Se lo fa Von Trier possiamo farlo anche noi. Che poi ci si senta in colpa, isolati e isolabili, contemporaneamente vincenti e perdenti – e che tutto questo non piaccia – è un altro discorso. In fondo, a noi vampiri, ci piace un po’ di autocritica, stimolata da gente che vediamo al nostro Livello: Virgilio, per esempio, con il viso di un grandissimo Ganz. Niente di meno? Niente di meno.

Massimo Sannelli

SONO TORNATO

Dall’inconscio della nazione sorgerà un altro Mostro.

Non è il governo di oggi. È molto peggio. L’industria del cinema ci sta girando intorno: il futuro non è Andreotti in Sorrentino, non è Berlinguer in Veltroni, non è Berlusconi in Sorrentino, non è nessuna egemonia della Sinistra – basta vedere The Square, per capire che è un’egemonia molle, inter nos – e non è nemmeno la “Destra Sublime” di Pasolini, la più improbabile di tutte le destre.

No: l’industria del cinema ha interpretato il desiderio popolare di un Duce. Basta che non uccida il cane di una signora goffa – si capisce che il cane Filippo è il suo unico amore – e tutto sarà sopportato. Tutto significa proprio tutto. L’Italia vuole questo Duce; l’Italia dei nuovi italiani regolarizzati e onesti potrebbe anche appoggiarlo, perché garantirebbe la loro regolarità, come nuovi italiani; l’Italia dei giovani senza storia non sa di volerlo, ma se viene se lo prende. E solo la nonna può rispondere a Mussolini, ma è troppo anziana: può solo ricordare e ordinare l’uscita del farabutto dalla sua casa.

L’unica soluzione è la memoria degli ebrei. Ma il nuovo Duce non avrà nulla contro gli ebrei: si guarderà bene dal toccarli di nuovo. La sapienza e la resistenza degli ebrei non saranno più minacciate. L’antisemitismo è roba da maniaci, mentre il nuovo Duce praticherà un razzismo diverso, e non sarà un razzismo antisemita.

All’inizio di Sono tornato parla una ragazza assurda che dice: quando avrò il culo flaccido farò la moglie e la mantenuta. È come all’inizio di Quando c’era Berlinguer di Veltroni: parlano i giovani dell’Italia piana, per dimostrare a Veltroni che non c’è più memoria, e così Berlinguer è morto per sempre, come una reliquia rispettabile: come Scalfari che parla dalla sua terrazza romana. Anche alla fine di Belluscone di Maresco c’è un’apparizione di gente senza storia. Si vede che è un po’ un vezzo di noi intellettuali: far vedere che il popolo non conosce la storia. Ma il popolo vuole stare tranquillo e organizzarsi il presente, quindi la storia non conta.

La storia è un disturbo, e per noi intellettuali – diciamo la verità – è solo un interesse da curiosi. Il cinema non è poesia a tiratura limitata, pagata dall’autore. No: è fantasia industriale, fatta da professionisti. Per questo è un’arte un po’ ambigua, per statuto. È un’industria dura e un po’ impura, che manda in giro quattrocento copie di Sono tornato. La produzione e la distribuzione impegnano troppo denaro per cadere nella tiratura limitata del lirico. Basta che ci sia lo sponsor giusto e il film nasce: con uno sponsor un po’ più grosso, la Destra Non Sublime torna. Quanto a me, io vorrei come duce Edoardo Testori, il padre di Giovanni, quello che ordinò al figlio di chiedere perdono agli operai, dopo aver detto “io sono il figlio del padrone”. Ma di questo ritorno non vi è certezza, né traccia. Il cinema non ve lo farà mai sognare.

Non conviene: Edoardo Testori è troppo serio per la realtà. Edoardo Testori è troppo vero per essere bello, e nessuno lo vuole più. E il Caimano di Moretti, visto dopo anni – e “Micromega” fece uscire un fascicolo che si intitolava La primavera e anche FORZA NANNI? Invece non è un film politico. Strano non averlo capito allora. Ci sono due cose da dire. Prima cosa. Il centro del film non è Berlusconi.

Tre attori lo interpretano e solo uno gli assomiglia veramente, ma non è il migliore dei tre. Il più improbabile è Michele Placido: ostenta l’accento pugliese e bestemmia un po’ il nome di Gian Maria Volonté, come una caricatura dell’engagement. Il più credibile è Nanni Moretti, anche con la barba. Nel film ci sono i camei originali. Ecco: se parla l’Originale, i camei sono più cinema del cinema. Quello che disse Silvio Originale il 2 luglio 2003 al Parlamento Europeo è scritto da una regìa superiore a quella di Moretti. Le facce di Fini e di Buttiglione, insieme all’Originale, sono maschere larvali. Sono maschere di larve. E i tre attori non possono imitare lo scempio del 2 luglio 2003. Anche perché non era immaginabile. Uno Shakespeare disperato e lacero-contuso ha scritto questa scena; un automa in stile Carmelo Bene l’ha interpretata; due macchine attoriali, mute, l’hanno decorata bene. E ora? Come si imita questo scempio dell’arte, che è l’Arte? Non si imita. Popolizio imita bene Mussolini in Sono tornato, come Oliver Masucci è stato un perfetto Hitler in Lui è tornato. Il fatto è questo: Mussolini, che è un mostro come Hitler, non è un mostro variabile. Se c’è un dato di fatto dei due Duci è la coerenza. Per questo non è impossibile imitarli bene.

E così Volonté ha clonato Moro in Todo modo, ma nemmeno Moro è ambiguo: il suo rigore è proverbiale. Il punto è che un artista dell’imitazione va in crisi quando si tratta di imitare l’assoluto dell’ambiguità fuori controllo. Così Silvio Originale è irraggiungibile. Questi appunti sono indicativi e certi solo oggi. Cederanno quando qualcuno – un giorno – rifarà perfettamente Silvio Originale. Forse sarà possibile solo quando l’Originale non apparirà più: quando sarà impossibile che ogni giorno sia un’arena in cui fare e dire qualsiasi cosa. Quando l’arena sarà chiusa, e l’incoerenza ridotta al passato – e non ripetibile – forse l’arena sarà imitabile. In quel momento Silvio non sarà più Originale, ma assomiglierà a Hitler, Mussolini e Moro, nei rispettivi film: si potrà selezionare qualche aspetto, tralasciare qualcosa, esaltare un dato. Sembrerà anche un’arte sincera. E invece no: sarà una mistificazione, fatta bene; potrà avere anche qualche ambizione di onestà. Sarà troppo facile, allora, imitare Silvio. Invece no: la dittatura di Berlusconi è quella di chi è – ogni giorno – fuori controllo, come il 2 luglio 2003. Sì, va bene tutto, ma ora sto dicendo che Berlusconi Originale è un performer soggetto alle variabili dell’umore, dell’estro e delle dipendenze. Può essere. Meglio congedare l’idea. Cambiamo film. Seconda cosa. Alla fine, Moretti immaginava che l’inimitabilità del vero Mostro creava mostri minori; che il film della povera Teresa non si sarebbe mai fatto; e che Bonomo era perduto. Moretti deve aver intuito che senza Silvio Originale i Nostri Eroi della Fauna d’Arte diventano – come dire? – non inutili, ma superati. Imitano Berlusconi, più o meno bene.

Ma Berlusconi sarà sempre più originale, e in ogni momento sarebbe stato più imprevedibile di qualsiasi attore. La lingua scritta della realtà era più sonante nel cameo del 2 luglio che nelle fasi attoriali. Non c’è regista che tenga. Gli attori non ce la fanno. Gli attori fanno Berlusconi, e Berlusconi ridiventa un personaggio attenuato. Sì, ma l’Originale non è un tipo attenuato. E soprattutto non ha attenuanti di nessun tipo. Di qui la sua irriproducibilità, anche quando c’è Servillo ad imitarlo. Non si può imitare uno che oggi insulta Schulz e domani pianterà alberi in Sardegna. Che è massone ma “avrebbe fatto dire una messa per tutti i caduti, nella cappella privata della sua villa ad Arcore” (Enrico Deaglio, Besame mucho. Diario di un anno abbastanza crudele, 1995). Insomma: o il documentario o niente. Meglio il documentario che niente.

Massimo Sannelli