Parlando di Federico Fellini alcuni concetti affiorano da soli, spontaneamente. Il primo di questi è la seduzione, tema non casuale qui oggi, a quarantanni dall’uscita sugli schermi del “Casanova“. Un film aspro, contraddittorio, molto amato o molto incompreso. Che ha per protagonista un personaggio che Fellini, durante le riprese, era solito ricoprire di insulti; eppure un’opera che aveva definito “il mio film più compiuto, più espresso, il più coraggioso”.
È molto probabile che dietro alla conclamata antipatia per il grande seduttore (di cui pagò qualche prezzo anche l’incolpevole Donald Sutherland), si celasse più di una vicinanza: prima fra tutte la complicata relazione con la donna, oggetto del desiderio spasmodico dell’adolescente intimidito dal severo cattolicesimo della mamma e dei preti, un nodo irrisolvibile sulla base del semplice possesso fisico.
Quanto alla memoria, essa è talmente un elemento costitutivo della poetica felliniana che sull’argomento c’è assai poco da aggiungere. Tutto in lui è memoria, a cominciare dall’inesauribile rievocazione di personaggi e oggetti più o meno integralmente inventati che peraltro, infinite volte, scelgono di fare ricorso alla memoria per poter essere raccontati.
Il concetto a cui vorrei dedicare un po’ di attenzione, invece, è il territorio. Innanzitutto perché l’occasione in cui ci ritroviamo insieme è creata (lo sottolineo con sincera simpatia) da chi, come il Tribunato di Romagna, nel territorio è profondamente radicato. Poi anche perché mi permette di toccare un terreno, se mi si passa il gioco di parole, che dai numerosi cultori del Maestro è stato dissodato forse meno di altri. Mentre esistono innumerevoli testimonianze dedicate alla Rimini felliniana (a cominciare dall’imponente volume La mia Rimini del 1967, che racchiude anche alcune preziose pagine del Maestro) e molte altre affrontano il grande tema del mare, relativamente scarsi sono i riferimenti al territorio.
La dicotomia tra il mare e la terra è ben presente nella biografia e nel cinema di Fellini. Delle due presenze, la prima è preponderante, reiterata, assolutamente centrale. In Federico il mare – scriveva l’amico e studioso Renzo Renzi – è il “luogo che raduna in sé l’avventura temuta, il sogno impossibile, la minaccia estrema, la placenta materna, l’ultimo mistero”. In “Casanova” sarà la colossale ed enigmatica testa di Venezia che appare durante la festa del Redentore e che, intravista appena, torna a scomparire per sempre negli abissi. Sono gli “Invasori” di “Giulietta degli Spiriti“. E’ il naufragio di “E la nave va“. E’ il mostro “giudizio di Dio” della “Dolce vita”. Sull’inquietante duplicità del mare, c’è poco da aggiungere, dopo la pubblicazione del sogno nelle acque del porto di Rimini in cui Fellini teme di non essere in grado di nuotare (e infatti ne esce camminando). Il senso di ignoto e di presagio che il mare porta con sé, in lui è collegato alla linea femminile. Può essere liquidato come un paradosso ma Fellini, figlio di una romana, spesso al mare associava non soltanto Rimini ma anche Roma e il suo litorale: Fregene dove aveva la villa, Passoscuro dove ha girato lo Sceicco bianco, Ostia dove ha girato “I vitelloni”.
Invece la linea paterna, in particolare attraverso la nonna e i ricordi della casa di Gambettola nelle estati da bambino, a Federico suggerisce la terra, nel senso di entroterra, nel senso di campagna (l’intera Romagna è, secondo Paolo Fabbri, “un paese che sa di Roma e di campagna”). Dalla biografia all’opera: a un certo punto, all’inizio degli anni Settanta, nel cinema di Fellini la memoria che indirettamente ne ha sempre guidato il pensiero e la mano, da universale e astratta che era si fa storicamente e geograficamente determinata. E’ allora che – dopo la sfolgorante anticipazione dell’Asa-nisi-masa di “Otto e mezzo” – l’entroterra romagnolo irrompe sulla scena. Si comincia con “I clown“, straordinario e ingiustamente dimenticato film del 1970, in cui compare il capostazione Cotechino, egli stesso patetica personificazione di pagliaccio oggetto degli sberleffi dei ragazzi il quale tuttavia è, con il suo berretto rosso e con il suo fischietto, il padrone di altrettanti emblemi dell’immaginario infantile: la stazione, il treno,la ferrovia. Magari di quella ferrovia in miniatura nei cui pressi Fellini abitava da bambino e che lo affascinava con i minuscoli vagoni che trasportavano lo zolfo da “Mercatino Marecchia” (come lui continuava a chiamare Novafeltria).
Se in una città di mare la ferrovia non può non alludere all’entroterra, quest’ultimo era per antonomasia la Valle del fiume Marecchia, l’Ariminus dei Romani. Come scriverà il Maestro molti anni dopo, “La campagna per me è stata una scoperta straordinaria. Uno scenario favoloso, un po’ magico: gli animali, gli alberi, i temporali, le stagioni, i rapporti dei contadini con le bestie, il fiume delle nostre parti era il Marecchia”. Più che alla foce (sempre i fiumi sono più belli a monte) per Fellini la Valmarecchia iniziava da Corpolò. E perché proprio lì?”, gli chiesi una volta. “Per via del nome, così fisico, corporeo; noi ragazzi ce lo immaginavamo pieno di donnoni coi fianchi larghi, con le tettone…”. Da quel villaggio alle porte di Rimini proveniva il leggendario “Scureza ad Corpolò”, il centauro dal nome onomatopeico che, alla folle guida della Guzzi sport 500cc del 1936, apre e chiude “Amarcord” rombando intorno alla Piazza e lungo la Palata. Ma soprattutto dalla Valmarecchia provengono, descritte nella “Mia Rimini” e poi raffigurate in “Armarcord“, “le Baffone”. Inforcano le biciclette, adattando al sellino le forme generose, le donne che dalla campagna scendono in città per andare al mercato e vendere la frutta e gli ortaggi. Golosamente scrutate insieme all’amico Titta e alla banda di liceali, queste ninfe agresti, acquatiche, montane, vengono così ricordate da Federico: “la Baffona di Sant’Arcangelo coi capelli rossi, che portava il maglione ‘argentina”, senza reggipetto sotto … le sorelle di Santa Giustina, la ‘gattaccia di San Leo’, una gladiatrice torva e possente, con un gran nuvolone di capelli neri, gli occhi fosforescenti come i leoni, ti guardava lenta, indifferente, senza vederti”.
Poi un giorno Federico uscirà dalle acque del mare e inizierà (riprenderà) il suo cammino. Così come un giorno Moraldo salirà sul treno e partirà alla volta della metropoli. Dovunque andrà porterà con sé, accanto al sottile senso di colpa dell’espatriato, le luci e le immagini della sua terra.
Fabrizio Battistelli
L’autore di questo articolo insegna sociologia nell’Università di Roma “la Sapienza”. Nel 1991 ha pubblicato con Einaudi “Il Conclave“. Il romanzo, ambientato nel Settecento, narra l’arrivo a Roma di Riziero di Pietracuta, cadetto romagnolo chiamato dal fratello monsignore a districare le trame politiche e i delitti della Curia vaticana. Il libro colpì la fantasia di Fellini, che pensò di farne un film. Il progetto non fu realizzato ma rappresentò per il maestro riminese l’occasione per tornare varie volte nella Valle del Marecchia, retroterra della sua immaginazione e meta delle escursioni in bicicletta con i compagni di scuola di “Armarcord“. Il testo è tratto dalla conversazione tenuta a Rimini il 15 ottobre scorso per iniziativa del Tribunato di Romagna, nell’ambito delle giornate dedicate a “Il Casanova di Federico Fellini 40 anni dopo”, a cura della Cineteca Comunale di Rimini.
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