Hannah è posseduta. Hannah è morta, soffocata dal padre dopo un esorcismo fallito. Hannah, o ciò che ne resta – la salma mutilata e carbonizzata -, dopo tre mesi dalla sua scomparsa, è trasportata nell’obitorio del Boston Metro Hospital.
Appena assunta, Megan, poliziotto sospeso dal servizio per abuso di farmaci, consumata dal senso di colpa per l’omicidio del collega (di cui si ritiene responsabile), ne riceve in consegna le spoglie.
«Sarà un lavoro duro» l’aveva informata il suo “sponsor” «molti mollano dopo i primi giorni; sai, i cadaveri»… ma un morto è un morto. Quella sera, però, le certezza dell’ex agente vengono incrinate quando l’ennesimo corpo da schedare e fotografare sembra non volersi concedere l’eterno riposo: e se quel respiro non fosse stato causato dal rigor mortis; e se quella bocca spalancatasi all’improvviso non fosse stata un’allucinazione – la dipendenza può giocare brutti scherzi… -; e se il Male non fosse stato ancora estinto?

L’incipit: due intimoriti preti cattolici, un padre afflitto e una ragazzina scheletrica legata a un letto;
ecco servito un altro exorcism movie – tra i sottogeneri più praticati dall’horror contemporaneo (“The Vatican Tape” di Mark Neveldine, 2015). Il titolo, poi, lo confermerebbe, con il nome dell’ossessa in bella mostra, così simile a quello di un’altra invasata illustre, quella Emily Rose che aveva avuto il (de)merito – a seconda dei punti di vista – di riportare in auge un filone trascurato da anni – “The Exorcism of Emily Rose”di Scott Derrickson (2005). La sequenza iniziale, in realtà, nella sua “generica” messa in scena – i crocifissi severi, le ossa fragili, gli sguardi terrei -, è fuorviante.

Film di possessione e non d’esorcismo – più di una pedante sfumatura semantica, ed è lo stesso Derrickson a dimostrarlo (“Liberaci dal male”, 2014) -, l’opera dell’olandese Diederik Van Rooijen resta sepolta (al contrario dell’indemoniata) dall’immaginario demonologico di massa – bieca entità maligna, inarrestabile e famelica. Ritmo compassato e soluzioni registiche banali – le apparizioni “intermittenti” – rendono L’esorcismo di Hannah Graceassai noioso; un racconto (cristiano) che si esaurisce nella parabola di una donna colpevole, Megan, in cerca di redenzione – dai suoi peccati: la morte del collega e la dipendenza.

Se Hannah non ha alcuna intenzione di essere sotterrata, il film, viceversa, si scava la fossa con le proprie mani, riuscendo a “sopravvivere” (a sé stesso) solo grazie all’atmosfera mortuaria dell’obitorio, inquietante e claustrofobico. Formalina e acciaio, computer e cemento, corridoi labirintici e neon sfarfallanti, per una morgue high-tech che attinge dal modernismo de “The Lazarus Effect” di David Gelb (2015) e dalla spazializzazione di “Autopsy” di André Øvredal (2016).
Non c’è altro. Fuori dalla grazia(Grace) di Dio, fuori dalla tomba, fuori dalla sala: “esci da questo” cinema!
Alessio Romagnoli

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