Davis (Jake Gyllenhaal) scrive a mano dall’ospedale dove la moglie è morta per un incidente di macchina, capitato mentre chiacchieravano del frigo che gocciola e della necessaria riparazione. A chi scrive? Al servizio clienti di un distributore automatico ove si era incastrato il pacchetto di salatini, avendo lui già pagato più di un dollaro.
Le lettere di richiesta di risarcimento contengono riflessioni sulla sua vita precedente, in un tentativo di elaborare il lutto, decostruendo il passato per dare senso al presente. E nel presente le lettere vengono lette da Karen (Naomi Watts), moglie del titolare dell’azienda dei distributori automatici, sedotta e seduttrice allo stesso tempo. Inizia un intreccio pericoloso che non sfocia in una relazione sessuale ma in una sorta di rispecchiamento, ove si inserisce il figlio di Naomi Watts, un adolescente alle prese con problemi di identità sessuale.
La critica ha giudicato mediocre “Demolition” (2015), interpretandolo come un film sull’elaborazione del lutto oppure come l’ennesimo tentativo di mostrare la putrescenza della famiglia borghese.
In realtà Jean- Marc Vallée dimostra di aver appreso alla perfezione la lezione dei più grandi, in particolare di un certo Wayne Wang di “Smoke” (1995), la cui struttura filmica è ricalcata, almeno nella triangolazione tra i temi chiave:
• il guardare (si sprecano gli specchi, gli schermi, i vetri), che diventa scomporre per capire,
• la paternità, con la presa in carico di un figlio che non sembra interessare nessuno,
• il velo dell’esistenza, che non ci permette di capire, tanto meno di giudicare.
In questa operazione Gyllenhaal, manager nell’azienda del suocero, che manovra miliardi senza toccare nulla di reale, costretto sempre a dire la verità, è un personaggio “cristologico”. E’ il simbolo. Impossibile non notare (ma in molti ci sono riusciti) l’acquisizione, nel percorso catartico del protagonista, delle stigmate, citazione della “La Casa dei giochi” (1987) di Mamet, altro film costruito sulla ricerca impossibile della verità. Ma è un Cristo che coincide con lo spettatore, e la sua vicenda è un maldestro percorso catartico che, che, anche quando trova una verità, scopre solamente qualcosa di incomprensibile, che andrebbe ulteriormente smontato. Ecco perché la morte non può avvenire, neppure facendosi sparare addosso. La morte sarebbe la comprensione, che manca nell’orizzonte umano, il cui vedere rimane in superficie, come chiaramente mostrato nella prima sequenza, carrello laterale sulla Skyline di Manhattan, e didascalica chiave interpretativa.
Alla fine, come surrogato della verità, viene negoziata con i Farisei la ricostruzione della giostra, frutto della demolizione del tempio dei falsi riti (la nostra casa!). Compreso il carattere ciclico del percorso, si comprende anche la vacuità della corsa in avanti, la corsa adolescenziale verso il nulla. Tutti i grandi temi della tragedia umana in un film che riflette sul fare cinema. Capolavoro filosofico oltre che filmico.
Luigi Rigolio
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