E’ il momento di Elio Germano, fresco vincitore dell’Orso d’argento al festival di Berlino come migliore attore per Non volevo nascondermi, diretto da Giorgio Diritti, dove dà corpo e volto, anzi “diventa” Antonio Ligabue. “Diventare” fa parte del registro di Germano. E non è un registro semplice. Nel “Giovane favoloso” di Mario Martone aveva già fornito una performance impressionante facendo Giacomo Leopardi, dove torturava e storpiava se stesso, con una dedizione commovente. Germano è stato anche il santo di Assisi nel “Sogno di Francesco” di Fely-Louvet. Personaggi impegnativi, non era facile gestirli. Nel 2010 aveva conquistato la “Palma” a Cannes come migliore attore per La nostra vita.
La straordinaria azione di Germano ne richiama alcune di altri attori che si erano trasformati nei loro modelli, e che fanno parte della storia del cinema. Nel 1982 Richard Attenborough diresse Gandhi, e si portò a casa 8 Oscar. E’ corretto dire che Ben Kingsley fece rivivere l’eroe dell’India. Facevi fatica a distinguere l’attore dal vero Mahatma. Un altro eroe, Abramo Lincoln, rappresentato dal cinema decine di volte, ha avuto un alter ego-fiction con Daniel Day Lewis nel film di Steven Spielberg del 2012. L’attore ottenne il suo terzo Oscar, un primato. L’ora più buia di Joe Wright del 2017 racconta il momento, drammatico, di Churchill che si trovò, solo, difensore del mondo libero ad affrontare le mire, folli, di Hitler. Non era facile rappresentare un leader schiacciato da tanta responsabilità, ma Gary Oldman “divenne” Churchill, prova memorabile.
Un’impresa al limite del parossismo arriva da Robert De Niro quando, nel 1980, 37enne divenne Jake LaMotta in Toro scatenato di Scorsese. Devoto al metodo “Actors Studio” che ti imponeva esercizi disumani pur di entrare nel personaggio, Robert ingrassò di trenta chili ma poi dovette riperderli. Ebbe l’Oscar, ma rischiò la vita. Qualcuno ha evocato quel ruolo e Germano ha voluto prenderne le distanze. “Non mi piace la trasformazione fisica all’americana, l’esibizione dell’attore, come un trofeo. E’ un lavoro di squadra, l’attore è a disposizione della storia, deve farci cadere dentro lo spettatore.”
Dopo questa premessa è superfluo dire che l’attore è stato più che all’altezza. Doveva misurarsi anche con una memoria forte, quella di Flavio Bucci, appena scomparso, che aveva fatto Ligabue in tre puntate televisive, ottenendo riconoscimenti importanti. L’attenzione a un artista rientra nella corrente, benemerita, propizia, che il cinema da alcune stagioni dedica all’arte. Sono decine i titoli che riguardano anche artisti che non fanno parte della memoria popolare. Ligabue è un ricorso, così come Frida Kahlo, riproposta nel documentario Viva la Vida. A primeggiare sono Leonardo, naturalmente- per i 500 anni eccetera- e Van Gogh, protagonista di molti titoli. Fra Van Gogh e Ligabue vale un contrappasso. Erano caratteri simili, dolenti e maledetti, predestinati a una brutta morte: Ligabue morì in un ospedale distrutto da un’emiparesi. Van Gogh si suicidò. Ma c’è un’altra relazione, del cinema: Julian Schnabel, pittore regista, nel 2018 ha firmato At Eternity,s Gates, storia degli ultimi anni di Van Gogh. Con William Defoe che si calò nella parte proprio come Germano. E si guadagnò una nomination all’Oscar e la Coppa Volpi di migliore attore alla mostra di Venezia.
Il regista Diritti. Lo considero uno dei migliori autori italiani: pochi film ma di contenuti preziosi, non omologabili alla norma italiana. Estranei a quel brutto contagio che è il politicamente corretto.
Un avallo lo consegna direttamente Germano: “E’ un momento bello per l’Italia, Non volevo nascondermi, non è il remake di quello che si aspettano da noi all’estero, questo è un film coraggioso e non vuole somigliare a niente e a nessuno. Non cerca solo l’applauso o l’incasso. Si sta tracciando una nuova linea del cinema italiano, è un filone di libertà.”
Ultimo dato: a vincere premi targati Cannes e Berlino era stato… Mastroianni.
Pino Farinotti
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