Manuel ha appena compiuto diciotto anni. Da quando mamma Veronica è stata incarcerata, vive in un istituto della periferia romana. Ma adesso è arrivato il momento di tornare in quel mondo da cui è stato lontano per così lungo tempo. Lasciare la casa-famiglia, cercare un lavoro, riallacciare vecchie amicizie e stringerne di nuove; sopratutto, prendersi cura della madre, che potrà ottenere gli arresti domiciliari solo grazie all’aiuto del figlio: una responsabilità enorme per chi è ancora un pischello…
Il battesimo cinematografico di Dario Albertini – già autore di alcuni buoni documentari, tra i quali “La repubblica dei ragazzi” (2015), da cui “Manuel” (2017) è ispirato – è un Bildungsroman che “vive” il racconto assieme al proprio protagonista, abitante “incolore” – i toni desaturati delle immagini – di una borgata squallida, (neo)realista, sconfinata, che divora sogni e speranze – distante dal “colore locale” della periferia dipinta da Ligabue (“MadeinItaly”, 2018). Uno sguardo onesto e partecipe, privo di sentimentalismi, stilisticamente affine ai lavori di Claudio Giovannesi – “Fiore” (2016) -, che rappresenta il passaggio all’età adulta di un adolescente, Manuel, cresciuto in un istituto per minori; non una prigione, però, ma una famiglia, con pregi e difetti – non ci sono pregiudizi nella messa in scena di questo microcosmo, popolato da preti affabili e volontarie severe. Un nido sicuro da cui spiccare il volo, fuori, all’esterno, in un mondo indifferente, come i personaggi in cui il giovane uomo s’imbatte
– dall’aspirante attrice che recita il monologo di Delphine Seyrig (“Baci rubati” di François Truffaut, 1968), al falegname ex “confratello” (un tempo pittore, “il ritratto” del protagonista da grande) -, tutti bendisposti, gentili, ma così assorti nelle loro vite da non riconoscere il suo disagio – “Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015).
L’attore protagonista Andrea Lattanzi
Il Manuel interpretato da Andrea Lattanzi porta nei suoi grandi occhi tristi gli slanci e le paure di un ragazzo che, quando tenta di reinserirsi nella società, deve occuparsi della madre detenuta – Pietà ribaltata! -, provocando in lui lo scontro tra l’amore filiale – espresso nel colloquio con l’assistente sociale – e la sua inadeguatezza (nel ruolo assegnatosi). Una responsabilità “asfissiante” – i ripetuti attacchi di panico – per chi avrebbe bisogno di un sostegno, di una scialuppa a cui aggrapparsi, ed è invece costretto ad improvvisarsi ancora di salvezza. Con una corda al collo, Manuel star per soffocare – la scena metaforica dell’annegamento -, ma prima che la morsa si serri – il tentativo di fuga in Croazia -, riesce ad allentare il cappio: scoppia in lacrime, fissa lo spettatore negli occhi – lo sguardo in macchina conclusivo… un pugno allo stomaco – e ci urla contro il suo dolore, perché “che cazzo ne sappiamo di come ci si sente”.
Andrea Lattanzi ed il regista Dario Albertini
E’ un grido (silenzioso): per tutti i Manuel di questo questo mondo, per tutti i figli suburbani che per (sopra)vivere “devono fa’ er doppio” se non “er triplo della fatica”.
E’ raro che il mondo dell’arte contemporanea sia degnamente rappresentato nel cinema. Il più delle volte si assiste alla messa in scena di banali luoghi comuni come potrebbero sembrare quelli della famosa sequenza del film “Le vacanze intelligenti” (1978), dove Alberto Sordi e la moglie, grassa e ignorante, si avventurano tra i padiglioni della Biennale di Venezia. In realtà quelle scene sono talmente “oltre” che diventano a loro modo geniali: il contesto è quello di una satira casereccia che lamenta la celebrazione di un’arte concettuale i cui “concetti” sono compresi e condivisi solo da un’elite, per simpatizzare con il popolino, preso in giro da quella spocchiosa autoreferenzialità.
Il punto di vista è dichiaratamente limitato a questo semplice conflitto sociale e la critica infatti continua cambiando bersaglio ma con la stessa tesi, nell’imperdibile scena del concerto di musica contemporanea. Qualche anno fa, nell’ultima intervista che ho avuto modo di girare con Getulio Alviani (protagonista dell’arte italiana del secondo 900’, recentemente scomparso) c’è un’analoga critica alla “truffa” dell’arte contemporanea. Nel suo abituale stile polemico “Get” sparava a zero su alcuni suoi colleghi, celebrati e rispettati, ma partendo da motivazioni molto diverse da quelle della coppia di “fruttaroli” catapultati all’edizione del 1978 della Biennale.
Lo Sposalizio della vergine di Raffaello
Avevamo appena attraversato insieme l’accademia di Brera, ammirando alcuni grandi capolavori come il “Cristo morto” del Mantegna e “Lo sposalizio della Vergine” di Raffaello… per citarne due che da soli valgono una visita al museo.
Il Cristo morto di Mantegna
“E’ pieno di stupidi! Io l’ho scritto dappertutto… L’arte e il ricettacolo dei peggiori inetti sulla terra… Capisci… Perché sono capaci di farla tutti… Abbiamo appena visto le cose meravigliose dell’arte del rinascimento, che non erano in grado di farla tutti… Non la faceva nessuno, se non un genio!”
Getulio Alviani
Nella filmografia recente un esempio deludente è “Colpo d’occhio” (2008) di Sergio Rubini, dove a nulla è valso che le opere mostrate nel film fossero di un artista di talento come Gianni Dessì, persona di grandi qualità umane, coinvolto anche come consulente… ma dubito che i suoi consigli siano stati ascoltati con la dovuta attenzione, perché la banalità, il “macchiettismo”, la non conoscenza di questo mondo, rendono un brutto servizio sia al cinema che all’arte contemporanea.
Gianni Dessì
Sergio Rubini è un ottimo attore che ha diretto dei film riusciti, ma il suo ritratto superficiale del “critico d’arte/curatore”, una specie di Achille Bonito Oliva svuotato di ogni qualità, senso e dignità, è un banale cliché.
Il protagonista, un giovane artista in ascesa interpretato da un improbabile Riccardo Scamarcio, annaspa tra le sue opere che appaiono totalmente scollegate, come una realtà posticcia che non gli appartiene, mentre il discorso del film accenna vagamente alle presunte dinamiche del “mercato”, al potere dei curatori e dei critici e mai alla “ricerca” che il vero artista mette al centro della sua vita, quel tormento che, al di là delle apparenze e semplificazioni, costituisce il baricentro e il senso del suo lavoro, della “tenuta” che si può riconoscere nella lunga distanza di una vita dedicata. Un’occasione mancata per Scamarcio che recentemente ha dato una notevole prova d’attore in “Loro 1” di Paolo Sorrentino, anzi, è la cosa migliore di un film deludente… In “Colpo d’occhio” certo non è stato aiutato dalla sceneggiatura che lo ha costretto nei limiti di un personaggio banale.
Un’altra caduta di stile la troviamo ne “La grande bellezza” (2013) altro film di Sorrentino, dove si fa della facile ironia su quella tradizione che, a partire da Gina Pane, passando per Marina Abramovich, si è concentra su un tipo di ricerca legata all’utilizzo, spesso disturbante, del corpo umano come campo dell’azione, il corpo dello stesso artista, con tagli, bruciature, sangue, spilli conficcati sulla pelle…
Gina Pane – Azione sentimentaleMArina Abramovich – The artist is present
L’ultima performance in tal senso alla quale ho assistito è stata di Silvia Giambrone, una giovane artista italiana che lavora con grande intelligenza, talento e originalità.
Silvia Giambrone
Sorrentino, il cui cinema ho sempre amato (salvo i due “Loro” del 2018), deve avere conoscenze abbastanza superficiali nel campo dell’arte contemporanea, tanto da cadere anche lui nella banalità della messa in scena di un’assurda performance nella quale un’artista, una donna, corre verso un muro andando volontariamente a schiantarsi con un probabile trauma cranico così da strappare qualche risata tra il pubblico ignorante.
“Anni felici” (2013) di Daniele Luchetti (ispirato a suo padre, artista tormentato, scomparso a soli cinquant’anni) è sicuramente più onesto e interessante di altri film che trattano d’arte ma nonostante la rielaborazione di una sentita autobiografia e un attore protagonista come Kim Rossi Stuart, non convince. Anche qui si finisce per cadere nella descrizione superficiale di presunte dinamiche che possono portare un artista ad avere successo, mentre un altro a vivere la frustrazione del fallimento.
Una foto tratta da “Anni felici”
Ci sono certamente altri esempi negativi di come l’arte è stata raccontata dal cinema, ma preferisco segnalarne uno di molto positivo: “The Meyerowitz Stories” (2017), di Noah Baumbach.
Il cast è stellare ma il film ha il taglio e il sapore del miglior cinema indipendente americano. Racconta le dinamiche familiari che ruotano attorno a un artista praticamente dimenticato, interpretato da Dustin Hoffman. I sui figli di primo letto, Adam Sandler e Elisabeth Marvel (due sfigati) sono sempre stati gelosi del fratellastro Ben Stiller (imprenditore di successo), per il quale il padre, ormai alla terza moglie (Emma Thompson) ha sempre avuto un debole. Adam Sandler (separato e senza lavoro) ha un’adorazione non ricambiata per il padre ed è l’unico ormai a considerarlo un genio incompreso. La sua unica vera ricchezza è la figlia Eliza (Grace van Patten), studentessa di cinema al primo anno, autrice di alcuni divertenti cortometraggi dal contenuto provocatoriamente erotico, mostrati nel film per intero.
IL cast del film di Baumbach a Cannes
La performance di tutti gli attori è di altissimo livello e in particolare i tre figli di Hoffman sono dei mostri di bravura nel dare ai loro personaggi la complessità, le contraddizioni e l’umanità che fanno decollare il film.
Il mondo dell’arte è raccontato con grande competenza e capacità di sintesi in una serie di scene precise ed essenziali, dove quello che conta rimane la storia e il rapporto tra i personaggi. Non si prede tempo a sbrodolare teorie improbabili, a spiegare inutili prospettive al pubblico o a mostrare personaggi caratterizzati allo scopo di divertirlo… c’è invece un grande rispetto e una conoscenza profonda delle dinamiche di quel mondo, lontano dai luoghi comuni e con il giusto punto di vista.
L’amico e compagno di strada di Dastin Hoffman (interpretato da Judd Hirsch), è divento una super star dell’arte, celebrata dal mercato e dai musei. La scena in cui s’incontrato è piena d’informazioni sui sentimenti contrastati degli artisti, ma sempre in relazione alla vita e alle dinamiche esistenziali mosse dai protagonisti della storia.
Il cast alla 55^ edizione del NY film Festival, al centro Judd Hirsch
Con le dovute differenze, la sceneggiatura di Noah Baumbach, per l’elegante giostra dei personaggi, mi ha fatto pensare alle perfette architetture narrative di Irene Nemirovsky. Anche qui abbiamo una rappresentante dell’intellighenzia ebraica, ma circa novant’anni prima. Dopo aver letto quasi per caso il suo primo romanzo, “David Golder” (1929), ho capito di essermi imbattuto in un gigante della letteratura…
così sono andato a Campo dei Fiori, alla libreria “Fahrenheit 451” dalla mia amica Catia, e ho ordinato tutta la sua produzione disponibile in Italia, in gran parte pubblicata da Adelphi: un viaggio straordinario nelle pagine di una grande narratrice, capace in poche frasi di trascinare il lettore dentro la storia e di continuare a sorprenderlo fino alla fine.
Irene Nemirovsky
Nata a Kiev, figlia di un ricco banchiere ebreo, con la rivoluzione bolscevica fu costretta a fuggire in Francia. Aveva imparato il francese dalla sua governate, una figura affettiva molto più vicina di quanto lo sia mai stata sua madre, donna frivola e profondamente egoista che ispirerà diversi personaggi dei suoi romanzi. Anche il padre, sempre lontano per affari, non ebbe mai un ruolo centrale nella sua vita. Fin da ragazza iniziò a scrivere come sfogo, una reazione alla sua infelicità affettiva, inventandosi un metodo di lavoro che l’ha portata già molto giovane alla scrittura di un capolavoro come “David Golder”. Era già a Parigi da diversi anni quando mandò il manoscritto a un editore usando solo il cognome del marito sul mittente… ma siccome era incinta della prima figlia, per alcuni mesi non rispose alle lettere nelle quali la casa editrice le comunicava l’intenzione di pubblicare subito il romanzo.
Quando finalmente s’incontrarono, l’editore stentò a credere che quella giovane donna fosse davvero l’autrice di un simile capolavoro, potente, scarno, spietato e innovativo.
“David Golder” racconta gli ultimi mesi della vita di un vecchio ebreo che traffica in petrolio e altre rischiose speculazioni tra Parigi, Londra, New York, Mosca… A quel tempo non c’erano i collegamenti aerei e per concludere i suoi affari si trascina con ogni mezzo arrancando a fatica sui percorsi impervi di un mondo già globalizzato, mentre un’angina pectoris lo conduce lentamente verso la morte. E’ un romanzo che analizza lucidamente i rapporti umani restituendoci uno scenario senza speranza, ma la forza motrice del protagonista è proprio il rimanere aggrappato alla vita terrena che ogni tanto regala qualche soddisfazione, oppure la tenerezza di un lontano ricordo che inaspettatamente affiora dall’oblio del passato, richiamato in superficie da una qualche coincidenza o evocazione.
“David Golder” fu un grande successo e nel 1933 divenne il primo film sonoro del cinema francese.
Anche i successivi romanzi consolidarono la posizione di Irene Nemirowsky, ma per le modalità con le quali trattava dall’interno i suoi personaggi, quasi sempre ebrei, finì per essere accusata di antisemitismo, proprio come accadde a Hannah Arendt nel 1963, quando scrisse “La banalità del male”.
Hannah Arendt
Non c’è nulla di specifico “contro” la cultura e la comunità ebraica ma la conoscenza profonda di quel mondo che viene messo a nudo con straordinarie capacità narrative, ne esaltava spesso alcuni tratti non proprio edificanti… e forse fu anche per questo motivo che, dopo aver trovato al morte in un campo di concentramento nazista, la Nemirowsky fu praticamente dimenticata per oltre sessant’anni.
Nel 2004, la pubblicazione del suo ultimo manoscritto, “Suite francese” (affidato alle due figlie bambine, che miracolosamente si salvarono) riportò l’attenzione su di lei e la critica si accorse di aver ripescato una grande scrittrice: da lì un nuovo successo mondiale.
“Suite francese” è diventato un mediocre film (con un budget di venti milioni di dollari) produzione anglo americana (2014), dove solo alcune delle trame sono state sviluppate… mentre la straordinarietà del romanzo è proprio la coralità delle vite dei personaggi davanti alla tragedia della guerra che travolge tutti.
Il banco di prova per “Suite francese”, con lo stesso tema della reazione degli uomini all’arrivo della guerra, è un altro fantastico romanzo: “I doni della vita”.
A Saint-Elme, una cittadina della provincia francese, un’intera famiglia vive in ostaggio della volontà di Julien Hardelot, un vecchio dispotico, proprietario della più fiorente industria nella regione. Il figlio Charles, orami rassegnato e debole di natura, in vita sua non è mai stato in grado di prendere una decisione autonoma: l’ultima parola è sempre stata del vecchio padre padrone. Ora che anche suo figlio Pierre, dopo gli studi si sta affacciando alla vita, vede per lui un analogo destino, impiegato nella fabbrica di famiglia come lui e promesso in matrimonio a Simòne, una ragazza del posto per nulla attraente ma con un’ottima dote, con la benedizione del nonno che già pregusta di poter ampliare i suoi affari con nuovi investimenti. Per il bene della famiglia Pierre accetta il suo destino senza discussioni, pur essendo innamorato di Agnès, un’orfana di padre di modeste condizioni. Ma ecco che la vita sorprende tutti con una soluzione inaspettata: un innocente appuntamento tra i due innamorati per dirsi addio poco prima del matrimonio di Pierre viene riferito da una domestica impicciona, dando adito a chiacchiere e sospetti.
Per la moralità dell’epoca Agnès ne esce irrimediabilmente compromessa e di fronte alla prospettiva di rovinare la vita della sua amata, Pierre, che a differenza del padre ha un carattere molto forte, rompe il fidanzamento con Simòne e la sposa.
Il “nonno padrone” non accetta l’affronto di un’opposizione alle sue volontà e Pierre viene allontanato, perdendo la prospettiva dalla sicurezza di un’occupazione nella fabbrica di famiglia.
Dopo un trasferimento a Parigi, con la forza dell’amore e con le sue capacità, troverà presto un impiego in Spagna che gli permette di mantenere la moglie e il primo figlio… ma ecco che la guerra, la prima guerra mondiale, cambia le carte in tavola e Pierre torna a Saint-Elme per affidare la moglie e il figlio ai suoi genitori, e parte per il fronte.
I doni della vita
La storia della famiglia di Pierre s’intersecherà poi con quella di Simòne, la sua moglie mancata… in uno starno destino comune.
I twist sempre sorprendenti nelle trame di Irene Nemirowsky, mi suggeriscono un finale a sorpresa per questa “contaminazione”, con tre ricette per i fusilli e una piccola storia personale.
Qualche anno fa, per poche ore, incontrai il proprietario di un pastificio di Barletta, Ignazio Maffei. Un amico comune ci aveva messo in contatto per la possibile sponsorizzazione di un film. La cosa non ebbe seguito ma l’incontro mi colpì profondamente: Ignazio trasmetteva una grande serenità e la sua qualità umana traspariva immediatamente, fin dalle prime parole. Qualche anno prima, per un grave incidente automobilistico, era rimasto in bilico tra la vita e la morte e da allora la sua prospettiva era cambiata.
Mi parlò di “semplificazione della vita”… del saper apprezzare quello che ogni giorni ci troviamo a dover affrontare… niente di complicato quindi, ma il linguaggio, il tono, la sua pace interiore, facevano la differenza.
In quel momento in particolare (oggi la situazione non è molto cambiata) la mia vita era piena di complicazioni a tutti i livelli… In parte lo posso imputare alle circostanze e ai lunghi strascichi di alcune scelte che ho fatto, privilegiando sempre lo spirito d’avventura, senza preoccuparmi troppo delle possibili conseguenze… e certamente c’è una responsabilità diretta per la mia incapacità tenermi lontano dai guai. Soddisfare la mia curiosità e mettermi in gioco è forse un modo per stare sempre lontano dalla “noia”, dalla prevedibilità di una vita “non spericolata”… Solo negli ultimi anni ho cominciato a pensare anche alle possibili conseguenze delle mie scelte a volte avventate, nel tentativo di limitare questa tendenza, ma spesso l’istinto è troppo forte per poterlo limitare con la razionalità.
In quell’incontro Ignazio mi parlò anche del suo pastificio, una storia familiare iniziata nel 1960 con il padre Savino. Oggi ha 105 dipendenti e 12 linee di produzione. La pasta Maffei è distribuita prevalentemente in Italia ma si sta allargando nel mondo, già in una quindicina di paesi.
pastificio maffei
Qualche mese fa in un supermercato di Roma ho visto dei “fusilli integrali” Maffei (quelli freschi da conservare in frigo) e così, dopo oltre quattro anni da quell’unico incontro, ho ripensato a Ignazio… un nome che per altro mi ricorda la famosa poesia di Garcia Lorca (“Lamento per la morte di Ignacio Sanchez Mejias”) con la voce vibrante di Arnoldo Foà in un LP che mio padre ascoltava sempre, tanto che mio fratello Alessandro ed io, marmocchi, lo conoscevamo a memoria dall’inizio alla fine.
Alle cinque della sera
Eran le cinque in punto della sera Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
… eccetera eccetera…
Alessandro e Ferdinando Vicentini Orgnani
Ma torniamo alla pasta…
In quel supermercato a Roma feci una grossa scorta di varie tipologie di prodotti del pastificio Maffei… integrali e non.
Il giorno dopo avevo invitato a cena qualche amico e decisi di preparare dei fusilli con fave salsiccia, olive taggiasche e l’aggiunta della piccola storia del mio incontro con Ignazio.
Fusilli con fave, salsiccia e olive taggiasche
Gli ospiti apprezzarono molto la mia ricetta, la pasta del mio amico… e anche la storia. Nelle settimane successive ho provato gli stessi fusilli anche con carciofi, guanciale e ricotta di pecora e poi con pere, guanciale e pecorino, e poi le orecchiette, con le cime di rapa e al pomodoro e mentuccia.
Fusilli carciofi, guanciale, ricotta di pecora
Avevo ancora il numero di cellulare di Ignazio e pensai di chiamarlo per dirgli che ero ormai diventato un affezionato cliente del pastificio Maffei… ma poi pensai che era meglio scrivergli una mail, allegando anche una foto delle mie ricette realizzate.
Qualche giorno dopo arrivò la risposta sua risposta.
” Buongiorno Ferdinando.
Innanzitutto ti ringrazio per il contenuto della tua e-mail, sia dal punto di vista affettivo che gastronomico.
Io sto bene, cerco di non complicarmi la vita, e già questo è importante.
Ci vediamo presto.
IM”
Fantastico quel “cerco di non complicarmi la vita”. In questi quattro anni Ignazio non è cambiato. Forse le nostre strade s’incontreranno ancora.
La marchesa De Luna possiede una piantagione di tabacco e cinquantaquattro braccianti che la coltivano senza ricevere nulla in cambio eccetto la possibilità di vivere su quei terreni, in fatiscenti catapecchie senza elettricità. In mezzo alla piccola comunità agricola, si muove Lazzaro, ragazzo buono e generoso, sfruttato dagli stessi compagni con i quali condivide la condizione di “schiavitù”.
Il paesaggio rurale torna ad essere protagonista nella terza pellicola di Alice Rohrwacher. Come per Le Meraviglie(2014), la storia è ambientata in un territorio vibrante di echi antichi: dalle novelle boccaccesche alle visioni bucoliche di Paolo e Vittorio Taviani –”Fiorile” (1993).
Pur conservando il tocco “meraviglioso” dei fratelli toscani, l’autrice mette in pratica la lezione appresa dai maestri del neorealismo – la scrittura “libera” (da meri vincoli narrativi) zavattiniana –, lasciando che lo sguardo dello spettatore girovaghi tra lo squallore dei ruderi dell’Inviolata e una periferia urbana degradata. Una sorta di realismo magico che non può non ricordare le atmosfere (altrettanto livide e sgranate quanto surreali) della cinematografia sudamericana contemporanea – “Neruda” di Pablo Larrain (2017). Lazzaro feliceè un’opera unica, perché espressione della visone eccentrica (nel suo significato etimologico) del cinema, e del mondo, della cineasta fiorentina. Un film che non trovando, o cercando, il proprio centro (narrativo) è costretto al nomadismo. Un racconto senza compromessi – vincitore del Prix de la mise en scènea Cannes – che nella sua assoluta libertà tocca vette elevatissime di lirismo – la parabola del lupo e dell’eremita.
In scorci biblici che cristallizzano lo spazio-tempo in una Galilea postmoderna – El cristo ciego di Christopher Murray (2016) –, lo sguardo stupefatto di Adriano Tardiolo ci interroga sulla natura della felicità. Lazzaro felice – lo è, non deve affannarsi per diventarlo – perché puro, innocente, buono… ma anche ignorante, nel senso attribuitogli dalla marchesa De Luna, che ignora, cioè, le condizioni in cui (soprav)vive. Il Vecchio Testamento insegna: i tormenti dell’uomo iniziarono con la mela colta dall’albero della conoscenza, se non avessimo assaggiato quel frutto proibito saremmo potuti essere felici, come Lazzaro (il buon selvaggio rousseauiano).
Oltre a ciò, c’è un’altra domanda che alimenta il fuoco del film: che fine ha fatto la bontà?
Non esiste più; o almeno, si è estinta quell’espressione di cui Lazzaro è rappresentante: quella per cui versare una lacrima per un amico colpevole – il “mezzo fratello” Tancredi -; quella per la quale aiutare chi non lo merita – il custode di galline -; quella che spinge al sacrificio di sé.
E questo è evidente nella parabola del protagonista. Nella seconda parte del lungometraggio (speculare alla prima), infatti, il giovane uomo, non più Corpo celeste (2011) ma corpo umano votato al martirio, risorgere – come nel Nuovo Testamento – solo per morire di nuovo, massacrato dalle botte dei clienti della banca – che si sfogano su di lui come i contadini dell’Inviolata: là vessati dalla marchesa, qui da un istituto di credito (metafora della crisi economica) –; ricompensa per chiunque, oggi, viva sotto il segno della bontà.
Per la prima volta in Italia, nel carcere di massima sicurezza di Terni, grazie alla visione di Chiara Pellegrini, la giovane Direttrice, e il permesso del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, sei detenuti hanno iniziato un progetto sperimentale: dopo aver imparato a usare una telecamera, hanno girato per alcuni mesi un documentario sulla loro vita.
Chiara Pellegrini
Pesanti le condanne: omicidio, rapina a mano armata, traffico di stupefacenti. Sei storie, personalità e nazionalità diverse, stadi diversi della detenzione. Il risultato è FUORI FUOCO, un film dove nulla è stato messo in scena, dove la semplice verità è la dimensione più sorprendente. Molti i cambiamenti in corso d’opera e gli incidenti di percorso: alla fine delle riprese, sfruttando un permesso speciale, Slimane Tali è evaso, scappando nel suo paese, il Marocco, con il quale l’Italia non ha un trattato di estradizione.
Ferdinando vicentini Orgnani
Oreste Crisostomi, filmmaker di Terni, durante un cineforum all’interno del carcere ha ispirato i detenuti per la definizione del soggetto del film Ferdinando Vicentini Orgnani (regista e sceneggiatore di film come “Vino Dentro” e “Ilaria Alpi – il più crudele dei giorni” e di documentari come “Un minuto de silencio” o “Zulu Meet Jazz“) e Sandro Frezza (produttore con una ventina di titoli al suo attivo), con la casa di produzione ALBA Produzioni, hanno accompagnato per quasi tre anni la realizzazione di questo film. Il successivo coinvolgimento di Rai Cinema ha dato il via alla produzione di un vero lungometraggio documentario, la cui versione breve (52’) andrà in onda su Rai 1 nei prossimi mesi.
Michelangelo Pistoletto
Un grande artista, Michelangelo Pistoletto, ha regalato l’immagine emblematica di una sua opera per il manifesto del film (in allegato) proprio per la novità e il per coraggio di questa operazione di “cinema sociale”, che offre un punto di vista potente e inedito.
L’anteprima assoluta si terrà a Terni nell’ambito della XII edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia la prossimaDomenica 15 aprile ore 11,00 – Cinema Postmodernissimo ed interverranno alla proiezione
Chiara Pellegrini – Direttrice del carcere di Terni
Fabio Gallo – Comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Terni
Oreste Crisostomi e Ferdinando Vicentini Orgnani – Direttori artistici
Ildikò Enyedi. affronta a viso aperto i temi classici della letteratura come del cinema: la comunicazione, la morte, il doppio.
Ildikó Enyedi, la regista ungherese ritira l’orso d’oro alla Berlinale dello scorso anno, vinto proprio con il film “Corpo e aima” distribuito in Italia da Movie Inspired
Il doppio si presenta su vari piani: il sogno e la realtà, la psiche ed il corpo, l’amore per la vita e il desiderio di dissoluzione.
L’attrice Alexandra Borbély, classe 1986, interpreta Mària
Maria è la responsabile della certificazione di qualità presso un macello di bovini. La sua estrema riservatezza nasconde disturbi profondi, che risalgono all’età infantile (è ancora in cura dallo psicologo pediatrico). Viene sbeffeggiata dai colleghi che rinunciano ad integrarla. Ma il direttore finanziario, Endre, è inspiegabilmente attirato dalla gelida collega.
La relazione ha una brusca accelerazione quando una psicologa, incaricata di fare luce su un furto di medicinali, fa emergere che i sogni di Endre e di Maria coincidono. Vivono di notte nello stesso sogno, ove lui è un cervo e lei la sua compagna. Insieme percorrono i sentieri innevati della foresta, si guardano, si nutrono, si cercano. Increduli, scoprono quindi di frequentarsi nel mondo onirico. Lei comincia a sciogliersi e comincia un accidentato percorso di avvicinamento nel mondo reale, fino alla fine, drammatica ma tinta di speranza.
A sinistra l’attore Géza Morcsányi, che interpreta il ruolo di Endre
Che lo specchio sia il vero protagonista lo si capisce dalla didascalica corrispondenza degli handicap. Lui ha un braccio paralizzato, Lei è paralizzata nelle relazioni fisiche, non tollera il minimo contatto, risultando completamente distante da una possibile esperienza sessuale.
La paralisi affettiva di Maria è figlia del mutacismo di Ada McGrath, protagonista di “Lezioni di piano” (Jane Campion, 1993). Entrambe, per riemergere alla vita, passano dal suicidio, nella forma dell’acting-out, un’azione illogica ed incomprensibile che, solo nei film, diventa il primo passo verso la consapevolezza. E’ il meccanismo tipico del Disturbo di personalità narcisistico-masochista, che, proprio nel momento della passione, si allontana, si chiude, si “congela”. Aprirsi significa essere squartati, amare significa essere feriti. La fuga contiene l’illusione della salvezza.
Holly Hunter e Harvey Keitel in “Lezioni di piano”
Curioso che sia il Direttore Finanziario a rappresentare l’unico portatore della delicatezza, l’unico in grado di avvicinarsi alla più diafana delle creature, ad una sorta di angelo malato, muto ed indifeso (Il Direttore del Personale è invece un rozzo maiale incapace di comprendere gli altri esseri umani).
Sembra non esserci soluzione ove gli psicologi non capiscono, gli umani non si rispettano, ma per l’incontro tra il sogno, l’inconscio, la passione si traduce in un innovativo movimento romantico, comprensivo di dichiarazione di amore finale, la chiave che apre la porta del paradiso terreno.
Ma c’è un piano più alto, più tragico. Il destino ci costringe a pagare il contro dell’ignoranza, del non sapere chi è l’altro, chi siamo noi. I conti vanno pagati. Non si può fare più finta di non sapere, di non conoscere, perché ogni persona ha memoria, ogni animale ha un’anima, ogni lavoratore ha una storia da raccontare. Il vangelo di Ildikò Enyedi ci annuncia che il super-uomo, la creatura meravigliosa, è un uomo mutilato ma che rispetta, che ascolta, che ama. Il resto è violenza e pregiudizio.
I cineasti sono generalmente colti da conati creativi che li inducono a produrre il loro film al di là della ragione e spesso al di la della convenienza. I più pragmatici si concentrano su soggetti che hanno perlomeno le caratteristiche per poter essere realizzati senza ingenti investimenti, ma i più visionari torcono la sceneggiatura sino a quasi spezzarla pur di perseguire il plot che hanno immaginato. La cosa sorprendente è che non vi è garanzia di qualità in alcuno dei due approcci. Una volta separato il grano dalla pula nella miriade di micro produzioni nazionali si trovano cose pregevoli sia nell’uno che nell’altro caso. Purtroppo se ne trovano poche, poiché la bontà di un film riposa in gran parte sull’originalità e, un po’ per ignoranza di chi ricalca in buona fede strade già percorse ed un po’ per l’avidità superficiale di chi vuol replicare i successi altrui, capita che proprio l’elemento di novità sia la materia più rara nelle produzioni indipendenti.
Un’immagine da “The Blair Witch project”
il celeberrimo “The Blair Witch Project” diedero la stura ad una sequela di imbarazzanti horror girati con telecamera a mano che regalavano un’ora e mezza di noia a chi riuscisse a superare quella sensazione di mal di mare che iniziava già sui titoli di testa. “El Mariachi” di Robert Rodriguez ne costituisce invece l’analogo in chiave pulp dove i trucchi di Loyd Kaufman (quello della Troma per intenderci) sono ampiamente utilizzati per spargere di sangue una trama inesistente.
Roger Croman sul set di “La piccola bottega degli orrori”
Eppure nel passato del cinema ci sono stati eclatanti esempi di film low budget ingenerosamente chiamati B- Movie che sono poi diventati a pieno titolo dei classici della cinematografia di sempre. Un esempio imprescindibile è quello di Roger Corman a cui la scarsità di fondi non ha impedito di realizzare dei classici come “La piccola bottega degli orrori” o film quasi d’avanguardia come “Il serpente di fuoco“. In Italia poi fare distinzioni di budget è una questione di lana caprina poiché il nostro cinema, con poche trascurabili eccezioni, non è certo caratterizzato da grandi mezzi. Ciò non di meno in questo scenario così sparagnino sono sorti autori come Nanni Moretti che con “Ecce Bombo“, girato in 16mm partecipò in concorso al 31° Festival di Cannes, oppure come Davide Manuli che quasi vent’anni or sono girava con poche lire (c’era ancora il vecchio conio) “Girotondo giro intorno al mondo” co prodotto con Gianluca Arcopinto ed omaggiato , giustamente quanto tardivamente, durante i Venice days del l’edizione 2012.
Un’immagine tratta dal film d’esordio di Davide Manuli “Girotondo giro intorno al mondo”
Fare cinema non è solo questione di budget, anche se come in tante altre cose il denaro aiuta, ma è sempre stato soprattutto una questione di idee. Ai fratelli Lumière non difettava certo il soldo, eppure come prima ripresa non pensarono a nulla di meglio che riprendere i dipendenti uscire dalla loro fabbrica. Bisogna poi tener ben presente come le fonti finanziarie non connotano la qualità di un film, per cui i cineasti non dovrebbero presentare la propria opera permettendo che si tratti di un low budget, taluni vantandosene, altri quasi scusandosi, perché il termine di per sé non vuol dire niente. Ci sono solo buoni film e film trascurabili, ché di brutti, forse, in ultima istanza non ce n’è.
La scimitarra dei nuovi proprietari arabi ha tagliato lo scorso mese 20 teste nella società che fu fondata nel 1979 dai fratelli Weinstein. La spending review a cui ha messo mano appena arrivato lo scorso aprile il nuovo CEO Bill Block (omen nomen) ha fatto altre vittime. Giusto o sbagliato che sia non si può dire che abbia perso tempo o che si sia intimidito dalla lunga tradizione della società. Infatti una prima tranche di 25 impiegati fu licenziata già in maggio ad appena un mese dall’arrivo di Block. Venti duri quindi che quelli che soffiano dal Qatar ove ha sede Al Jazeera che acquistò Lo scorso hanno la società tramite la sua controllata beIN MEdia Group.
Bill Block
Bill Block non è un novellino , anzi è un veterano di Hollywood che ha sempre visto dall’alto l’industria americana. Sempre impegnato in progetti al top che lo hanno visto come produttore, finanziatore e distributore di centinaia di film, molti dei quali eccellenti ed alcuni pure innovativi secondo gli schemi americani come “District 9”, “Blair witch project” e “Buenavista Social Club”. Una professionalità indubbiamente capace di sperimentare oltre che gestire e che se è intervenuta così pesantemente sul personale c’è da supporre fosse veramente necessario e d’altro canto i numeri di troppi anni a questa parte non erano poi eclatanti.
Il display art di District 9
Sarà una deformazione tutta italiana ma l’immagine di 45 persone con gli scatoloni in mano traboccanti dei loro oggetti personali mentre lasciano gli uffici di Los Angeles smuovono la nostra empatia e ci fanno ricordare che i dipendenti, anche se vengono definiti a volte con termini tecnici quali “unità” o “risorse”, sono in fondo persone con tutta l’umanità che ne consegue. Sono fatti della stessa sostanza dei personaggi di cui parlano i film e sono anche i medesimi che i film li vanno a vedere. Non importa quindi che fosse inevitabile o se si tratta solo del trito cliché: “arriva il nuovo capo e si porta dietro il suo staff”, ma almeno la stampa dovrebbe dire le cose come stanno ed annunciare senza pudori che la nuova proprietà araba di Miramax ha licenziato 45 persone. Poi, al prossimo bilancio, vedremo se è stata una buona cosa o solo un atto di becero e sterile ripulisti. Beati i manager dell’industria che possono cambiare chi gli pare, perché nell’esercito invece i generali devono combattere le guerre con i soldati che hanno.
Non è facile navigare nel mare della produzione e distribuzione di contenuti audiovisivi (potevo dire “cinema” ma avrei fatto torto a tanti altri media). Per le società indipendenti poi lo sta diventando ancor di più. Abbiamo appena dato la notizia delle difficoltà di Open Road e di IM Global passate entrambe sotto l’ala della Tang Media Partners, ma anche altri altrettanto blasonati operatori non se la passano meglio.
Broad Green ad esempio ha di recente chiuso la divisione dedicata alle produzioni licenziando una quindicina di dipendenti dopo una sfortunata serie di insuccessi durata per ben tre anni. Aveva esordito nel 2014 avendo alle spalle un miliardario di nome Gabriel Hammond e con progetti ambiziosi che includevano collaborazioni con maestri del calibro di Terrence Malick per finire poi a rincorrere il botteghino con film di genere piuttosto mediocri come “Wish Upon” di John R. Leonetti (alla sua prima prova come regista e più noto come direttore della fotografia di “The Mask” e “Mortal Kombat”) che per fortuna in Italia probabilmente non arriverà mai.
EuropaCorp di Luc Besson ha accusato il colpo del modesto esordio dell’ultimo colossal di fantascienza Valerian e la città dei mille pianeti” (forse è la maledizione dei titoli troppo lunghi). Weinstein Company ha virato verso la TV riducendo considerevolmente i budget dedicati ai nuovi progetti cinematografici.
Relativity Media invece dopo il fallimento di due ani fa è risorta ridimensionata ed unicamente come casa di distribuzione. Eppure era sul mercato da undici anni, periodo non trascurabile per una casa di produzione indipendente, durante i quali aveva prodotto film di successo come il recente “Masterminds- i geni della truffa” , “L’ultimo dei templari” ma soprattutto il pluripremiato (tra cui due oscar entrambi per il ruolo di attori non protagonisti) “The Fighter” . Il suo fondatore Ryan Kavanaugh aveva dichiarato che un’accurata analisi dei dati consentiva alla società di violare i segreti di come funzionava il box office. Qualcosa si dev’essere guastato in quel formidabile algoritmo se alla fine la società è fallita con un buco da mezzo miliardo di dollari.
Lo scorso mese è toccato invece a Green Light international, i produttori di “Imperium” ed il più modesto “Urge” con un ormai sempre più decotto Pierce Brosnan, di dichiarare bancarotta dopo aver intascato anticipi dai distributori per 410 mila dollari per pagare stipendi ed una poco opportuna vacanza in Riviera dopo lo scorso festival di Cannes. Avevano lanciato la società appena due anni fa, hanno prodotto due film e co-prodotti altrettanti (“Custody” e “Antibirth”), prima di gettare la spugna ed scendere dal ring.
Società che chiudono ce ne sono sempre state nello show-biz ma la novità degli ultimi due anni è che non sono sorti nuovi soggetti del medesimo calibro di quelli che hanno abbandonato il campo. La dinamica a cui assistiamo è quindi una contrazione degli operatori, i quali rimangono schiacciati tra la potenza di fuoco delle major e la maggiore elasticità delle piccole società. Incapaci di competere con le une eppure troppo strutturate per mettersi alla cappa in caso di tempesta come fanno invece le altre.
Questa polarizzazione comporta la ritirata verso produzioni limitate dai generi di film. Un dramma o una commedia, al limite un horror, sono le piste battibili da piccole società, mentre la Sci-Fi, l’action, il colossal storico o fantasy rimangono appannaggio delle major. Un fenomeno che qui da noi è tristemente ben consolidato ormai da tempo. Un primato, almeno in questo settore, che avremmo volentieri mancato.
Ogni tanto qualcuno ci prova a sfidare gli studios e già questo da solo fa simpatia. Open Road era stata fondata nel 2011 da AMC Entertainment e Regal Entertainment per cercare di trovare una fonte di approvvigionamento alle proprie sale senza passare sotto le forche caudine delle major che, come è intuibile, hanno le proprie priorità spesso collidenti con le necessità degli esercenti e dei produttori indipendenti.
La partenza era stata scoppiettante e sono seguiti anni di crescita costante almeno sino al 2015 ( $137 mil nel 2012 ; $150 mil nel 2013; $162 mil. nel 2014; $89 mil nel 2015 e $88M and 2016), anno della svolta che ha condotto sino al secondo trimestre di quest’anno in cui la società ha annunciato un a perdita di ben 179 mil di dollari, quando nello stesso periodo dell’anno precedente aveva registrato un utile di $24 milioni.
Titoli fortunati non sono mancati come “The Grey” (questo magari è più furbo che bello), “Silent Hill” e “The Host“, ma la distribuzione è una gara di fondo che si misura nel tempo e ci vuole, come è risaputo, costanza di prodotto. Inoltre le major hanno i loro piani ed un’uscita concomitante ad un blockbuster vanifica in un week end l’intero budget di lancio di un film indipendente.
Tom Ortenberg e Michael Keaton all’anteprima di Spotlight
Eppure il CEO Tom Ortenberg aveva né più né meno attuato la strategia che aveva fatto crescere Lion Gate, da cui proveniva, sino ai livelli attuali. La ricetta era quella di acquisire (anzi preferibilmente pre-acquisire quando i costi sono molto convenienti) e produrre un mix di generi in cui l’action dedicato ad un giovane pubblico maschile aveva la quota maggiore, seguito da qualche horror come “The Hounted House” e solo occasionalmente pochi dramma di qualità come “Snowden” e “Spotlight“, quest’ultimo vincitore dell’oscar come miglior film e miglior sceneggiatura.
I numeri degli ultimi anni hanno fatto recedere AMC dalla partnership e l’ammontare dei debiti di Open Road impedisce la prosecuzione dell’attività e così si fa avanti la Tang Media Partners, azienda di proprietà di Donald Tang, un personaggio il cui cognome tradisce un origine cinese tanto quanto il suo nome di battesimo richiama una certa sgradevolezza procedurale. Sì perché Tang è quello che si è comprato IM Global lo scorso giugno per 200 milioni di dollari e a preso a calci in culo il suo fondatore e CEO Stuart Ford.
Donald Tang, una carriera maturata ai vertici della Bear Stearns & Co
Una miglior sorte è toccato per ora a Ortenberg che continuerà ad essere a capo della Open Road che è stata acquistata da Tang all’esorbitante prezzo di un dollaro, ma con l’impegno di evitarne il tracollo accollandosene i debiti.
Stuart Ford fondatore ed ex CEO di IM Global
A ben pensarci tutto ciò non è poi una gran notizia, ma serve a confermare come il cinema sia il modo più rapido ed infallibile per perdere un’immensa fortuna incontrando nel contempo degli autentici squali dall’appetito più grande del loro portafoglio. Inevitabile l’accostamento analogo con esperienze italiane più o meno lontante come il CIDIF o la Distributori Associati , ma l’idea che la produzione incontri direttamente gli esercenti rimane affascinante e merita che un giorno possa trovare una prassi vincente. In fin dei conti ogni esercente non solo conosce il cinema , ma conosce il pubblico molto da vicino. Forse in futuro si assisterà anche in Italia ad un soggetto in cui confluiranno le professionalità migliori provenienti da esercizio, porduzione e distribuzione. Sì perché, anche a costo di usurarlo, vale ricordare l’antico adagio “Ofelé fa el to mesté”.
Palermo è invasa dal sangue versato dalla mafia e necessita di essere purificata. La milza è la risposta. In fin dei conti il pani câ meusa (pane con la la milza) è dal medioevo il cibo povero del popolo, la tradizione antichissima e pura a cui rifarsi per riscattare la città dalla mafia. Non a caso ci fu un “meusaro” (venditore di pane con la milza) che nel 1800 iniziò una battaglia personale contro il pizzo sottraendosi all’estorsione dei mafiosi. Con lo stesso coraggio e molta ironia il collettivo Maladolescenza, diviso tra Palermo e Milano, si lancia in una campagna di crowdfunding utilizzando la piattaforma Eppela.com e raccoglie i fondi per realizzare una web serie intitolata Milzaman.
Dal back stage di Milzaman
Come nel XIX secolo Milzaman tratta difatti la storia un uomo qualunque, un tipico venditore ambulante di panini con la milza, che vessato da due infimi estorsori del suo quartiere, si ritrova dall’oggi al domani con bizzarri superpoteri (come lanciare milza bollente dai polsi stile “uomo-ragno”) acquisiti in seguito a un incidente (sì proprio come l’Uomo ragno, Devil e tutto l’esercito della Marvel). E’ proprio questo avvenimento che porta l’improbabile supereroe a duellare con i due strozzini e decidere di proteggere la sua città con il nome MILZAMAN, il primo supereroe made in Palermo.
Il primo episodio, che ha superato le 10000 visualizzazioni su Youtube, è stato selezionato e premiato a numerosi festival di cortometraggi e web serie (Rome Web Awards, F.I.C.A., FI-PI-LI Horror e altri). Il collettivo dichiara : “Il nostro Milzaman è quindi un incrocio tra The Toxic Avenger e Spiderman, con spolverate abbondanti di Ciprì e Maresco qua e là. Credo basti questo per capire l’epicità del personaggio.”
Dal punto di vista tecnico c’è arte e passione e pure una certa malizia per ottimizzare i mezzi non larghissimi. Le citazioni rinvenibili nella serie sono in realtà tantissime e ci si trova “Bunraku” di Guy Moshe, tanto Bruce Lee ed un pizzico di Tarantino. Gustoso e ben riuscito è anche il video della versione siciliana di “I’m your man” di Leonard Cohen, segno di un attività artistica a tutto tondo.
Turè Muschio – Sugnu ‘u to masculu (la versione sicula del successo di Cohen)
Dopo che in America “Kick-Ass” ha figliato una serie di film di genere tra cui vi consigliamo “Spaghettiman” di Mark Potts, anche in Italia dopo l’exploit di “Lo chiamavano Jeeg robot” ci fa piacere vedere una produzione indipendente ma di qualità che si cimenti su di un progetto di super eroe non convenzionale con creatività e senza falsi pudori. Milzaman appassiona e diverte. Una visione davvero interessante e poi è legale ed è gratis su You Tube.
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.