Apertura “ridotta” per Venezia 2017

La 74^ Mostra d’Arte cinematografica di Venezia apre con l’ultimo film di Alexander Payne dal titolo “Downsizing“. In un mondo sempre più sovrappopolato dove le risorse sono limitate, la soluzione sembra essere quella della miniaturizzazione dell’umanità. Un’equipe di scienziati norvegesi (interessante de localizzazione rispetto ai cliché americani) scopre il modo di rimpicciolire gli esseri umani sino a ridurli ad un’altezza di poco più di 15 centimetri così che possano vivere in cittadine che misurano appena 11 metri per 7 e la cui spazzatura prodotto in un anno può essere comodamente contenuta in un ordinario sacchetto per la spesa. Purtroppo il processo non è reversibile ma come incentivo a chi si offre volontario per la miniaturizzazione è offerta una vita da nababbi.

Il regista Alexander Payne

Il film è in tono di commedia e segue uno dei classici stilemi della fantascienza che prevede di speculare su di un assunto fantastico. In questo caso il risultato è una satira sociale divertente ma anche puntale nell’indagine del delirante mondo del consumismo, dove un’umanità irresponsabilmente vanesia e gaudente corre a tutta velocità incontro al disastro.

Uni’mmagine tratta dal film

Il film è prodotto e distribuito da Paramount che coniuga così le esigenze di botteghino con il film di qualità. Alla base della formula c’è un regista, che in questo film è anche produttore, il quale ha già dato diverse prove d’autore con film ben congeniati e profittevoli come il 25 volte premiato “A proposito di Smith” del 2002 con un grande Jack Nicholson, “Sideways – In viaggio con Jack” e “Paradiso Amaro” per entrambi i quali vinse l’oscar come miglior sceneggiatura non originale e l’ultimo “Nebraska” che ha avuto ben 6 candidature agli Oscar (pur non vincendone alcuna). Ad arricchire poi il cartellone in modo di attirare anche il pubblico mainstream c’è un cast con nomi molto noti composto tra gli altri da Matt Damon, Christoph Waltz, Laura Dern e Udo Kier.

Matt Damon in una scena di “Downsizing”

Sicuramente il film ha la capacità di intrattenere chi vuole semplicemente svagarsi e si attende una sorta di “Mamma mi si sono ristretti gli adulti”, ma si presta allo stesso tempo ad una visione in chiave più metaforica, aspetto che analizzando la carriera di Payne non è certo secondario. Dopo “Gravity” la Mostra di Venezia continua quindi a non dimostrare alcuna inibizione nei riguardi della fantascienza e nessuna difficoltà a far spazio alle major, alle quali però, a dire il vero, lo spazio proprio non gli manca. Speriamo quindi che a risultare “rimpiccioliti” non siano alla fine le produzioni di qualità ma di industrie minori.

Il Blade Runner che verrà

Il 2017 era il futuro immaginato da Ridley Scott nel suo capolavoro del 1982 e puntuale come la morte il 2017 è arrivato. Non abbiamo colonizzato altri pianeti e non ci serviamo di androidi per svolgere i lavori più degradanti o pericolosi che, i primi più dei secondi, continuano ad essere svolti dal genere umano. Eppure il tema della vita e della morte rimane sovrano sin dai tempi di Prometeo.

A dire il vero nel romanzo di Philip K. Dick da cui fu tratto Blade Runner il tema principale non è tanto la vita o la morte, bensì l’ontologica composizione del tessuto di ciò che è reale ed a corollario il senso ultimo dell’uomo. In sintesi a Dick interessa indagare sul concetto di verità, intesa come quella qualità che definisce ciò che è reale e ciò che non lo è. Nelle sue opere, si prenda Ubik ad esempio, non è tanto importante che una cosa esista in sé ma è sufficiente che essa sia percepita per poter definirsi reale. Se un sogno è percepito come reale, ebbene allora esso diviene la realtà per chi lo sogna e se un androide ha la capacità di sognare evidentemente ciò lo rende di fatto umano ed indistinguibile da noi. Non a caso il titolo originale de “Il cacciatore di androidi” (sfortunata traduzione italiana del titolo che descrive solo l’aspetto superficiale e per nulla affascinante del romanzo) è “Do Androids Dream of Electric Sheep?” ( e rendiamo merito alla Fanucci per aver restituito all’opera nella sua edizione del libro il titolo più consono di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?“). L’interrogativo del titolo suggerisce già la risposta che Dick ha in serbo: se un soggetto è capace di percepire e di sognare, ebbene questa qualità lo rende umano, indipendentemente dalla sua genesi.

Il libro edito da Fanucci

In questo senso Dick non è certo un neo realista, anzi è molto vicino al radicalismo di Nietzsche quando dice “non ci sono fatti solo interpretazioni”, o di Kant per cui al centro della creazione vi è l’uomo che fabbrica mondi attraverso i concetti. E questo è forse l’unico aspetto che Ridley Scott mutua dall’opera di Dick ed emerge nel monologo finale dell’androide Roy (Rutger Hauer) che richiama con inquietante esattezza un brano de “Verità  e menzogna in senso extramorale” di Nietzsche.

“In un angolo remoto dell’universo scintillante, diffuso in innumerevoli sistemi solari, c’era una volta un astro sul quale animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia universale»; ma fu solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura l’astro si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola del genere, ma non riuscirebbe mai a illustrare adeguatamente quanto lamentevole, quanto vago e fugace, quanto inane e capriccioso appaia nella natura l’intelletto umano. Ci furono eternità in cui esso non c’era, e quando di nuovo non ci sarà più non sarà successo niente.”

Ruger Hauer nell’ultima scena di Blade Runner (1982)

Perfino l’immagine suggerita dal passo “… e l’astro si irrigidì” ricorda lo spegnersi dell’androide dopo aver pronunciato quelle ultime parole che sono tra le più famose del cinema e non solo : “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, com lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

Per il resto però la trasposizione cinematografica si concentra esclusivamente su questo tema di vita e morte, facendone un qualcosa che è altro rispetto al pensiero ed all’opera di Dick. Poco male poiché è diritto del cinema trarre spunti e tradirli e sottrarsi così allo sterile confronto tra libro e film. E’ comunque interessante come busillis ed è meritorio il modo con cui viene dipanato da Scott, che nello svolgimento della trama rivolge il suo tributo al “Novello Prometeo” di Mary Shilley , al secolo “Frankenstein“. Ogni creatura, comunque sia venuta al mondo, ha in comune con tutti gli esseri senzienti la paura della morte ed è questa la caratteristica che per Scott definisce il concetto di umanità più della capacità di astrarre e percepire. E’ con questo enunciato che il regista  apre il film, ossia per bocca del replicante Leon che dice a Decker (Harrison Ford) : “Brutto vivere nel terrore vero?Niente è peggio di avere una vita che non è una vita.”

L’attore Brion James bell part del replicante Leon Kowalski

Nel proseguo del film si capirà invece che è proprio la consapevolezza della morte a dare alla vita un valore così prezioso. I replicanti fungono quindi da iperbole dell’esistenza umana. Sono creature progettate per vivere solo quattro anni per cui l’anello di vita e la sensazione del tempo che fugge è estremizzata, ma anche l’uomo non è immortale e a differenza di Roy non ci è dato di parlare con il nostro creatore e tanto meno stritolargli la testa con le nostre mani in caso le risposte non dovessero soddisfarci. Tutti noi quindi, come i replicanti, “corriamo sul filo” tra la vita e la morte.

Era un film quasi perfetto se non fosse per la voce fuori campo che recita un mantra consolatorio a beneficio del lieto fine che è imposto dalle necessità di botteghino, il vero monarca della cinematografia americana, un peccato a cui nel 1992 Ridley Scott farà ammenda cassandolo nella director’s cut facendo così raggiungere alla sua opera  una perfezione postuma.

Il regista Denis Villeneuve sul set di Sicario

Il timore di questi giorni, da che è apparso il teaser con alcune scene del sequel, è che un così azzeccato equilibrio possa spezzarsi con un estensione non necessaria che potrebbe risultare posticcia come un parrucchino. A calmare parzialmente i timori è la regia di Denis Villeneuve che ha già dimostrato di essere, oltre che bravo, assolutamente non banale (si veda ad esempio “The Arrival” 2016). Pure il cast è solido e confortante e vede in prima linea grandi professionisti come Ryan Gosling, Robin Wright, Jared Leto e lo stesso Harrison Ford. Eppure  un dubbio aleggia nelle menti di conoscono ed amano Blade Runner ed è: cosa altro si può aggiungere?  Non è certo la curiosità di come va a finire la storia d’amore tra Decker e la bella androide senza scadenza Rachael, oppure cosa comporta la evoluzione estrema dei modelli Nexus, termine che non a caso significa connessione, legame. Ma soprattutto è preoccupante la presenza di un supercattivo che verrà interpretato da Jared Leto . La sublime originalità di Blade Runner era scoprire poi che non c’è nessun cattivo. Non era cattivo Tyrrell, il creatore che amava i suoi replicanti, non era cattivo Decker che era anzi pieno di empatia, non era cattivo Roy che  negli ultimi istanti ha amato la vita in assoluto,  non era cattivo nemmeno il poliziotto Gaff (quello degli origami) che risparmiò Rachael. I supercattivi nel cinema servono ad assolvere l’umanità dai suoi peccati, convogliando su di un’unica pecora nera la responsabilità delle peggiori azioni. C’era bisogno  di ridurre il capolavoro di Scott ad un cliché ? Ma soprattutto, questa pecora nera, sarà almeno elettrica?

ALIEN COVENANT

Già dai tempi di Stanley Kubrick con il suo “2001 Odiessea nello spazio” si sospettava che intelligenza artificiale, viaggi interstellari e criogenia non andassero d’accordo. E’ un concetto ribadito più volte nella fantascienza sin dal primo “Alien” del 1979 e fino al recente “Passengers” di Morten Tyldum. Di astronavi in orbita impossibilitate di comunicare con la squadra a terra a causa di mille disgrazie ed avarie, mentre i poveretti laggiù sono in gravi ambasce e con i minuti contati, ne abbiamo visti a iosa, tanto che sarebbe noioso elencarli, ma quello di cui veramente non se ne può più è la scampagnata nel bosco dove un orribile pericolo fa fuori tutti i partecipanti uno ad uno.

david alien

Una volta tarato sullo zero pressoché assoluto lo strumento che misura la credibilità di un film sul precedente “Prometheus“, questo ultimo lavoro di Ridely Scott segna comunque un movimento verso l’alto e lo si deve ad una circolarità nella trama della intera saga, che chiude un anello anticipato, se non proprio iniziato, nello storico “Alien” e che riguarda il rapporto tra creato, creatura e creatore. Non sveliamo nulla poiché è già tutto chiaro nella sequenza iniziale, un flashback dove l’androide David (Michael Fassbender), già presene in “Prometheus“, dialoga con il suo ideatore Michael Wayland (Guy Pearce) prima che tutto abbia inizio. In questo dialogo c’è la chiave del film e di tutta la saga. Vi si riscontrano elementi archetipici del tema di Prometeo, per l’appunto, ma anche di Zeus e Cronos. La peritura sostanza del potere ben riassunta nel poema di ShelleyOzymandyas” contrapposta alla hybris di chi si paragona ad un dio, arrogandosi il più grande degli attributi: quello della creazione. Non è quindi per caso che appena “attivato”, l’androide David, dopo una rapida e profonda riflessione, accenna al pianoforte “L’entrata degli dei nel Walhalla” dal “Rehingold” di Wagner.  Si tratta proprio del “Crepuscolo degli dei”, che anticipa il vero e proprio Götterdämmerung che si sta per compiere. Ma le note della celebre sinfonia eseguite al pianoforte mancano di spessore senza l’impatto dell’orchestra e ne risulta quindi solo una pallida imitazione, come altrettanto mancante si rivelerà l’opera dell’androide. Nel rapporto tra l’androide e Wayland si manifestano subito le incongruenze di status ed è qui apprezzato dai cultori della fantascienza il chiaro riferimento ad Isaac Asimov ed alle sue tre leggi della robotica.

DAvid occhio

Per anni i creazionisti hanno sostenuto che un organo così sofisticato come l’occhio umano non poteva essersi sviluppato per caso, ma necessitava invece dell’opera di un creatore (si veda invece a confutazione il libro “Alla conquista del monte improbabile” di Richard Dawkins) ed in tal prospettiva va interpretato il primo fotogramma del film che ritrae l’occhio di David dal quale la prima cosa che vede è la luce in una metafora neanche troppo sofisticata. Lo stesso nome dell’androide è un nome biblico di colui che sfidò il gigante Golia e che divenne re.  Il riferimento al dio creatore è rafforzato dal titolo stesso “Covenant“, che è il nome della nave spaziale e che in campo biblico esprime il concetto di “patto con dio” ed infatti è funzionale a sottolineare questa implicazione che a capo della spedizione si ritrovi un uomo di fede, contrapposto al “sintetico” Walter che si occupa ed affianca l’equipaggio umano nella missione non per amore ma per dovere. L’origine della vita ed il suo scopo sono in definitiva il lodevole e sempre interessante tema centrale del film, che purtroppo aleggia per aria senza essere mai veramente approfondito.

alien covenant

Oneste le scenografie, anche se ci si sarebbe aspettato qualcosa di più soprattutto relativamente all’astronave ed i suoi ambienti. La prima sembra riciclata dalla serie televisiva degli anni 70 “Spazio 1999″ ed i secondi peccano di un guizzo originale. Mentre è di sicuro impatto, anche se forse un po’ gigionesca, la città aliena. Al netto dei cliché del genere, che vengono religiosamente ripercorsi senza alcuna esclusione (c’è pure il malato che interrogato sulla sua salute asserisce eroicamente di stare bene),  si assiste ad una recitazione decorosa e professionale anche se minata da una sceneggiatura che fa acqua come un colabrodo. Il cast è così politically correct da includere non solo una copia omosessuale, ma anche una copia interraziale, con tanto di scena di sesso in doccia inclusa, per buona pace di chi già incominciava a sentire la mancanza di Charlize Theron.

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Alla fine della proiezione rimane il grattacapo di capire come farà Scott nel terzo episodio a ricollegarsi con il film del 1979. Ad essere ottimisti si tratterà di un colpo da maestro con cui si riscatteranno i primi due brutti tentativi di questa trilogia e si spiegheranno molte incongruenze e curiosità (incluso il cameo di James Franco all’inizio del film), ciò a patto però che si rivedano una buona volta le procedure di atterraggio ed esplorazione di pianeti alieni a vantaggio della credibilità della pellicola. Altrimenti il passo del poema di Shelley «Sono Ozymandyas, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese», rischia di essere un compito veramente poco sfidante. Intanto proliferano su you tube le speculazioni su che fine a fatto il personaggio di Elisabeth Shaw, sul perché David abbia ucciso l’ingegnere alieno e perché mai le astronavi debbano avere quell’irritante voce calma e rassicurante anche quando tutto va a rotoli.

alien xeno

Di base ci sentiamo di raccomandare quanto detto in occasione della recensione di “Life”.  Se sbarcaste su di un pianeta ad anni luce dalla terra da cui trasmettono “Take me home country road” di John Denver e, come se ciò non bastasse a mettervi sul chi vive, trovaste qualcosa di strano per terra, in una caverna o in un antica necropoli, qualunque cosa sia: è meglio non toccare.

The Circle

In un futuro che è ormai presente una internet company è divenuta potentissima grazie ad un’intuizione del giovane genio che ha fondato la società: un unico account per accedere ad ogni funzionalità di internet. Se la mente corre a Face Book è una cosa vostra perché io non l’ho detto. La sua sede assomiglia ad un campus universitario, razionale ed all’avanguardia non solo nella tecnologia, ma anche nel welfare a beneficio dei dipendenti e consumatori. Le sue attività si ramificano sempre più rapidamente ed efficacemente lanciando prodotti che entrano prepotentemente nella vita delle persone cambiandone potenzialità ed abitudini. La giovane entusiasta Mae Holland (Emma Watson) viene assunta grazie alla raccomandazione dell’amica Annie (Karen Gillan) che è già un pezzo grosso della company e subito si mette in mostra per il suo zelo. I colleghi sono simpatici, la vita in azienda è piacevole e coinvolgente e tra i benefit vi è pure un’assicurazione sanitaria che permette a Mae di assistere il padre (interpretato da Bill Paxton nella sua ultima parte prima della sua recente scomparsa) ammalato di Parkinson. Eppure qualcosa non quadra e tutto appare sempre più avvolgente e soffocante, come se la società volesse invadere sempre di più la sfera privata ed intima di ciascuno. Sono forse i due manager che hanno affiancato il fondatore e che mossi da filantropia o forse da ambizione sfrenata stanno varcando il confine tra ciò che è utile e ciò che è lecito? Come si suol dire (e non a caso): il cerchio si stringe.

tom hanks
Tom Hanks ha preso all’ingrosso i diritti di trasposizione cinematografica da Dave Eggers autore dei best sellersThe Cirlce” e  “L’ologramma del re” (attualmente in lavorazione e sempre prodotto da Hanks) e fin qui tutto bene, poiché Eggers è un autore visionario ma calibrato che sa rendere plausibili i suoi scenari. Peccato però che il senso del libro ne viene completamente stravolto, compreso il finale reso in senso diametralmente opposto al messaggio del libro. Nel romanzo c’era pure un personaggio misterioso la cui identità invece nel film viene sciorinata a pochi minuti dai titoli di testa. Siccome alla sceneggiatura ha collaborato lo stesso Eggers non si può dire che gliela hanno fatta sotto il naso. Segno che i soldi non solo fanno ballare l’orso ma fanno fare agli autori delle virate di 180° rispetto ai loro libri. Non tutti ovviamente e va reso merito tanto ai Cormack Mc Carthy, quanto alle Rowling che hanno ceduto sì i diritti di trasposizione delle loro opere ma imponendone un certo rispetto.

L'autore del libro Dave Eggers
L’autore del libro Dave Eggers

Il riferimento alla creatrice di Harry Potter non è casuale visto che la protagonista era la Hermione della interminabile saga e che fuori da quel ruolo stenta a trovare un talento recitativo. A parte il fatto che Mae Holland dovrebbe essere una ragazzotta del ovest americano cresciuta a furia di hamburger e patatine e la fisionomia cosi British della Watson ci azzecca veramente poco, le doti attoriali della fu compagna di scuola del celebre maghetto risultano veramente insufficienti per una parte da protagonista. La cosa risulta ancor più evidente al cospetto di una Karen Gillan che ride, piange, strepita, si entusiasma, si dimena e si abbatte dando una lezione di recitazione che eclissa la Watson e fa rimpiangere di non poterla vederla in un numero maggiore di film.

Karen Gillan in un'ìmmagine del film
Karen Gillan in un’ìmmagine del film

La Adler , distributrice in italia insieme a Goodfilm, ha fatto una scelta al risparmio e non ha fatto doppiare Tom Hank dalla sua abituale voce italiana, il grande ed ormai caratterizzante Roberto Chevalier, per cui l’effetto è strano ed è come se la vostra cara zia vi parlasse con la voce di Milly Carlucci.

Roberto Chevalier
Roberto Chevalier

Il regista georgiano (quella statunitense di Georgia non quella caucasica) James Ponsoldt aveva sino ad ora all’attivo tre film minori ed una manciata di episodi TV, la qual cosa non stupisce considerando l’esito deludente della regia di The Circle. Il vantaggio di un film rispetto ad un libro è la possibilità di usare differenti modalità espressive quali la fotografia, il montaggio delle immagini, la scelta delle inquadrature oltre ovviamente alla musica. Ponsoldt invece non fa che ribattere pedissequamente il libro sottoponendoci a molteplici noiosissimi monologhi ed a conversazioni esplicative, rinunciando ad ogni espediente evocativo o quantomeno simbolico. I personaggi risultano così solo abbozzati, le situazioni poco incisive e la trama in genere è toccata così superficialmente da far sfuggire il senso dell’agire dei protagonisti. Una regia scolastica e didascalica per un soggetto che avrebbe meritato se non proprio la maestria di un Terrence Malick almeno la sensibilità di Tim Sutton (l’autore di Dark Night).

FILE - In this Sept. 12, 2012 file photo, James Ponsoldt, writer/director of the film "Smashed," poses at the premiere of the film at the 2012 Toronto Film Festival, in Toronto. The family of David Foster Wallace is objecting to the upcoming film “The End of the Tour,” directed by Ponsoldt, which is based on David Lipsky’s 2010 book that recounts his accompanying Wallace on a book tour. In a news release issued Monday, April 21, 2014, Wallace’s estate says it has no connection to the film and doesn’t endorse it. (Photo by Chris Pizzello/Invision/AP, file)
Il regista James Ponsoldt

In sintesi: la storia non è quella del libro, il cast è sbagliato (almeno nella sua protagonista principale), la regia insufficiente e la distribuzione italiana così sparagnina da negarci pure la voce di Tom Hanks. Alla fine ci tocca trovare del positivo nel fatto che in Italia i film in sala durano come un gatto in tangenziale, così possiamo sperare in qualcosa di meglio.

Claudio Romano e la potenza del destino (Ananke)

FMM: Come è cominciata la tua avventura nel cinema?

CR: Non so neppure dire se sia mai iniziata, ho semplicemente realizzato qualche film.Diciamo che ad un certo punto della mia vita ho scoperto di amare la poesia ma di non saper scrivere. Ho avuto una strana vita, non saprei individuare con esattezza il momento esatto nel quale il cinema ha fatto irruzione in essa. Sono nato e cresciuto in una famiglia estremamente religiosa, in quella che le persone “comuni” non farebbero fatica a definire una setta. Fino ai miei 18 anni la mia esistenza è stata fortemente normata, disciplinata e forgiata da un’educazione molto rigida. Il mio carattere ribelle ha fatto sì che ne uscissi con conseguenze molto dure che perdurano a quasi venti anni di distanza da allora. Ad un certo punto ho intuito che il cinema, i film, erano come un singhiozzo per me. Un singulto da me e dalle mie pene e, al tempo stesso, un’emanazione di queste. Il cinema è la contemplazione e il dissolvimento nell’attimo presente, è viaggio sciamanico, è la piccola morte, è il dischiudersi del non-duale. Guarisce ed infetta, lenisce e divampa. É il dare voce alla coscienza del mondo nascosta in noi e alla coscienza nostra insita nel mondo. É cooperazione con le energie, è akasha, è śakti, è spirito santo, è kundalini. Ma è anche uno schifoso oggetto di consumo da collezionare, vomitare e defecare. Ha dunque potenzialità infinite. Insomma, tante chiacchiere per una risposta vaga.

Foto di Mario Cichetti 01 Ananke
Sul set di Ananke (foto di Mario Cichetti)

FMM: Quando e come è nata l’idea di “Ananke“?

CR: “Ananke” è nato da una preghiera, dalla spossatezza di vivere. Invece di mangiare il peyote e fare domande ho deciso di fare un film e cercarle lì. E ha funzionato, poiché da “Ananke” tante cose sono cambiate nella mia vita. Io e Betty avevamo preso in affitto una casa, la stessa dove viviamo ora, senza luce né gas, né acqua calda. Era il 2011, a dicembre, con la neve ed il freddo. E, come al solito, senza il becco di un quattrino. Di per sé questa non era una condizione che poteva mettermi a disagio. Ma era abbinata ad una situazione esistenziale davvero infame. Avevo seriamente smesso di capire il prossimo, non ne capivo le azioni, non ne condividevo le esistenze. Non provavo empatia per nessuno, coltivavo l’insofferenza e il rancore, senza motivi precisi. Ero dunque ad un passo dal non essere nemmeno più un essere umano. Mi sentivo disgustoso, apatico. Quindi abbiamo deciso di fare “Ananke“, per capire se là fuori c’era ancora vita. Se è giusto quello che siamo e come decidiamo di vivere. Cosa significa ‘giusto’. Cose così. La lavorazione di “Ananke” è una costellazione di ingiustizie. Non so ancora cosa sia giusto, ma ho sicuramente imparato cosa non lo è. Sono molto contento di averlo fatto.

Foto di Vittoria Magnani 01
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)

FMM: Quali sono state le maggiori difficoltà dal punto di vista tecnico nella realizzazione del film?

CR: Lavorare con un’emulsione fresca. “Ananke” era pensato per essere girato con pellicole Svema scadute da 40 anni, recuperate nell’ex Iugoslavia. Un film già vecchio e fragile ancor prima di essere montato. Poi è andata in modo diverso e abbiamo usato la Kodak Vision3, nuova. Ma ripensarlo con un’emulsione che restituiva un’immagine tanto diversa è stato molto difficile. Alla fine mi sono ritrovato per le mani un telecinema, che è una versione intermedia molto scadente, che di solito viene utilizzata per convenzione solamente per trasferire il film dall’emulsione al software di montaggio. Il master è ancora oggi un telecinema, poiché non ho il denaro per concludere la lavorazione presso il laboratorio. Dunque il master è tecnicamente molto scadente e conserva delle qualità molto interessanti, poiché è la scansione di qualità molto bassa di una pellicola di qualità molto alta. Dunque una involontaria povertà digitale in termini di nitidezza e definizione, che mi riavvicina un po’ all’idea iniziale, ma è completamente un’altra cosa. Un altro aspetto piuttosto impegnativo è stato realizzare la colonna sonora, suoni e composizione elettroacustica. Con Anthony Di Furia abbiamo optato per l’Ambisonics, uno standard che nel cinema non ha mai avuto fortuna, ma che è senza ombra di dubbio ancor più interessante ed espressivo dell’Atmos della Dolby.

Anthony Di Furia
Anthony Di Furia

FMM: Chi è stato il tuo braccio destro durante questo percorso?

CR: Betty naturalmente. In questo percorso come in tutti gli altri. Con lei ho creato la mia famiglia e creo i miei film, dunque siamo in comunione totale. Senza Betty e i suoi stimoli mi sarei già stancato del cinema e della vita.

Claudio Romane ed Elisabetta L'Innocente sul set del film
Claudio Romane ed Elisabetta L’Innocente sul set del film

FMM: Quali errori non dovrebbe mai commettere un regista in pre, in post e durante la produzione?

CR: Quello di non cambiare idea, di blindarsi dietro a scalette, ordini del giorno e sceneggiature. Non deve smettere di osservare e lasciarsi guidare. E’ bene pianificare, o essere fedeli ad un’idea o ad un tema, ma non bisogna zittire il proprio intuito, la propria coscienza. Non vogliamo ammetterlo, perché altrimenti saremmo quasi tutti senza un lavoro, ma molte cose nel cinema non hanno niente a che vedere con i meriti umani. Una delle più grandi abilità di un cineasta è quella di annullarsi e mettersi in ascolto. Di suo deve solo mettere la capacità di non fare niente. Mettersi da parte, farsi attraversare da ciò che si filma, che si tratti di un albero, di un cane, di una sedia o di una persona.
Deve morire in quello che trova, non per quello che ha e che pensa di essere.

FMM: Rivedendo il film c’è qualcosa che cambieresti oppure l’attuale versione è un’autentica director’s cut?

CR: É inevitabilmente il frutto di scelte, è uno degli infiniti film possibili. A distanza di tempo, se dovessi farlo ora, sarebbe diverso, credo sia naturale. Ma “Ananke” è quello che doveva essere nel 2015, quindi è quello che deve essere ora. Dovrei vederlo in pellicola per rispondere alla tua domanda correttamente, è quella la versione definitiva del film. Versione che non ho mai visto né conosciuto, come dicevo poco sopra.

ananke locandina

FMM: Cosa vorresti che notassero gli spettatori nella tua opera?

CR: Se stessi. In un uomo, una donna, una capra, una bimba e un albero. Vorrei che immaginassero cosa c’è fra un’inquadratura ed un’altra, fra gli stacchi di montaggio. Vorrei che abitassero quelle frazioni nere. É quello “Ananke“. Ed è quella la necessità del cinema.

FMM: Qual è il complimento più bello per un regista?

CR: Non so, un regista non dovrebbe mai ricevere complimenti. Il rischio è quello di illuderlo di avere meriti, mentre il suo compito è azzerarsi, annichilirsi. Si parla dello sguardo di questo o quel regista. La questione dello sguardo per me è semplice: non si tratta di decidere da che angolazione, posizione e in quale modo osservare e raccontare le cose, ma decidere la posizione dalla quale si sceglie di morire. Per me fare un film è inseguire un ricordo, un qualcosa che è già morto qui nel momento in cui si è manifestato. Ma anche da morto quel ricordo continua a manifestarsi; mediante un film, ad esempio, che è uno squarcio fra mondi. Il ricordo è una realtà parallela che vive di vita propria ed esiste altrove, come le anime dei morti. Ne cerco i riverberi nella “nostra realtà” filmabile e con essi tento di ricongiungermi. Come l’indio cacciatore, che con la rana si avvelena per vedere meglio di notte, nella selva. E alla fine solo io posso essere testimone di questa esperienza. Quello che dicono gli altri non ha nulla a che fare con questo.

Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)

FMM: Parlaci dei tuoi nuovi progetti.

CR: Con Betty ho da poco terminato “Incanto”, il nostro secondo lungometraggio. Si può considerare il sequel di “Ananke”, o il prequel di “Liebe”, non saprei proprio. Ecco, “Liebe”, probabilmente è il sequel di “Incanto”. É la scoperta dell’amore nell’aldilà, nel cinema e nella vita. Che poi sono tre modi diversi per definire la stessa cosa: l’esistenza che si dispiega sulle possibilità. Questo film è ancora in fase embrionale, non abbiamo ancora appoggi produttivi. Dobbiamo ancora individuare la strada da seguire, non sono molti (nessuno?) i produttori che ci appoggiano. Ma sia io, che Betty, siamo ottimisti.

Marco Casolino, protagonista di "Ananke" (foto di Vittoria Magnani)
Marco Casolino, protagonista di “Ananke” (foto di Vittoria Magnani)

FMM: Un augurio per un giovane autore.

CR: Di essere sempre umile ed umano, vicino a se stesso e a ciò che lo circonda. Di non sedersi mai e di aver fame e voglia di conoscere meglio i misteri che ci avvolgono, ovunque egli li individui. Di non essere avido, di non badare alle cose materiali. Di essere un buon vicino di casa, un buon cittadino, un affabile amico per gli sconosciuti. Di continuare a studiarsi e studiare, di cambiare sempre idea, di non essere mai coerente con niente e nessuno. Di avere rispetto, di non perdere tempo e di coltivare l’ozio e il silenzio. Di saper ascoltare i piccoli oggetti, gli animali, le persone vicine e lontane, la luna, il vento e la notte e le anime dei defunti. Di continuare ad amare fino all’ultimo alito di vita. Insomma, di essere felice.

Passengers

L’ultima fatica del norvegese Morten Tyldum (classe 1967) è un film di fantascienza che trae spunto dai viaggi interstellari per narrare in realtà della solitudine e lo spirito d’adattamento. Dopo l’eccellente prova di “The Imitation Game“, la storia del matematico Alan Turing interpretato da Benedict Cumberbatch, c’era molta curiosità di vedere cosa avrebbe realizzato con i larghi mezzi della Village Roadshow .

Photo by Rob Latour Morten Tyldum, Jennifer Lawrence and Chris Pratt Sony Pictures presentation at CinemaCon, Las Vegas, America - 12 Apr 2016
Photo by Rob Latour
Morten Tyldum, Jennifer Lawrence and Chris Pratt

La Avalon è una nave interstellare che trasporta 5.000 coloni verso un pianeta distante 120 anni dalla terra. Jim Preston, un meccanico interpretato da Chris Pratt, il quale nonostante le precedenti esperienze stellari con “I guardiani della Galassia” non è abbastanza famosetto da guadagnarsi la prima posizione dei crediti rispetto alla lanciatrice di frecce Jennifer Lawerence, viene risvegliato per un errore dal suo sonno criogenico e si trova unico essere vivente ad aggirarsi nell’astronave quando ancora mancano 90 anni alla destinazione.

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Ovviamente le prova tutte per ibernarsi nuovamente o per trovare una qualsiasi soluzione, ma ogni messaggio verso la terra impiega 16 anni ad arrivare e gli automatismi della nave gli impediscono di accedere alle aree dell’equipaggio (anch’esso ibernato in ogni caso) per ricevere aiuto o per interagire con i comandi della nave. L’unica interazione possibile è con Arthur, l’androide barman interpretato da un sempre bravo Michael Sheen, che con la sua intelligenza artificiale dispensa un’empatia che non può sostituire il calore umano.

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La prospettiva di vivere da solo per tutto il resto della vita su una nave deserta, seppur con tutti i comfort, porterà Jim a compiere delle scelte che l’antesignano computer di bordo Hal 9000 di “2001 odissea nello spazio” avrebbe definito discutibili. Ed il riferimento al film del grande Kubrick non è l’unico, poiché vi si ritrovano brani di “Castaway” , dove Arthur gioca la parte che fu di Wilson per Tom Hanks, di “Titanic“, con tanto di citazione esatta nella battuta “Ti fidi di me?”, ma anche “Robinson Crusoe“, perfino un pizzico di “K-19” e “Silent Running“, tradotto ingloriosamente in italiano con “2002 la seconda odissea” , che narra di un arca spaziale che custodisce le ultime forme di vita vegetali della terra; nelle scene in cui Preston si prodiga ad aggiustare i robot difettosi, come non pensare infatti a Bruce Dern perennemente impegnato a riparare la sempre più fatiscente astronave in cui si è volontariamente esiliato!?

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C’è quindi un po’ di tutto, ma forse per questo alla fine si amalgama non perfettamente, con il risultato che il film non sa decidersi tra il tono sentimentale, d’azione, catastrofico o puramente esistenzialista. Rincorrendo tutti i temi, li sfiora ma non ne tocca mai nessuno e lascia così il palato asciutto agli amanti di ciascun genere. Scenografie impeccabili e abbastanza plausibili, effetti visivi pure (la scena già bruciata nel trailer della Lawrence alle prese con una piscina senza gravità è veramente spettacolare), ma manca l’originalità, già ipotecata all’inizio quando alla prima scena ci viene tolto il gusto di scoprire man mano perché mai Preston viene risvegliato e totalmente mancante poi alla fine dove la trama prosegue noiosa verso un prevedibilissimo finale. Unico sopravvissuto dell’opera filmica è il messaggio con cui Jon Spahits, a cui si deve la sceneggiatura anche di “Prometheus” (ah saperlo prima, sarebbe già stata una sufficiente indicazione), ci dice in maniera grossolana che ogni posto è quello giusto e l’importante è vivere il momento al meglio che si può e con chi si è. Un’idea un po’ beat che piacerebbe a Crosby, Stills e Nash autori della famosa canzone “Love the One You’re” (che però, tranquilli, non è nella colonna sonora).

Un incontro con Marco Maccaferri l’autore di Double arms Andorid Device (D.A.D.)

Finalmente il coraggio di girare un film fuori dal coro in mezzo a un mare di drammi e di commedie. Ci sintetizzi trama e senso del film?
Il film e’ essenzialmente un racconto di formazione che ha al centro una bambina di 8 anni. Nell’arco del film diventa adulta nel momento in cui critica l’operato dei genitori, lanciando loro un segnale di allarme e di disperato aiuto. Abbandona l’universo infantile ed ha bisogno di una guida che stenta a vedere nei propri genitori. E’ in gioco il suo futuro, non vuole cedere all’angoscia per le sue sicurezze che stanno per incrinarsi.

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Nel film si contano ben 21 personaggi, c’è per te un vero protagonista?
Il racconto è stato quasi completamente svuotato di plot narrativo. La bambina cade in un buco scavato in una specie di cava e vive la propria trasformazione accanto a persone a loro volta piombate nello stesso posto. Tutti scappano da un misterioso attacco che ha cancellato le loro identità, un attacco alle loro sicurezze borghesi, un attacco che distrugge rapporti famigliari ed equilibri sociali faticosamente raggiunti.
Un brandello di umanità che pur essendo in una situazione di mistero e pericolo cerca di sopravvivere aspettando che la situazione cambi. Il ritmo della vita odierna in cui non abbiamo più’ tempo o dove il tempo non esiste più, dove parliamo tutti di noi e tra noi senza apparenti pudori, si è improvvisamente annullato ed ha perso significato. La morte ha perso significato. Infatti il rapporto madre e figlia più sviluppato nel racconto è esemplare, con il suicidio della madre sparisce questo ruolo lasciando nel buco tutte donne senza figli o famiglia.
La nostalgia per il passato non c’è più, l’oggi è stato distrutto.
Come hai lavorato con questo elevato numero di attori?
Agli attori ho dato pochissimi appoggi sui personaggi da loro interpretati, non sapevano nulla o quasi su chi fossero, m’interessava vedere un gruppo di persone in una situazione anomala ed estrema senza più legami con la loro identità sociale passata. Poca trama, solo il presente, un cast poco omogeneo e catturato da diverse esperienze lavorative. Gli attori sono il personaggio, ho adattato le caratteristiche della persona/attore al personaggio stesso.

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E’ un film che si può’ definire indipendente?
Il film, prodotto da “L’Isola Produzione” e’ stato girato in 18 giorni, finanziato dal Mibact e dalla Film Commision Lombardia, film indipendente anche se ha avuto una distribuzione ufficiale con Istituto Luce.

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D.A.D. e’ un film che sicuramente definiamo fantasy, sei d’accordo?
La parte centrale di questo film chiaramente metaforico ed onirico è stata girata con inquadrature medio-larghe, soprattutto con il 50 e 35 mm. Questo per rendere efficace la messa in scena corale e per dare un impianto realistico ad una struttura drammaturgica comunque astratta e fantasy. Il prologo ed epilogo, apparentemente più realistici, invece procedono per ellissi e jump-cut.

Marco Maccaferri sul set di D.A.D.
Marco Maccaferri sul set di D.A.D.

Il genere del film è fantasy, sicuramente un genere poco praticato in Italia poiché poco incoraggiato da produttori e distributori e tutto sommato guardato con diffidenza dagli spettatori troppo attratti dai Maestri americani. Io sono un appassionato del genere fantascienza, horror e fantastico in generale, fin da quando da bambino divoravo i racconti della collana ‘Urania’. Ho sempre pensato che il mistero insito nel racconto fantastico spiazzi lo spettatore ed i protagonisti stessi della storia, stravolgendo le loro vite ed i loro sguardi, aprendo al tempo stesso un universo sconosciuto ed affascinante da esplorare. Il film che mi ha illuminato e’ stato ‘Gli uccelli’ di A.Hitchcock, una storia edipica tutto sommato scontata ma folgorata, incoraggiata e risolta dall’apparizione e cambiamento degli uccelli, solitamente innocui ma ora crudeli ed assassini.
Come la vita degli uccelli può cambiare, potrebbe cambiare anche la nostra, no?

Asphyxia al Short Film Corner di Cannes 2016

Asphyxia di Alessandra Angeli è un mediometraggio di ben 45 minuti che sarà presentato al festival di Cannes nella sezione “Short Film Corner” il prossimo 20 maggio nella  sala F del Palais du Festival (alle ore 11,50 per i fortunati che si aggireranno da quelle parti). La fantascienza al femminile italiana, accomuna tre elementi uno più raro dell’altro senza che si sappia bene da dove incominciare. La storia è ambientata in un futuro prossimo dove Emily, Michael e Connor sono costretti a fuggire e a rifugiarsi in un mausoleo in rovina, guidati da Ivan, un militare. I rifugiati si preparano a incamminarsi per ritrovare i propri familiari. Nella veglia e nel sonno i loro ricordi ci mostrano come hanno dovuto cominciare a vivere costantemente tramite bombolette d’ossigeno e perché sono dovuti fuggire. Una forma d’inquinamento ignota ai comuni cittadini sta moltiplicando i suoi effetti nella terra, nell’acqua, nell’aria e sta cominciando ad agitare i cieli. La crosta terrestre sta soffrendo e reagisce togliendo la linfa vitale: l’ossigeno.

Asphyxia locandina

Abbiamo incontrato l’autrice Alessandra Angeli che ha curato la sceneggiatura, la regia e la produzione.

MMM: Come è nata l’idea di Asphyxia?

AA: Il soggetto è stato concepito nel 2009 quando stavo per prendere la laurea breve nel Cinema all’Università di Pisa. Dopo aver partecipato a vari lavori e averne visionati altrettanti, per la maggior parte secondo me di qualità molto in difetto rispetto alle produzioni estere, ho sentito la forte necessità di esprimermi.

MMM: Ma nelle intenzioni era un corto o un lungometraggio?

AA: Scrissi la sceneggiatura per un lungometraggio. Volevo combinare un’idea forte, originale, che non si fosse ancora vista in nessun film, insieme al mio genere preferito, quello fantascientifico-catastrofico. Il genere fa pensare a un’impresa impraticabile per una troupe indipendente. L’idea mi è venuta guardando un video di sensibilizzazione verso l’ambiente: l’inquinamento è aggravato dalle deforestazioni e dalle ingenti emissioni di CO2 che ogni anno immettiamo nell’aria. Così ho combinato il mio genere preferito con un tema a me molto a cuore, quello dell’ambiente, e con un’idea catastrofica praticamente invisibile e, se non verosimile o futuristica, già attuale: quella dell’ inquinamento dell’aria. Ho portato alle estreme conseguenze quello che potrebbe succedere se continuassimo ad ignorare i vari accadimenti devastanti causati dall’inquinamento, sentori che ci avvisano già tutti i giorni da tutte le parti del mondo e che ci danno preoccupanti previsioni sul futuro, il tutto collocato in un’atmosfera post-apocalittica.
Dopo aver scritto la sceneggiatura adatta per un lungometraggio, ne ho ricavato una riduzione diversa e più semplice per la realizzazione di un mediometraggio.

Alessandra Angeli
Alessandra Angeli

MMM: come trovare le location giuste e rendere l’atmosfera per un progetto così ambizioso?

AA: Trovare i luoghi giusti per un’ambientazione apocalittica non è stato difficile. E’ bastato guardarsi intorno, tutto quello di cui c’era bisogno è già presente sul nostro territorio senza dover ricorrere necessariamente a studi cinematografici. L’ambientazione è riuscita grazie anche al contributo degli oltre 100 effetti visivi realizzati da Alessio Barzocchini e all’accurato lavoro di color correction d’ambientazione eseguito da Samuel Giraffi e da me. Sul nostro territorio abbiamo paura di azzardare generi diversi da quelli che sono sulla nostra strada, ma è proprio questa la sfida che dovremmo imporci non solo per tornare sui nostri passi, ma per competere con il cinema di seria A.

tornado

Importanti collaborazioni, da parte di chi si era interessato alla sceneggiatura, hanno reso l’ambientazione futuristica, come quella del Prof. Gianfranco Rizzo della facoltà di Ingegneria dell’Università di Salerno che ci ha raggiunti fin sul nostro set con un’auto di ultima generazione, ibrida e con impianto fotovoltaico, una macchina ad alimentazione solare che ha fatto parte delle scene del film, guidata dai nostri protagonisti. Il gruppo di softair del Battaglione Lucchesia ha partecipato come truppa militare a bordo dello scenografico hammer.

hammer
La giornalista del Tirreno Rossella Lucchesi come giornalista televisiva. Il giornalista televisivo Giuseppe Bini come meteorologo. La combattente militare Camilla Daldoss. L’aggressore sciacallo Victor Deda e tutti gli aggressori del corso di Wing Chun del maestro Romeo Michelotti per le scene di combattimento. Il cantante lucchese Gildo dei Fantardi come barbone ecc ecc.

MMM: Oltre ad autrice sei però anche attrice.
AA: Nel film ho interpretato uno dei miei quattro personaggi protagonisti, Emily. Gli altri personaggi coprotagonisti sono interpretati da Alessandro Baccini, Moreno Petroni e Michael Segal. Gli oggetti del desiderio dei protagonisti, impegnati nel ritrovamento dei propri familiari, sono interpretati da Daniela Bertini e Andrea Vangelisti.

MMM: Parlaci del cast tecnico

AA: Per il film ho rivestito spesso vari ruoli che costituiscono una troupe intera. Questo è ciò che può comportare la realizzazione di un film indipendente. Sul set non ci sono state praticamente donne, ma è stato molto difficile anche per uomini e ragazzi reggere il ritmo di un progetto così impegnativo. Abbiamo svolto le riprese spesso al freddo, nel fango, sotto la pioggia e con tempi stretti; insomma non è stata una passeggiata. Oltre all’organizzazione e alla regia ho curato il montaggio. La musica originale a cura di Giovanni Puliafito ha calato il film nella giusta atmosfera; il sound design, ricreato quasi interamente in post-produzine, è curato da Andrea Pasqualetti; alla camera Simone Tognarelli, già selezionato lo scorso anno nella stessa sezione al Festival de Cannes con un proprio cortometraggio; come prezioso assistente di regia tuttofare, Antonio Ferazzoli, senza il quale tante scene non avrebbero potuto essere girate.

Aspyxia il cast
MMM: Qual è il percorso intrapreso ora da Asphyxia?

AA: Il teaser trailer di Asphyxia, prima ancora che fosse terminato, fu selezionato dal Trailers Film Festival di Catania nella sezione “Pitch Trailer”. Il trailer in seguito è stato presentato nella sala conferenze della Camera dei Deputati a Montecitorio in occasione della proiezione del film “Una Ragione per Combattere” di Alessandro Baccini.
Adesso siamo in attesa della proiezione all’interno del Marché del Festival de Cannes, stante la difficoltà dei cortometraggi di vedersi distribuiti, questo lo consideriamo già un bel traguardo.
L’obbiettivo principale però sarà quello di vedere la sceneggiatura di Asphyxia diventare un film vero e proprio per il cinema.

sito ufficiale di Afphyxia

https://www.facebook.com/asphyxiafilm

 

Alessandra Angeli
Alessandra Angeli

Sarà Ana De Amas la nuova Rachael in Blade Runner 2

E invece non è completamente vero. Nel senso che la bella cubana (classe 1988) farà sì parte del cast del sequel del film di Ridley Scott, ma non si conoscono ancora i dettagli su ruoli e trama. Cosa ne sarà del ruolo di Rachel che fu della affascinante Sean Young ancora non si può dire.

Sean Young in Blade Runner
Sean Young in Blade Runner

Si sa invece che nel cast oltre a Robin Wright e Ryan Gosling ci sarà anche Dave Bautista (I Guardiani della Galassia , Riddick, Spectre) che ormai sembra  specializzato in ruoli nei film di fantascienza. Ci sarà anche Harrison Ford intento a passare il testimone dell’ormai attempato ed ex detective Rick Deckard al neofita Gosling.  Sembra quindi confermarsi la tendenza che vede ultimamente Harrison Ford aggirasi come un fantasma in trame che gli furono fortunate in età più verdi.

Ryan Gosling in una scena del nuovo Blade Runner
Ryan Gosling in una scena del nuovo Blade Runner

Certo che dopo l’amara esperienza del prequel di “Alien” (Prometeus) a sentir parlare di un sequel di Blade Runner vien da metter mano alla pistola. Tanto più se si pensa che mentre Blade Runner ha una ascendenza blasonata che deriva dal genio di Philip K. Dick (il film fu tratto infatti dal racconto dell’autore “Ma Gli Androidi Sognano pecore Elettriche?“) questo sequel nasce ex-novo senza alcun conforto letterario. Unico elemento ansiolitico è che dei due sceneggiatori, Hampton Fancher e Michael Green, il primo fu co-sceneggiatore dell’originale (all’epoca insieme a David Peoples). Speriamo in bene, ma temiamo comunque il peggio.

Dal fumetto al cinema e… ritorno

Dal 19 marzo al 5 giugno si tiene a Milano presso WOW Spazio Fumetto, in Viale Campania 12, una mostra-evento che celebra la saga di Star Wars.
I costi dei biglietti sono veramente popolari se si pensa che l’ingresso intero è di 5 euro, ridotto 3 euro (bambini fino ai 10 anni, over 65, tesserati WOW), convenzionati 4 euro Orario. Gli orari sono pomeridiani: da martedì a venerdì, ore 15-19; sabato e domenica, ore 15-20. Lunedì chiuso. La mostra è allestita in collaborazione con l’Associazione Galaxy, La Bettola di Yoda, 501st Legion Italica Garrison e Rebel Legion Italian Base. Grazie alla preziosa partecipazione di Panini Comics propone per la prima volta in Italia il più completo percorso espositivo mai dedicato alla saga di Star Wars unendo due aspetti fondamentali: la passione dei fans, che prestano i gioielli delle loro collezioni private, e lo straordinario percorso editoriale compiuto dai fumetti parallelamente al cinema, dal 1977 (e ancora prima come fonte d’ispirazione) ad oggi.

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Già abbiamo rimarcato in diversi articoli su questa rivista il forte rapporto (intensificatosi negli ultimi anni) tra il mondo del fumetto e l’industria cinematografica. Sia nella realizzazione di film live action che nelle opere di animazione i produttori attingono a piene mani dai successi editoriali dei fumetti. Non si pensi solo al mega fenomeno Marvel e DC Comics, ma anche a quanto si rivolge all’universo manga (Di Caprio produrrà la versione Live Action di Akira, mentre Netflix si accinge a produrre una serie ispirata a Death Note) ed a quei capolavori che sono alcune graphic novel (“Watchmen” e “La Leggenda degli uomini Straordinari” di Alan Moore e le saghe di “Sincity” e “300” di Frank Miller, per citarne solo alcuni). Spielberg, impareggiabile cacciatore di tendenze, non ha disdegnato di produrre “Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno” ed anche produzioni più piccole come la giapponese  Deiz Productions si è cimentata con il lungometraggio Sci-Fi “Avalon“diretto dal regista di “Ghost in the shellMamoru Oshii.

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Avalon di Mamoru Oshii

Non si può non notare come questo fenomeno sia in atto un po’ dappertutto, Francia compresa dove Ian Kounen realizza il western visionario “Bluberry” attingendo a piene mani dall’opera del grande disegnatore Moebius, tranne che in Italia dove pure c’è una prolifica produzione fumettistica. Tra “Tex e il signore degli abissi” (1985) di Duccio Tessari (con un imperdibile Bonelli, proprio lui, nella parte dell’indiano con tanto di penne e pitture di guerra) e Dylan Dog del 2010 (la cui produzione si badi bene è però a guida statunitense) sono ben poche le pellicole italiane tratte dalla produzione nostrana di fumetti. Le cause vanno ricercate da un lato nei costi di produzione, perché vien da sé che costa meno disegnarla un’astronave di Nathan Never piuttosto che riprodurla su schermo, ma dall’altra c’è l’inveterata attitudine italiana volta alla realizzazione del capolavoro autoriale che lascia poco spazio all’intrattenimento.

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A volte si è additato il ricorso al fumetto come all’effetto di una pochezza di idee ed è in molti casi un’intuizione niente affatto peregrina, ma anche ostracizzare strutturalmente una realtà culturale (e popolare) come il fumetto costituisce un limite di segno opposto. La saggezza dei proverbi dice che è la dose a fare il veleno e quindi possiamo auspicare che il cinema italiano recuperi in video almeno qualcosa di quanto di buono c’è nel fumetto patrio. Si è fatto sino ad ora così poco che anche facendo molto d’ora in avanti, difficilmente si giungerà a dosi… letali.

il disegnatore Oscar Scalco alla manifestazione di WOW spazio Fumetto
il disegnatore Oscar Scalco alla manifestazione di WOW spazio Fumetto