E’ interessante l’accoglienza che ha avuto Gli anni più belli, di Gabriele Muccino. La forbice del gradimento, espresso nelle tradizionali stellette, è molto larga. La media del pubblico, che si esprime su certe testate specialistiche, è 2,63, quella della rassegna stampa 2,49, quella di Mymovies, un sito che fa testo, 3,5. La mia attribuzione è di 3 stelle. E’ un voto piuttosto alto. Ho dunque rilevato questa differenza di valutazione con degli estremi opposti, molto lontani. Da quattro a una stella. Nel cinema ci può stare. Il film è stato al centro di una promozione spettacolare, quasi aggressiva. Ricordiamo che tutto il cast, giovani e adulti, è stato ospite a Sanremo.

E’ importante l’approccio critico quando devi raccontare un’opera. Recensire un film è un’azione complicata, l’ho detto più volte: occorrerebbero tre interventi, uno secondo la cultura personale del recensore, che certo si suppone competente, l’altro mediando fra le trasformazioni del cinema nelle epoche, il terzo rispetto al gradimento contemporaneo e il politicamente corretto. E non dimentico l’attenzione che, doverosamente, merita il mercato. Poi ci sono … chiamiamole predilezioni, o simpatie. Ecco la ragione della “forbice”.
Sul cinema italiano mi esprimo da tanto tempo con una didascalia: “Eravamo i più bravi del mondo, mentre adesso…”. Però, nelle stagioni recenti ho rilevato una positiva evoluzione del nostro movimento che si esprime in titoli, nomi e riconoscimenti oltreconfine. Gli anni più belli, l’ho trovato un bel film. Muccino si è rifatto a quella che viene detta “commedia italiana” una corrente dei bei tempi del nostro cinema, l’evoluzione del precedente movimento, eroico, del realismo. Poi ci ha messo del suo: l’espressione forte della recitazione, del linguaggio cinematografico, dell’estetica, e anche del sentimento. Con gli inserti di canzoni nella memoria di tutti, una pratica dei registi di allora. E non ha badato al “corretto” perché nel film mancano due modelli sempre presenti nel nostro cinema: il personaggio di colore e l’omosessuale. Un altro segnale di “passatismo”.

Da sempre affermo che niente è più discrezionale del cinema ma quella di una stella è una strana discrezione. Vuol dire che guardi un’opera da una prospettiva particolare. “Particolare” significa con un’impostazione critica nel senso più rigoroso e severo, magari negativo. Ci deve essere qualcosa di personale. Uno specialista può scrivere 100 pagine a beatificare un film e un altro può scriverne altrettante a demolirlo. Ed entrambi saranno in grado di produrre argomenti credibili. Trattasi di discrezione, trattasi di cinema, appunto. E dunque puoi speculare: le ispirazioni possono diventare imitazioni, e le riproposte vengono lette come mancanza di idee nuove. Muccino si rifà a quel cinema accreditato e storicizzato, che ha dettato, in quel tempo, evasione, esempio e qualità. E’ vero che i tre protagonisti, Giulio (Favino), Paolo (Rossi Stuart) e Riccardo (Santamaria) li abbiamo già visti e rivisti nei film di quegli anni, e certo ricordano i loro omologhi Gianni (Gassman) Antonio (Manfredi) e Nicola (Satta Flores) di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Ed è vero che la Gemma che fa Micaela Ramazzotti assomiglia alla Luciana di Stefania Sandrelli di quel film. Ma … cosa c’è di male?
Ed è anche vero che Muccino rifà la scena della fontana di Trevi. Un promemoria suggestivo e scaltro, certo, ma a me non è parsa lesa maestà, ma un richiamo di estetica e di sentimento nostalgico e gradevole. E qui vale un’altra categoria di discrezione. In negativo, come ho detto sopra: “Muccino, imiti un grande, bella forza…” In positivo: “Ma bravo Gabriele, che ci hai fatto ricordare Scola.”
Un dato accertato è che questa epoca fatica nelle idee e nella qualità. Sappiamo. E allora ecco certi artisti del passato richiamati in soccorso. Del resto cos’ha fatto il super valorizzato Sorrentino? Ha rifatto Fellini e ci ha persino vinto un Oscar, aggiungendolo ai 5 del maestro magico.
Pino Farinotti
