Nel 1958, il grande campione italo/argentino Juan Manuel Fangio, poco prima di una corsa automobilistica all’Havana, fu rapito dai rivoluzionari dell’M-26-7 (Movimento 26 luglio).
La definizione “italo/argentino” è riportata solo su alcuni siti italiani. In Argentina, come in Brasile, e in generale in America Latina, la nazionalità d’origine raramente viene menzionata: provenire da un altro luogo è una destino comune, e la nuova condizione prevale sul passato.
Tra il 1951 e il 1957 Fangio ha vinto ben cinque titoli mondiali. Solo in tempi recenti il suo record è stato superato da Michael Schumacher, ma la dimensione eroica, meno scientifica dei gran premi del passato, per molti giustifica ancora oggi la sua fama di “più grande pilota di tutti i tempi”. Rimane imbattuto il suo record di partenze in pole position.
Il rapimento durò solo 27 ore, il tempo necessario a impedire che Fangio salisse sulla sua Maserati per partecipare alla gara. Con quella corsa di Formula 1 all’Havana, Fulgencio Batista voleva dare lustro al suo governo, ma Fidel Castro, con un’azione fulminea e sorprendete, trovò il modo di usarla contro il regime del presidente/dittatore.
I rapitori, capeggiati da Faustino Pérez, fermarono Juan Manuel Fangio nella hall dell’hotel Lincoln. Stavano correndo un grosso rischio ad agire così allo scoperto al centro dell’Havana, ma contavano sull’effetto sorpresa. Pur essendo molto determinati, lo trattarono con soggezione e deferenza, arrivando persino a scusarsi per ciò che stavano facendo.
“Ci dispiace ma… Deve venire con noi.” e con un po’ in imbarazzo gli puntarono addosso una pistola. Fu portato in una casa, dove fu improvvisata una specie di festa per celebrare il buon esito del rapimento. Fangio era all’apice della sua popolarità, e molti dei ribelli/guerriglieri presenti erano suoi fan, appassionati di Formula 1. Firmò diversi autografi, rispose a qualche domanda, e ben presto fu distratto da quel clima amichevole che lo portò a fraternizzare con i suoi rapitori e con la loro causa. Fece presente che non aveva ancora cenato, così i rivoluzionari gli offrirono uova fritte e patate. Ci fu un grave incidente in quella gara sul Malecón, il circuito costiero dell’Havana: due auto uscirono di strada; sei morti. Fangio si convinse che quel rapimento lo aveva salvato dalla concreta possibilità di morire o di uscirne gravemente ferito. Un destino benevolo lo aveva protetto per mano della rivoluzione cubana.
L’azione ebbe un’enorme visibilità, maggiore persino della gara, e anche un lieto fine: una storia perfetta per la stampa di tutto il mondo. Fu un grande successo mediatico per i rivoluzionari.
Nel 1981, da tempo ormai lontano dalle corse, Fangio tornò all’Havana in rappresentanza della Mercedes Benz: fu accolto in pompa magna dal suo rapitore Faustino Pérez e da Fidel Castro, che si scusarono con lui per il rapimento del 1958.
Quando Fidel prese il potere, le corse automobilistiche, massima espressione del capitalismo, sponsorizzate delle multinazionali, furono abolite… ma la grande passione del popolo cubano per il sogno della velocità, non si è mai spenta. L’avventura di Fangio è uno dei molti frammenti della storia che ruota attorno allo strano mondo segreto dei motori a Cuba, raccontata molto bene nel documentario “HAVANA MOTOR CLUB” di Bent Perlmutt, un regista Newyorkese che ho incontrato in Florida.
Il film narra di uno sparuto e ostinato gruppo di appassionati “piloti della domenica”, gli eroici componenti dell’Havana Motor Club. La battaglia che portano avanti da anni sembra non temere ostacoli. Il loro obbiettivo e di poter finalmente uscire dalla clandestinità ed essere riconosciuti in una federazione. Le corse clandestine ci sono sempre state a Cuba, nonostante il divieto e il rischio di essere arrestati. Le difficoltà sembrano insormontabili, vissute in un isolamento quasi “carbonaro”. Qualche volta i pezzi di ricambio arrivano grazie alla disponibilità dei parenti, ora cittadini americani, che da Miami vengono in visita… ma il più delle volte per aggiustare o modificare le auto e i motori, l’unica possibilità è l’inventiva. Il potente motore di un motoscafo affondato, ripescato dal mare, viene adattato a un’auto da corsa: il look esteriore dello strano ibrido, un velocissimo bolide “mutante”, rimane quello di un pacifico modello degli anni cinquanta.
Le gare clandestine vengono organizzate in segreto, con un breve preavviso e mai in un vero circuito. Il massimo a cui i piloti del dell’Havana Motor Club possono aspirare, è una prova di velocità: due per volta si sfidano lanciando i loro bolidi in parallelo su un lungo rettilineo, e il più veloce vince. Al traguardo a volte ci sono risultati incerti, e in un caso, il materiale girato dalla diverse telecamere della troupe di Bent è stato determinate a individuare il vincitore della gara, un “fotofinish” improvvisato alla stazione di montaggio.
Ho sentito Bent Perlmutt qualche giorno fa: è in partenza per la Sierra Leone e il Congo, dove girerà un episodio per una serie sui “VIRUS” prodotta da Discovery Channel. Aveva tentato di dirottare il progetto verso il Brasile, per occuparsi del virus ZYCA… trasmesso da una particolare specie di zanzara. Sperava di starsene un mese a Rio e dintorni: una prospettiva decisamente più allettante che girare per una parte dell’Africa non proprio tranquilla in questo momento. Mi dispiace per Bent, ma gli hanno commissionato “EBOLA”. La curiosità di esplorare nuovi mondi prevale comunque sulle preoccupazioni, e non potrebbe essere che così per un documentarista: sarebbe sciocco ignorare il pericolo, ma nemmeno farsi condizionare troppo. Bisogna trovare quel giusto equilibrio, che anche a me è capitato di cercare in situazioni non proprio tranquille, attraversando i check point nei territori occupati in Israele, nelle township sudafricane, in località remote del Kenya, o fingendo di essere un turista in Bolivia per eludere i controlli del governo. Il “bravo documentarista” deve saper improvvisare, essere gentile e rispettoso, ma a volte anche risoluto, e non appena il “sesto senso” suggerisce che il limite è superato, meglio tagliare la corda. Sono certo che Bent se la caverà benissimo in West Africa e farà un bel lavoro.
La visione di HAVANA MOTOR CLUB mi ha fatto venire una gran voglia di andare a Cuba. Non ci sono mai stato, nonostante i miei molti viaggi in quella parte del mondo, ma c’è un motivo. Avevo programmato per ben due volte di andare a raggiungere un caro amico che stava lavorando come scenografo e si era stabilito all’Avana per quasi tre anni, con qualche visita sporadica a Roma, durante la quale non faceva altro che parlare di quel mondo che aveva idealizzato. Davide, all’Avana era felice.
Ormai parlava lo spagnolo/cubano quasi senza accento e si sapeva muovere con agilità tra le mille regole non scritte che determinano la complessa esistenza del popolo cubano.
In quegli anni Cuba era molto gettonata dalle produzioni italiane, cinematografiche e televisive, e molti “cinematografari” romani ci sono andati, con conseguenze spesso devastati per le loro famiglie, sfasciate da irresistibili passioni per giovani donne, bellissime e seducenti.
Davide Bassan, è stato un grande scenografo, con una capacità risolutiva straordinaria che aveva appreso sul campo, lavorando in mezzo mondo. Aveva un carattere molto forte, a volte spigoloso, ma era profondamente buono e giusto. La sua fine prematura era in qualche modo prevedibile nel suo orizzonte, avendo scelto di vivere sempre al massimo, bruciando la candela dalle due estremità. Aveva iniziato con Dario Argento e nella sua carriera ha poi lavorato con molti registi importanti, tra i quali Lamberto Bava, Giuliano Montaldo e Peter Greenaway… (volutamente cito solo i più simpatici). La sua perdita è stata un dolore condiviso con un gruppo di amici che gravitava attorno a lui. Ogni tanto ci sentiamo ancora, più che altro per ricordare Davide, che per tutti faceva da catalizzatore.
La morte di Davide ha sopito per anni il mio desiderio di andare a Cuba. Dovevo andarci con lui: non vedeva l’ora di farmi da Cicerone e portarmi a vedere il lato nascosto di quel mondo che aveva fatto suo. Aveva incontrato Alberto Korda (autore della celeberrima foto del Che) e aveva passato un pomeriggio intero con Fidel Castro, del quale era assolutamente entusiasta, senza riserve. “Il Comandate mi ha detto…” raccontava con aria sognante. E’ arrivato anche per me il momento di andare a Cuba… un po’ tardi forse, ma a quanto mi dicono le trasformazioni in corso sono molto lente e quindi tutti gli elementi costitutivi di un mondo forse destinato a scomparire, sono ancora ben presenti. Sarebbe il caso di andarci prima possibile, fin tanto che “il Comandante” è ancora in vita… Anche se il potere è passato a Raul è probabile che la morte di Fidel segnerà un turning point. Il documentario di Bent, che ha risvegliato la mia curiosità, ha il pregio di far sentire lo spettatore come un visitatore privilegiato in un mondo molto speciale, dove si troverà presto a condividere l’irresistibile sogno della velocità, che in quella condizione “fuori dalle regole” assume una dimensione eroica e simbolica.
Le informazioni non sono mai didascaliche e accompagnano la quotidianità dei vari personaggi del film che, mentre preparano le loro auto per la prossima corsa, magari fanno una deviazione per andare a prendere i figli a scuola. E’ molto divertente la sequenza (sempre dal punto di vista dei piloti) di quando, dopo aver finalmente ottenuto dal governo l’autorizzazione per una “gara ufficiale”, all’ultimo momento, a causa della visita a Cuba di Papa Ratzinger, quel sogno a lungo covato s’infrange. Il permesso viene sospeso. Un’inquadratura della “papamobile” con l’accrocchio dei vetri antiproiettile che proteggono Benedetto XVI mentre benedice stancamente la folla, ci porta alla condivisione di un sentimento di fastidio nei confronti del Santo Padre, la cui “infallibilità” viene messa ancora una volta a dura prova. La domanda sorge spontanea: “Ma come cazzo…? Non lo sapeva che avrebbe rovinato la festa ai nostri eroi…?!”
Ma come nelle migliori favole, tutto e bene quel che finisce bene… Poco tempo dopo, con tanto di conferenza stampa per celebrare e diffondere l’importanza dell’evento, parte la prima gara ufficiale dell’Havana Motor Club. La folla accorre numerosa, e nel corso delle varie batterie, l’entusiasmo cresce, e cresce… Ormai non più abituali all’emozione della velocità, sopita nella loro memoria, i cubani ci mettono un po’ a ritrovare quel filo interrotto, ma poi è come se si sentisse un “click”: lo spettatore del documentario, insieme al pubblico sul campo, si troverà magicamente riconnesso a quell’immaginario collettivo interrotto dopo quell’ultima gara del 1958.
E’ un primo passo che fa ben sperare, un inno alla passione, alla determinazione dell’essere umano, che in condizioni estreme ha il dovere morale d’inseguire i proprio sogni, perché solo così può fare la differenza.
Ferdinando Vicentini Orgnani
19 giugno 2016
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