Ride

REGIA: Valerio Mastandrea

ATTORI: Chiara MartegianiRenato CarpentieriStefano DionisiMilena VukoticSilvia GalleranoEmanuel BevilacquaMilena ManciniGiordano De Plano

L’opera prima di Valerio Mastandrea approda alla 36^ edizione del  Torino Film festival con un nutrito plotone che conta il cast artistico e tecnico, i produttori ed i distributori, con la presenza dei  sommi vertici costituiti da Paolo Dal Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema e Luigi Lo Nigro, direttore commerciale di 01 e neo presidente Anica (strano caso in cui colui che non ha le deleghe dalla propria azienda ricopre invece il vertice nell’associazione di categoria).

Un’improvvisa morte di un giovane lavoratore lascia un’altrettanto giovane moglie Carolina, interpretata da Chiara Martegiani (classe ’87) , alle prese con un figlio, i rapporti complicati con una famiglia disgregata, i problemi di un funerale mediatico e soprattutto con le cure di un figlio alle soglie della pubertà.

L’elaborazione del lutto ed il rapporto intergenerazionale che attraversa tre generazioni è al centro di questo dramma tratteggiato sullo sfondo delle morti bianche in una cittadina di mare come Nettuno.

Ad un acuto dolore segue un limbo in cui tutto è sospeso, anche il dolore. Una sorta di apnea in cui l’unico rifugio non è nemmeno il ricordo ma una dimensione onirica che Mastandrea sa rendere con il progetto sonoro e con altri semplici espedienti registici, senza però mai esagerare e conservando al contrario una spietata plausibilità quasi documentaristica.

Asciutto e  ben congegnato il testo scritto a due mani da Mastandrea ed Enrico Audino conduce ad un film non certo facile ma ben godibile e molto intenso. La bravura dei bambini nella recitazione è ormai assiomatica e qui è confermata dai due giovani Arturo Marchetti (precocemente saggio tanto che nel breve incontro dopo la proiezione ha dichiarato di non voler più fare cinema) e Mattia Stramazzi, ma altrettanto bravi gli adulti specialmente i più maturi come Renato Carpentieri , suocero di Carolina, e Walter Toschi, che interpreta la difficile parte di un ex lavoratore colpito da ictus e la bravissima Milena Vukotic. Più incolore appare Stefano Dionisi, ma chi sta meno nel ruolo, che pur è quello centrale, è proprio Chiara Martegiani, forse troppo giovane o forse semplicemente troppo lontana da questi temi per poterli restituire con credibilità.

La produzione è frutto della collaborazione tra Kimera Film e Rai Cinema, con l’intervento dei fondi del Mibact. Un prodotto senz’altro di qualità ma che non ha alcuna vocazione internazionale ed in definitiva un film che se fosse stato proposto alle reti RAI da un qualsiasi distributore indipendente avrebbe avuto un secco rifiuto poiché difficilmente avrebbe trovato il canale disposto a trasmetterlo. Certo che se invece a cantarsela ed a suonarsela è il medesimo soggetto avremo la fortuna di vederlo in TV ed i produttori avranno il conforto di rientrare degli investimenti, tanto, Kimera a parte (e il nome è già un programma), il portafoglio, che sia una qualsiasi delle emanazioni RAI o il MIBACT, è sempre quello dei contribuenti.

La redazione

Lucky… Black

Le dimissioni di Andrea Occhipinti da presidente dell’ANICA sono un atto doveroso, necessario, inevitabile e auspicabile.

Avere la botte piena, la moglie ubriaca e l’amante ubriaca è veramente troppo in un  settore così devastato come il cinema, e Occhipinti ha voluto esagerare: fondi pubblici, cessione a Netflix, la Mostra di Arte Cinematografica di Venezia e insieme sala e televisione. Intendiamoci, tutto lecito all’altare dei soldi per un produttore, ma per carità non per il Presidente dei distributori!

La locandina del film “Sulla Mia Pelle” prodotto da Lucky Red ed in esclusiva su NETFLIX

Netflix sta facendo tutto il possibile per destabilizzare il mondo cinematografico che è così sottocapitalizzato che pur di guadagnare poco più degli immigrati in un campo di pomodori, i produttori cedono a Netflix tutto, anche le mogli, pur di evitare le spese di distribuzione. E dire che un film se non viene lanciato dal cinema, sembra non esista!

Ma ci pensano i Festival a fare da trombettieri per Netflix, tanto a loro cosa interessa, paga tutto lo Stato!

Il risultato di questa politica devastante è presto descritto: se devo andare al cinema, magari in una saletta da cinquanta posti, pagando quasi nove euro, mi abbono con gli stessi nove euro, ma per un mese (cioè quanto il canone RAI), a Netflix e i film me li vedo molto più comodamente sdraiato sul divano di casa, senza pubblicità, senza Vespa, senza telegiornali, senza rotture.

E’ un ragionamento brutale ma la concorrenza è questa, soprattutto se non ci sono più regole!

Michele Lo Foco

La vittoria di Netlfix a Venezia

La vittoria di Netflix a Venezia e’ il perfetto risultato di una confusione concettuale cui la sinistra e Baratta hanno dato il loro sostanziale sostegno.

Paolo Baratta e Alberto Barbera alla 73esima edizione del Festival del cinema di Venezia

tutti i telegiornali e i commentatori si sono precipitati a elogiare il vincitore , con quella solita plageria che sa sempre di richiesta di accettazione, ma nessuno ha osato accennare che il film è stato prodotto da quella mega società multimilionaria che sta togliendo l’aria al cinema.

Eppure il problema era ben presente sul tappeto , visto che il festival di Cannes aveva negato l’ingresso a film non programmati al cinema mentre il presidente dei distributori italiani aveva tradito tutti affidando a Netflix il suo film su Cucchi approfittando di una demenziale norma che consente di non uscire obbligatoriamente al cinema se il film viene programmato in un festival.

Alessandro Borghi in una scena del film su Cucchi “Sulla mia pelle”

ovviamente le norme italiane sono tutte frutto di una regia maligna coordinata da Anica che anche in questo caso ha ritenuto di non fiatare, mentre gli esercenti, caduti nella trappola, si sono resi conto che la loro fine si avvicina.

Il festival di Venezia si chiama esattamente festival d’arte cinematografica e per questo Barbera si è sperticato a ripetere che un prodotto è un prodotto e che a lui non interessa il seguito: era evidentemente stato ben istruito e aveva capito che senza Netflix il suo festival sarebbe stato più fragile di quello che è comunque stato.

Anche l’incompiuto film di Orson Welles “The other side of the wind” è stato completato con le risorse finanziarie di Netflix

Resta il dato sconfortante che i soldi stanno minando tutto il tessuto imprenditoriale e artigianale del settore, tutti sono a caccia dei soldi di netflix e anche la Rai che ha da tempo imbrigliato la produzione si sta piegando alle logiche del meglio poco e subito piuttosto del rischio sala.

Finisce così nelle mani di Netlix e di una manciata di giovinastre russe pronte a tutto la nostra manifestazione di punta, glorificata da giornalisti improvvisati o modesti alla caccia di qualche notizia e di qualche volto decoroso da esibire sempre e solo in televisione.

Michele Lo Foco

 

Il sapore del Festival di Venezia

Il Festival di Venezia di quest’anno ha un sapore strano, un odore strano : difficile capire sul momento quale sia la causa del  disagio ambientale, che inizialmente puoi attribuire al tempo umido e piovoso,o alla solita mancanza di taxi, che incide sull’umore. No non e’ questo il motivo: i film? Certo non è una mostra delle migliori , molti prodotti miserelli , alcuni inutili ,altri cacciati dentro a forza , altri ancora esclusivamente americani. Le giornate degli autori poi vivono una vita autonoma , addirittura ignorata dal festival principale, e forse avrebbero potuto riservare delle sorprese, ma non lo sapremo mai.

 

la Hall dell’hotel Excelsior

i film, certo, ma c’è qualcosa in più, ed entrando all’Excelsior si comincia a capire che l’ambiente si è intorpidito, decisamente involgarito. Girano nella hall valchirie russe, cosi’ sembrano, seminude, seguite da ceffi che le fotografano in versione selfie senza sapere ovviamente chi siano, contornate da pseudo giornalisti a caccia di interviste o semplicemente a caccia, pronte a calpestare il tappeto rosso di qualunque film, fosse anche un cartone animato, a patto di piroettare per sollevare anche quel poco che le copre.

Una guerriera elvetica fuori dall’Excelsior

Gli spazi sono percorsi da poveri disgraziati che si lavano nelle toilette dell’Excelsior e che non si possono permettere nemmeno un caffè al bar più costoso del mondo: seduti , invece, con l’aria tronfia e ghignante, ciccioni che parlano di attori come fossero noccioline, biascicando piani finanziari fiabeschi nella speranza che qualcuno li senta. Ogni tanto un’ondata di persone travolge il corridoio al seguito di un attore più famoso, che non può né attendere né andar via, semplicemente non può.

La Toyota ha letteralmente spazzato via l’industria automobilistica nazionale dal Festival.

C’e’ un ‘aria di miseria morale, mentale e sociale in questo festival, che accompagna lo stanco ripetersi delle formule e delle liturgie cinematografiche : si sente che il cinema sta esalando gli ultimi respiri inghiottito in Italia dai burocrati televisivi, ricercati più delle star e sempre in perenne movimento.

La terrazza Campari impraticabile per pioggia

Per fortuna  c’è Venezia, e il lido, che sorreggono la scena con la loro assoluta incondizionata bellezza.

 

Michele Lo Foco

 

Peterloo

Il titolo dell’ultimo film di Micke Leigh è un a crasi tra le località di Peterfield ed il celebre luogo dove si svolse la battaglia di Waterloo. Ed è proprio durante la battaglia durante la quale l’inglese duca di Wellington  sconfisse Napoleone che inizia il film con l’inquadratura di un frastornato trombettiere che vaga sul campo di battaglia tra fumo, fragore di armi da fuoco, urla e morti. Presagio del finale che non è un mistero per chiunque conosca la storia del massacro di Peterfield, quando la cavalleria del re caricò la folla riunitasi a Manchester il 16 Agosto del 1819  per ascoltare il comizio del radicale Henry Hunt (Rory Kinnear).

Rory Kinnear

Il film approfondisce il quadro sociale dell’epoca, i personaggi storici e le dinamiche che portarono a quell’eccidio e lo fa con una fotografia che richiama i quadri dei ritrattisti dell’ottocento inglese (già apprezzata nel suo premiato “Turner” con Timothy Spall), unica concessione all’immagine che per il resto rimane relegata in secondo piano rispetto alla parola. D’altronde è un film sull’oratoria e gli “speech” dei giudici, come degli agitatori, piuttosto che dell’elite politica dell’epoca sono lo strumento attraverso cui lo spettatore misura le distanze tra gli strati sociali e la profondità dell’indigenza del proletariato.

Mike Leigh in sala dopo la proiezione a Venezia

E’ una denuncia della mentalità mercantilista dell’era industriale e dei suoi nefandi effetti, attuali ancora oggi. Pure il protezionismo è messo all’indice. All’epoca di quei fatti il protezionismo fu applicato dalla Corona alla produzione di grano inglese contro le importazioni dalle americhe e dal continente, sebbene inteso come incentivo alla produzione nazionale, divenne invece, a causa di una carestia, la causa di un rialzo vertiginoso dei prezzi che affamò i poveri spingendoli a rivendicazioni non sempre pacifiche.

Il mercantilismo sfrenato, la sperequazione, lo sfruttamento e la condizione abbietta dei lavoratori, la sordità dei ceti abbienti, la stolida burocrazia delle istituzioni, sono tutti mali ancora operanti di cui Leigh ci vuole parlare rimandandoci ad un ricordo più che centenario, per ricordarci che hanno radici solide e lontane ben lungi dall’essere state completamente estirpate. C’è un chiaro parallelismo tra il lavoratore e il fantaccino, entrambi irrilevanti per chi comanda ed ininfluenti quando vagano soli in mezzo al loro campo di battaglia, sia esso Waterloo o la fabbrica. Solo l’unione e la solidarietà, inseriti in un contesto pacifico ma determinato, paiono essere la via da percorrere per una società più inclusiva. Ma nel finale ci viene ricordato come ogni guerra ha le sue battaglie ed ogni battaglia, anche quelle sociali, ha i suoi morti.

 

Minnesota Fez

Suspiria (di Guadagnino)

Il remake di “Suspiria” è l’ultimo film di Guadagnino ed è diviso in sei atti più un epilogo. Una una ragazza (Dakota Johnson) appartenente ad una comunità Amish dell’Ohio emigra nella Berlino Est degli anni 70 per coronare il suo sogno di essere ammessa in un collettivo di danza contemporanea, che si rivelerà essere in realtà un pericoloso gineceo dedito ad arti occulte. Tutto intorno intanto il male nel mondo prende le forme più prosaiche del terrorismo di quegli anni, incarnati dalla banda Baader-Meinhof e gli strascichi dell’orrore nazista con le sue persecuzioni ed i campi di sterminio.

Il ballo è da sempre l’elemento scatenante dell’istintualità umana più basica e quindi è opportuno veicolo di liberazione ma anche di trasgressione e per questo una scuola di danza risulta un corretto alveo dove riambientare il rito ctonio di arcaici ed oscuri poteri. Fuori dalla scuola, grigia e fredda, c’è una Berlino perennemente percossa da una pioggia battente quasi ne dovesse dilavare gli imperdonabili peccati del trascroso hitleriano, che negli anni settanta era ancora recente. Le inquadrature, la fotografia, i costumi, la scenografia insomma tutta la parte tecnica è sapiente ed ineccepibile. Impeccabile è anche la recitazione di Tilda Swinton, una della insegnanti della scuola e capo di una delle fazioni in cui il collettivo è diviso. Adeguata è anche la prova dei rimanenti attori del cast (anche se dopo questo film si è capito che il talento principale di Dakota Johnson, più della recitazione e senz’altro più del ballo, è quello di essere nata dopo suo padre Don Johnson). Eppure qualcosa non va, c’è un incantesimo fin troppo visibile che rovina il film, questo come molti altri, e che è imputabile alla scrittura.

Tilda Swinton

Premesso che una volta sospesa l’incredulità quel tanto per ammettere una fuga al contrario dagli USA alla Germania dell’est, anche le streghe e tutto ciò che ne consegue risulta plausibile, bisogna essere amanti della danza contemporanea, spesso piuttosto ermetica e che permea abbondanti porzioni della proiezione, per affrontare le due ore e trentadue minuti del film. I più fortunati sono gli attori che vengono tolti di mezzo prima della fine del film, soprattutto quelli che se ne vanno prima del quarto atto, quando tutto si ingarbuglia irrimediabilmente, la narrazione perde di focus e direzione e ci si rende conto che Amazon Studios ha immense fonti finanziarie, ma queste non bastano a fare un buon film. Per fortuna non ha niente a che vedere con il “Suspiria” di Dario Argento e se ne rallegrino , oltre al celebre decano dell’horror, anche gli appassionati del genere.

Dakota Johnson (al centro)

C’è un eccessivo compiacimento delle coreografie di danza che ad un certo punto prendono il sopravvento sulla storia senza che abbiano alcun costrutto a beneficio del racconto. Durante un paio di scene, talmente fuori contesto e naif, si scatena in sala un’ilarità non voluta che genera un certo imbarazzo. All’interno della trama è poi inserito un film nel film, una storia d’amore sullo sfondo dell’olocausto che guadagnino sembra voler contrabbandare all’insaputa della produzione. Un tema al quale dedica l’intero epilogo e addirittura l’immagine finale del film, come a dichiarare quali fossero le sue vere intenzioni: fare un film sulla danza e gli strascichi dell’olocausto. E’ un epilogo con un tardivo “spiegone” che non fa chiarezza sulla confusa genesi della setta e che serve forse a scusarsi con il pubblico ma soprattutto con Dario Argento.

Minnesota Fez

La Ballata di Buster Scrugg

Un vecchio libro con tavole a colori, un’antologia mai scritta sulla storie della frontiera americana, questa è l’immagine che riempie lo schermo mentre scorrono i titoli di testa dell’ultimo film dei fratelli Coen.

I fratelli Joel e Ethan Coen a Venezia 75

Strano contrasto tra vintage e modernità considerato che questo è il primo film girato in digitale dai celebri fratelli. E’ un film ad episodi, un formato dichiaratamente ispirato alla tradizione italiana  e desueto come ormai è diventato lo stesso genere western. Ed ecco che continua il contrasto tra antico e moderno, dato che il produttore è Netflix, il nuovo gigante della comunicazione.

Tim Blake Nelson è il protagonista del primo episodio

Ogni segmento del film ripercorre la storia del cinema western dagli albori epici sino al periodo crepuscolare degli anni 70 dei Peckinipah, Penn e dintorni. Il primo episodio ha un tono leggero e quasi comico, venato di musical, dove un Tim Blake Nelson, con cavallo e vestito candido, evidente tributo a Tom Mix (il cappello di un bianco abbacinante in particolare sembra rinvenuto dal guardaroba di quegli anni), recita abilmente in bilico tra la comica ed il dramma. Si procede poi con gravità crescente sino al sesto ed ultimo episodio, dedicato ad una riflessione sulla vita, sull’amore ed infine sulla morte, girato con un’atmosfera surreale a bordo di una diligenza che necessariamente non si ferma mai sino che sia giunta all’estrema dimora.

Ralph Ineson, qui in un’immagine tratta da “The Witch” è los ceriffo nel secondo episodio dell’ultimo film dei fratelli Coen

Girato in New Mexico dove i fratelli avevano già realizzato “Questo non è un paese per vecchi“, il film è impregnato del cinismo e dell’ironia che caratterizza le opere dei Coen sin dalle loro prime pellicole come “Sangue Facile” ed “Arizona Junior“. Questo Coen “touch” è di fatto l’unico filo conduttore che inanella ogni episodio, altrimenti l’uno differente dall’altro per stile, costruzione dell’immagine, scelta delle inquadrature e financo la dominante cromatica. La parata di attori che si succedono sullo schermo gareggiano in bravura senza che ne emerga una chiara classifica, tutti in perfetta sintonia con il film ed i rispettivi ruoli.

Zoe Kazan e James Franco protagonisti rispettivamente del 5 e del 2 segmento

Unico rammarico (e non è cosa di poco conto) è che al di fuori del festival non sarà possibile vederlo nella magnificenza della sala cinematografica. Se ne rallegreranno chi ha avuto soldi, spazio e passione per costruirsi un vero home theatre a casa propria. Questa è la vita dura nel west ai tempi di Netflix o forse, per parafrasare il romanzo di Cormac Mc Carthy che ispirò i fratelli Coen: questo non è un paese per vecchi (schermi).

Minnesota Fez

 

Kiss me Deadly – la kermesse multiforme sul noir

Sono quattro edizioni eppure l’evento noir di Campobasso ha un’agenda da manifestazione molto più matura.

Ben sei  film per le Dark Nights 2018: apertura con “La truffa del secolo”, grande ritorno del maestro francese del noir Olivier Marchal, il regista di “36 Quai Des Orfevres” e “L’ultima missione”; chiusura con l’Anteprima di “Le Fidéle”, potente melò-noir belga diretto da Michaël R. Roskam, autore di “Chi è senza colpa” presentato  alla prima edizione di Kiss Me Deadly.

Giancarlo De Cataldo, autore di “Romanzo Criminale” e di “Suburra”, e Marco Vichi, creatore del commissario fiorentino Bordelli saranno gli ospiti d’eccellenza della sezione letteraria Incontri sul Noir.

Marco Vichi

Torna il fumetto a cura di Andrea Fornasiero, con il patrocinio di Lucca Comics & Games: due nuovi workshop di cui sono protagonisti Ratigher & Marco Galli e Werther Dell’Edera con la collaborazione della colorista molisana Giovanna Niro. Grande novità di quest’anno, sempre per l’area comics, sarà la Self Area riservata al fumetto autoprodotto.

Giancarlo De Cataldo

Non mancherà infine come di consueto una finestra sulla fotografia con Francesco Acerbis che da Parigi porta a Campobasso, in collaborazione con Centro per la Fotografia Vivian Maier, il suo progetto “Nero” e animerà il terzo workshop di Kiss Me Deadly 2018.

Kiss me Deadly prende vita dal 27 al 31 agosto in via Milano 15 a Campobasso grazie al Collettivo KMD, prodotto dall’Associazione musicale Thelonious Monk in collaborazione con Fondazione Molise Cultura, e patrocinato dal Lucca Comics & Games. Per tutti gli appassionati del genere noir è un occasione ghiotta che perdere sarebbe … un delitto.

 

Protagonisti del cinema italiano: Giancarlo Di Gregorio

Una volta tanto, e capisco che non sia usuale viste le egemonie del settore, è bene parlare di un operatore dello spettacolo che da decenni svolge il suo ruolo senza enfasi ma con molta capacità e che solo ultimamente ha potuto esprimersi al meglio: si chiama Giancarlo Di Gregorio, ed è il capo ufficio stampa di Cinecittà.

Giancarlo Di Gregorio

Ha attraversato con fatica, ma anche con la serenità che lo contraddistingue, tutte le fasi dell’azienda-baraccone statale/privata/statale… continuando a mettere il carro dietro ai buoi  secondo i voleri di quei singolari personaggi che la politica ha voluto a capo di Cinecittà e che ne hanno decretato la decadenza anno dopo anno.

Ma Giancarlo Di Gregorio non si è lasciato intimorire, e non si è neppure depresso, cosciente del fatto che il suo lavoro andava comunque portato avanti, con o senza soldi, con o senza indirizzi, con la serietà di sempre.

L’ingresso del padiglione italiano all’hotel Majestic di Cannes

Gli ultimi anni gli hanno dato ragione e possiamo dire con assoluta sicurezza che lo stand dell’italiota Cinecittà è il più bello del festival di Cannes, quasi una tappa obbligata anche per gli stranieri che pur non avendo nessun interesse per i film nazionali, come dar loro torto, vengono a vedere quale nuova soluzione ha trovato Di Gregorio per nobilitare quelle stanze dell’hotel Majestic che una saggia decisione ha riservato al nostro paese.

Cannes è in declino, ma almeno grazie a Giancarlo Di Gregorio, il nostro paese riesce ad esistere nella più importante vetrina internazionale con un elemento architettonico di fantasia che anni addietro sarebbe stato impensabile.

L’Italia ha invidiato in molte occasioni la Francia per lo sfarzo delle sue istallazioni: oggi siamo invidiati per la nostra capacità innovativa, per la modernità delle strutture e per le atmosfere. Qualora mai i nostri film riprendessero quota, a Cannes l’unione del prodotto e della sua culla sarà il segno della rinascita.

Michele Lo Foco

C’era una volta Cannes

Il 2018 sarà ricordato come l’anno peggiore del festival di Cannes: pochi operatori, film modesti, acqua a catinelle, un disastro.

Se poi a tutto questo aggiungiamo l’ottusità degli impiegati al mercato, con le loro regole sulla inacessibilità allo spazio commerciale per coloro che non sono descritti su internet come legati al settore, si raggiunge anche il massimo della inefficienza. Secondo questi impiegati, internet è la prova assoluta dell’’appartenenza al cinema, e pertanto un avvocato che desideri, pagando, raggiungere i propri clienti o rendersi conto del mercato non può entrare: se invece un cialtrone ha un biglietto da visita con un marchio cinematografico, può entrare.

E’ vero, gli italiani sono superficiali, ma i francesi sono realmente e profondamente antipatici. C’è di più: un cappuccino costa dieci euro, un croissant quattro euro, alla faccia di Venezia, dove un caffè all’Excelsior viene valutato nove euro.

È la kermesse della “presa in giro”, con la differenza però che a Cannes ancora oggi si può trovare qualcosa di meno caro spostandosi un pò dal palazzo del Cinema, mentre a Venezia Lido no.

Il risultato di tutto questo è che molti operatori non sono venuti, alcuni sono rimasti meno giorni, le transazioni sono diminuite, le televisioni si sono offese, i prodotti sono modesti e il cinema prosegue la sua corsa verso il baratro.

Il clima di attenta sorveglianza militare ha poi compromesso quella che era la caratteristica migliore del Festival, vale a dire la gioia festaiola proposta in strada, nei grandi alberghi, nelle case, sul mare.

Una volta stuoli di belle ragazze correvano sulla Croisette mimando i personaggi dei film e offrendo gadget e volantini, mentre navi mirabolanti stazionavano nel golfo e nel porto gareggiando nel lusso più estremo.

Tutto questo nel 2018 è oscurato dalla paura di attentati, e i pochi attori internazionali lesinano la loro presenza, preferendo la tranquillità degli alberghi. Così anche Cannes, l’inespugnabile, si arrende al declino

Michele Lo Foco