Nella ridda di commediole natalizie, ogni anno più superficiali e irritanti, riesce a resistere ancora in sala un piccolo gioiello russo. È Loveless di Andrej Zvjagintsev. Forse qualcuno ricorderà Il ritorno, il suo folgorante esordio alla regia, capace di fargli vincere, al primo colpo, l’ambitissimo (e meritatissimo) Leone d’oro al Festival di Venezia 2006. Da allora Zvjagintsev ha partorito altri due film, Izgnanie (2017) e Elena (2011), colpevolmente non distribuiti da noi, e il potente Leviathan, vincitore del Golden Globe per il migliore film straniero nel 2014.
Zvjagintsev, va detto subito, va collocato tra i (nuovi) maestri della grande tradizione russa, rigorosissimi non solo nell’impianto drammaturgico ma anche nell’impostazione visiva delle loro opere: trama minimale, dialoghi essenziali, sottotesti, metafore sulla contemporaneità, lavoro scrupoloso con gli attori, attenzione all’equilibrio dell’inquadratura, luce espressiva.
Ne è emblema la sua ultima opera, Loveless, che si dichiara nella sua essenzialità fin dal titolo. Si racconta, infatti, semplicemente e drammaticamente, degli effetti del vivere in una famiglia “senza amore”. I due protagonisti, Boris e Zhenya, sono proiettati sui bisogni personali (concretizzati in amanti e valori effimeri). Chi ne fa le spese? Il figlio dodicenne, Alyosha, che nessuno dei due ha mai veramente amato. Al punto che, quando i due decidono di divorziare, nasce il problema di chi dei due dovrà tenerlo con sé, nel senso che per ognuno il bambino è un intralcio. Saranno costretti a misurarsi con il significato della parola amore, all’interno di una famiglia, solo quando il figlio scomparirà.
Una trama semplice, dicevamo, che cela sotto la superficie una profondità di sguardo che inchioda. Zvjagintsev non ha alcuna pietas per una generazione di “nuovi russi” (o, probabilmente, di “nuovi uomini” tout court) che non ne mostra alcuna per l’altro, forse neanche per se stesso. Alyosha non esiste, né per il padre né per la madre, perché non è funzionale ai loro bisogni. Tanto vale legittimare questa condizione di “inesistente” sparendo… Basti guardare la bellissima e terribile sequenza in cui Alyosha, che ha sentito per caso il dialogo in cui i genitori manifestano la loro insensibilità nei suoi confronti, piange solo e disperato senza emettere suoni e, soprattutto, senza che il padre e la madre si accorgano di lui.
Luigi Sardiello
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