In un mondo in cui l’offerta audiovisiva è andata oltre ogni immaginazione con una rapidità sorprendente, non c’è da meravigliarsi se le aspettative del pubblico si siano adeguatamente ingrandite.
Attirare gli spettatori cinematografici non è così diverso dall’attirare clienti in un ristorante, e se una strada è piena di ristoranti vinceranno quelli che offrono qualcosa di speciale, o un cibo, o un prezzo o una ambientazione.
Il cliente sceglie quel luogo che soddisfa le sue pulsioni, e pertanto il cibo se è un goloso, il prezzo se è uno attento o l’ambientazione se deve fare una bella figura.
Perderanno invece quei ristoranti incapaci di darsi una connotazione, quelli medi, normali, anonimi. I film sono un oggetto di consumo a pagamento, e subiscono la concorrenza delle offerte televisive, degli abbonamenti, della domanda di prodotto casalingo così come i ristoranti subiscono quella dei fast food o dei “prendi e porta via”, o dei precotti e dei surgelati. Pertanto anche i film devono essere attraenti, e lo possono essere in vari modi: tramite gli attori, la storia, la scenografia, la sorpresa, la paura, ma uno di questi elementi ci deve essere perché senza il cliente non entra.

Facciamo un esempio attuale: “Il filo nascosto”. Non è un film per tutti, è raffinato, ha un grande attore che tiene la scena e la gente entra per lui. Certamente si tratta di un pubblico colto, che si aspetta una recitazione adeguata e che è anche disponibile a sottovalutare una trama non del tutto ortodossa purché il resto sia di grande livello. Il film dà quello che promette, e gli spettatori sono soddisfatti. “Figlia mia” non è un film per tutti, è ben recitato ma le interpreti non sono mostri di bravura mondiale. La storia zoppica, la produzione non è ricchissima e la gente non va a vederlo, perché dovendo scegliere preferisce qualcos’altro.
Il problema è che in Italia il cinema non è determinato dagli spettatori, dal mercato, ma dalla burocrazia televisiva e ministeriale. C’è un piccolo ristretto cerchio di attori che piacciono ai burocrati, che fanno sì che il film venga finanziato, e da quel cerchio non si esce: malattia cronica della nostra industria, la convenzionalità. Gli attori maturi sono cinque, le attrici mature sono cinque, gli attori giovani sono cinque, i comici sono cinque. Venti, venticinque birilli da spostare di qua o di là, in un continuo ribaltamento di ruoli e funzioni, e il pubblico non si sorprende, non si eccita, e va a vedere in massa cinquanta sfumature di qualcosa, che almeno offre ricchezza, qualche nudo, qualche bella automobile, e in definitiva offre e non prende solo.

Descriviamo la convenzionalità: il termine vuol dire in sostanza “andare insieme” e sta a significare una confluenza di azioni e opinioni sullo stesso argomento o elemento. Storicamente la parola ha assunto il significato ulteriore di “confluenza priva di innovazione”, standard, talvolta ottusa. Ma il cinema ha bisogno di rinnovarsi, in quanto nello stagno della recitazione e dei volti, nella palude delle idee e dei dialoghi non c’è guadagno ma solo speculazione senza crescita. Il giorno in cui i nostri politici si renderanno conto che il settore, tramite la televisione, è malata di convenzionalità, forse sarà troppo tardi.
Michele Lo Foco