Per intascare i fondi europei, un sedicente produttore romano convince cinque squattrinati italiani a girare un film nelle distese innevate dell’Armenia. Quando nel territorio dell’ex Unione Sovietica scoppia la guerra, il produttore scappa con il denaro, costringendo la troupe all’isolamento forzato all’Hotel Gagarin. Senza soldi e possibilità di ritorno, i cinque troveranno il modo di trasformare la truffa in un’esperienza di rinascita interiore.

L’opera prima di Simone Spada ci ricorda una “verità sacra”, spesso, purtroppo, (volontariamente) dimenticata, adombrata dalle necessità di botteghino o dalle spasmodiche (e narcisistiche) ricerche autoriali – i due Loro di Paolo Sorrentino (2018) per esempio –: il cinema è la fabbrica dei sogni, lo è sempre stata.
Con un tocco lieve, rarefatto come la neve armena – “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov (1987) -, e una sospensione temporale metafisica, tra corridoi vuoti e architetture di regime, la commedia del regista romano mette in scena (letteralmente) una mise en abyme cinematografica – strategia narrativa ricorrente; come in “Lo stato delle cose” di Wim Wenders (1982), di cui questo lungometraggio è lo speculare “positivo” –, che, attraverso una sottile vena umoristica, riflette sulla potenza immaginifica della settima arte, sulla sua capacità di sublimare la realtà in finzione e di tramutare i sogni in realtà.
Perché il cinema è “Poesia senza fine” (Alejandro Jodorowsky; 2018), o meglio, un sogno che non si esaurisce e si rinnova ogni volta che uno spettatore si siede in sala, o quando un vecchio sdentato di uno sperduto villaggio armeno chiede ad una troupe scalcinata di trasformarlo nell’eroe dell’infanzia (Yuri Gagarin).

In un immaginario desaturato da cliché estetici – come nella visione cubana di “Non è un paese per giovani” di Giovanni Veronesi (2017) -, il cineasta italiano mette in scena una rinascita interiore, quella di cinque esseri umani “precari”, disillusi, in fuga da un paese in crisi – economica ed artistica.
Con un incedere narrativo in equilibrio tra onirismo – il kino-geist interpretato da Philippe Leroy – e realismo – “la truffa” di Tommaso Ragno –, Hotel Gagarin mostra uomini e donne che, toccato il fondo, riescono ugualmente a trovare la forza per ripartire; ricominciare da zero, lontani dall’Italia, in un hotel (nel) vuoto, punto d’arrivo, del film, ma anche di (ri)partenza, per i protagonisti.
Come la sceneggiatura di Nicola sulla ricerca di sé, la pellicola di Spada descrive la tensione dell’uomo verso la felicità. Una ricerca incessante – ricordata dall’aspirante regista con le parole di Lev Tolstoj: «Se vuoi essere felice, comincia» -, ma vana, perché irraggiungibile.
Ciò nonostante, esiste un luogo in cui poterla ammirare, anche solo per poco, sfiorarla rimanendone estasiati: quel teatro di posa dove, come ci ha insegnato George Méliès – “Hugo Cabret” di Martin Scorsese (2011) –, la magia del cinema trasforma i sogni in realtà.
Alessio Romagnoli