La scimitarra dei nuovi proprietari arabi ha tagliato lo scorso mese 20 teste nella società che fu fondata nel 1979 dai fratelli Weinstein. La spending review a cui ha messo mano appena arrivato lo scorso aprile il nuovo CEO Bill Block (omen nomen) ha fatto altre vittime. Giusto o sbagliato che sia non si può dire che abbia perso tempo o che si sia intimidito dalla lunga tradizione della società. Infatti una prima tranche di 25 impiegati fu licenziata già in maggio ad appena un mese dall’arrivo di Block. Venti duri quindi che quelli che soffiano dal Qatar ove ha sede Al Jazeera che acquistò Lo scorso hanno la società tramite la sua controllata beIN MEdia Group.
Bill Block
Bill Block non è un novellino , anzi è un veterano di Hollywood che ha sempre visto dall’alto l’industria americana. Sempre impegnato in progetti al top che lo hanno visto come produttore, finanziatore e distributore di centinaia di film, molti dei quali eccellenti ed alcuni pure innovativi secondo gli schemi americani come “District 9”, “Blair witch project” e “Buenavista Social Club”. Una professionalità indubbiamente capace di sperimentare oltre che gestire e che se è intervenuta così pesantemente sul personale c’è da supporre fosse veramente necessario e d’altro canto i numeri di troppi anni a questa parte non erano poi eclatanti.
Il display art di District 9
Sarà una deformazione tutta italiana ma l’immagine di 45 persone con gli scatoloni in mano traboccanti dei loro oggetti personali mentre lasciano gli uffici di Los Angeles smuovono la nostra empatia e ci fanno ricordare che i dipendenti, anche se vengono definiti a volte con termini tecnici quali “unità” o “risorse”, sono in fondo persone con tutta l’umanità che ne consegue. Sono fatti della stessa sostanza dei personaggi di cui parlano i film e sono anche i medesimi che i film li vanno a vedere. Non importa quindi che fosse inevitabile o se si tratta solo del trito cliché: “arriva il nuovo capo e si porta dietro il suo staff”, ma almeno la stampa dovrebbe dire le cose come stanno ed annunciare senza pudori che la nuova proprietà araba di Miramax ha licenziato 45 persone. Poi, al prossimo bilancio, vedremo se è stata una buona cosa o solo un atto di becero e sterile ripulisti. Beati i manager dell’industria che possono cambiare chi gli pare, perché nell’esercito invece i generali devono combattere le guerre con i soldati che hanno.
Dopo il successo del primo capitolo realizzato, con soli 80 euro di budget, come omaggio ai film di serie b in vhs che negli anni 80 e 90 riempivano le videoteche , esce il nuovo film di Roberto Albanesi (“The Pyramid“, “Catacomba” “17 a Mezzanotte“).
il regista Roberto Albanesi
Nel secondo capitolo il mistero verrà rivelato e quella che sembrava una vicenda isolata assumerà i connotati di un attacco globale. Gli alieni esistono e sono fra noi. Nuove storie e nuovi personaggi sono pronti ad i intrecciarsi, mentre Bruce Fagaroni (Ivan Brusa) decide di giocarsi il tutto per tutto per salvarsi la pellaccia e ottenere la sua vendetta nei confronti del Boss (Roberta Nicosia).
Ma gli alieni non renderanno per nulla facile tutto ciò!
Il film è stato realizzato con luci naturali e audio in presa diretta, a cavallo dell’estate “zanzarosa” del 2016, fra il lodigiano, comasco, la bassa bergamasca e le meravigliose valli piacentine. Nel cast figurano volti noti del cinema e della televisione italiana:
Ivan Brusa, Stefano Galli, William Angiuli, Jack Gallo, Roberta Nicosia, Paolo Riva, Leo salemi, Debby Love, Dana Santo, Massimo Mas Scano, Luca Tung, Simona Bramini.
Le musiche originali, chiaro omaggio all’elettronica anni 80, sono del maestro tolmezzese Oscar Perticoni.
Il film verrà proiettato gratuitamente a Giugno al cinema comunale di Casalpusterlengo, per poi uscire in sale selezionate in tutta Italia ed in dvd per la Sandroni Distribuzione.
Nel gennaio 2017 ci sono state delle gravi sommosse in tre grandi prigioni brasiliane. La prima nel carcere Anisio Jobim di Manaus, Amazonia: 56 morti più altri 4 in una struttura vicina. La seconda a Boa Vista, nel penitenziario statale di Porto Velho, nello stato di Rondonia: 33 morti. La terza nel penitenziario di Alcacuz, Stato del Rio Grande del Nord: altri 30 morti. Il conto supera i 120 morti… torturati, decapitati o bruciati vivi, e quasi altrettanti detenuti evasi.
Il motivo scatenante per questi tre episodi di feroce violenza è il controllo del narcotraffico. Due organizzazioni criminali si combattono quotidianamente per la gestione di un mercato miliardario: la Familia do norte (Fdn) e il Primeiro Comando da Capital (Pcc), la banda San Paolo. Le faide all’interno delle prigioni rappresentano l’ultima frontiera dello scontro.
Il Brasile è il quarto Paese al mondo per popolazione carceraria con oltre 622mila detenuti a fronte di una capacità che, secondi i dati ufficiali, sarebbe al massimo di 371mila.
La maggior parte della cocaina consumata in Brasile proviene dalla Bolivia. I circa 3.000 km di foresta amazonica sul confine tra i due paesi sono difficilmente controllabili e rendono il traffico molto agevole. I dati ufficiali parlano di quasi tre milioni di consumatori abituali in Brasile… qualche tonnellata al giorno quindi, ma altre centinaia di tonnellate transitano dai porti brasiliani verso l’Europa, l’Africa e l’oriente. Ormai è ampiamente documentato che molte cellule terroristiche, anche quelle degli ultimi sanguinosi attentati nel cuore dell’Europa, si finanziano grazie al narcotraffico… La catena causa/effetto che parte dagli oltre 40mila ettari di coca coltivati in Bolivia, porta quindi a delle conseguenze piuttosto gravi e complesse anche a casa nostra.
In territorio boliviano operano ormai diversi cartelli colombiani e messicani che, grazie alle connivenze nelle alte sfere del governo, lavorano quasi indisturbati. In pochi anni dalla presa del potere del presidente Evo Morales, l’economia legata al traffico della cocaina ha guadagnato una posizione predominate.
Quello che aveva tentato di fare Pablo Escobar in Colombia negli anni ottanta è successo in Bolivia con una progressiva trasformazione a partire del gennaio 2006.
Un’organizzazione criminale molto capace (i “Cocaleros”, coltivatori di coca del Chapare) ha ben compreso che le rivendicazioni legate all’uso tradizionale delle foglie di coca (usta dei contadini dell’altopiano per resister alla fatica dell’altura) non erano una bandiera efficace con l’opinione pubblica internazionale. Molto meglio farsi carico delle rivendicazioni delle popolazioni indigene della Bolivia, la cui esclusione sociale per centinaia di anni è innegabile. In un decennio, il processo democratico è stato sostituto da un potere assoluto mascherato da democrazia che controlla il traffico della cocaina e ha portato la Bolivia su un cammino molto pericoloso.
Il Brasile, nonostante gli enormi problemi interni di questa fase, si comincia finalmente a rendere conto dell’emergenza cocaina in arrivo dalla vicina Bolivia.
Quando ho avuto notizia delle sanguinose rivolte nelle prigioni brasiliane, ho subito pensato al bellissimo film di Hector Babenco sulla rivolta nel carcere di “Carandiru” e la violenta repressione delle forze speciali che il 2 ottobre 1992 entrarono sparando ad altezza d’uomo con il risultato di 111 morti. Il film è del 2003, l’anno dopo la demolizione della prigione, ormai macchiata dal peggior massacro della storia carceraria dal paese.
Un’opera potente e realista, quasi un docu-film, che segue alcuni detenuti e le loro vicende, prima e durante la rivolta.
Hector Babenco
Era un po’ di tempo che pesavo di scrivere un piccolo omaggio a Hector Babenco, dopo la sua morte avvenuta a Sao Paulo il 13 luglio 2016. Ho avuto l’occasione di lavorare come suo assistente durante le riprese di un film a Venezia nel 1998, dove Hector dirigeva la seconda unità e faceva anche un ruolo da attore. “The Venice project” (regia di Robert Dornhelm) è un film curioso, non completamente riuscito ma interessante, con un cast stellare che comprendeva Lauren Bacall e Dennis Hopper.
Con Hector è nata subito una reciproca simpatia e siamo sentiti per anni… Al festival di Rio nel 2000, dove ero invitato con il mio primo film (“Mare Largo”), Hector mi ha portato a una memorabile cena con Julian Schnabel che con “Before Night Falls” aveva appena vinto il premio speciale della giuria a Venezia. Un film straordinario, che lanciò Javier Bardem in America. Avevo già incontrato Julian a Venezia e quindi ero molto contento, ma dispiaciuto di essere seduto a tavola lontano da lui. Vicino a me c’era un tipo magro e discreto che a un certo punto mi chiese come mai mi trovavo a Rio… Per educazione anch’io gli feci qualche domanda. Disse che scriveva canzoni e poco altro. Quando la mia amica Uta mi venne a prendere mi disse con rammarico: “Perché non mi hai detto che eri a cena con Caetano Veloso, sarei venuta un po’ prima…” Non lo avevo riconosciuto!
Caetano Veloso
Dopo Rio, con Hector ci siamo persi, per poi incontrarci di nuovo anni dopo, per caso, e abbiamo mantenuto i contatti fino alla fine.
L’occasione di questo ricordo personale di un grande uomo di cinema, è legata ad altre coincidenze: la fine del montaggio di un documentario che ho seguito per circa due anni, realizzato con la “casa circondariale” di Terni (la prigione in parole povere) in collaborazione con Rai Cinema, concluso il 14 febbraio 2017, giorno di San Valentino, patrono di Terni.
L’idea di Chiara Pellegrini, appassionata e lungimirante direttrice del carcere, era quella di “ridare la voce ai detenuti” con la responsabilità della loro immagine fuori dal carcere. Per la prima volta (credo nella storia) sono stati loro a realizzare le riprese da “autori”, scegliendo contenuti e linguaggio. Il cambiamento del punto di vista è la cifra del film.
Il progetto è partito grazie a Oreste Crisostomi, che a Terni aveva iniziato un cineforum con i detenuti. Dopo vari cambiamento di percorso ha poi finalmente trovato una sua definizione produttiva, grazie alla determinazione di Sandro Frezza, che con me l’ha prodotto.
Sei detenuti (selezionali in accordo con la direttrice e con il comandate del carcere Fabio Gallo), hanno avuto in mano una telecamera per alcune settimane allo scopo di documentare la loro vita, in piena libertà di azione da registi-operatori, ovviamente nei limite della loro condizione… chi nella sezione “comuni”, chi in quella dei “semi liberi”, chi ormai in “affidamento” fuori dal carcere.
Ottenere i permessi non è stato facile, anche per le procedure legare alla sicurezza che devono essere sempre rispettate. Rosario, Alessandro ed Erminio vengono dalla Campania. Thomas da Milano, ma è cittadino svizzero. Slimane dal Marocco. Rachid dalla Tunisia.
Sei storie e personalità molto diverse. Per tutti e sei, condanne piuttosto pesanti: omicidio, rapina, spaccio di droga.
Il titolo “Fuori Fuoco” è nato durante il seminario per l’apprendimento dell’uso della telecamera… un po’ per scherzo, perché all’inizio molte riprese erano sfocate, ma può anche far pensare che ora i sei registi-detenuti sono lontano dal “fuoco delle armi” e del pericolo delle loro vite precedenti.
Entrare in un carcere, familiarizzare con un gruppo di detenuti e frequentarli per oltre due anni può riservare molte sorprese. Prima di tutto si rimane colpite dalle persone. L’intelligenza e la sensibilità dei detenuti che ho incontrato durante la lunga realizzazione di questo film mi porta a supporre che l’esperienza del carcere sia, nel bene e nel male, molto formativa.
“Chi galera non prova, libertà non apprezza!”
Una specie di proverbio che nel film viene pronunciato da Thomas, che si è formato e ha “lavorato” con gli ultimi componenti della banda Vallanzasca. La sua storia è particolarmente curiosa, perché viene da una “buona famiglia”. Non gli mancava nulla, ma fin da ragazzo si era sentito irresistibilmente attirato da una vita fuori dalle regole, una vita nel crimine. All’epoca, le bande operanti a Milano, avevano una specie di “codice d’onore” e le armi erano considerate un male necessario. Lo scopo era l’arricchimento, la violenza gratuita era impensabile.
La banda Vallanzasca durante il processo
Thomas aveva appena quindici anni quando cominciò a frequentare il bar dove alcuni personaggi della Milano criminale passavano il tempo, giocando a carte e ritrovandosi a bere. Erano rapinatori di banche della vecchia scuola, con una grande esperienza e un approccio quasi scientifico. Ben presto era diventato il “pinella”, il ragazzo di bottega che veniva mandato a comprare le sigarette e a fare piccole commissioni, ma niente di illegale. Per questo già riceveva delle mance, di molto superiori alla paghetta che i suoi genitori, del tutto ignari, gli passavano ogni sabato.
L’inizio della sua storia ricorda molto quella del personaggio interpretato da Ray Liotta in “Goodfellas” di Martin Scorsese.
Ray Liotta in “Goodfellas”
Aveva iniziato facendo il palo, poi l’autista al cambio delle macchine… l’autista fuori dalla banca. Poi, siccome era molto giovane e aveva una faccetta d’angelo, i capi decisero di utilizzato per le “aperture”. Si presentava alla porta della banca prescelta, dove la guardia non esitava a farlo entrare… ma ecco che in pochi secondi arrivavano gli altri con le armi.
“Le rapine sono peggio della droga… perché ti danno una scarica di adrenalina, e ne vuoi sempre di più, al di la dei soldi.”
Thomas non è finito in galera per rapina, lo hanno fregato un po’ come Al Capone, con un accumulo di piccole pene in seguito a 23 controlli fatti a un indirizzo falso che aveva dato, dopo essere fuggito in Brasile mentre era in libertà vigilata. Quando è stato catturato, pensava ingenuamente di dover scontare un paio d’anni al massimo: ne ha avuti diciotto, ridotti poi a quattordici.
Al Capone
Rachid era in prigione per omicidio, pieno di rabbia e di rancore, ma un giorno aveva seguito il suggerimento di un educatore e si era messo a scrivere quello che pensava, trovando nella poesia la forma a lui più consona… nella sua lingua, ma anche in italiano, che orami parla con proprietà di linguaggio ed eleganza.
Nel film ci sono due poesie di Rachid. Una delle due è declamata da Gilberto, un altro detenuto: la sua voce su un montaggio d’immagini statiche. Silenzio assordante risiede nell’anima e nella mente. Ne alba ne tramonto. Ho visto momenti difficili vissuti in angoli di buio e giornate insignificanti. Ho visto vite apparenti di esseri umani sepolti vivi e morti viventi. Ho visto draghi senz’ali, rassegnati, inghiottiti dai cancelli. Nel passeggio, pezzettini di carta sotto il soffio del vento, residui di urla interiori, di una vita andata in brandelli. Nel colloquio, fazzolettini bagnati di lacrime, da un’anima amareggiata, e tanti, tanti baci, stampati su quella maledetta vetrata.
Rachid ha pubblicato il libro delle sue poesie. Ormai è vicino alla fine della sua condanna, nel giro di un mese o due dovrebbe essere liberto.
l’interno del carcere di Terni
Erminio faceva una vita apparentemente normale: una famiglia, un buon lavoro da trasportatore… ma poi, ogni tre/quattro mesi, lui e la sua banda, rapinavano un portavalori. Con la moglie e il figlio riusciva a giustificare un migliaio di euro in più ogni mese, con la scusa di qualche straordinario, e quindi qualche spesa extra, una vacanza, un regalino, qualche ristorante…
In realtà in cantina nascondeva centinaia di migliaia di euro: ogni mattina ne prendeva una mazzetta, tre/quattromila euro che poi consumava nel corso della giornata… donne, droga, gioco d’azzardo.
“Manie di grandezza, stupidità…”
La sua parte nell’ultimo bottino era di centotrentamila euro. Se avesse confidato alla moglie la sua doppia vita è certo che lei lo avrebbe lasciato e denunciato… ma quando l’hanno beccato (per una fatalità non prevedibile) è rimasta con lui e l’ha aspettato fino alla liberazione. In carcere ha scritto un libro in collaborazione con Gilberto, un altro detenuto, che è stato pubblicato dalla casa editrice AGA nel 2015: “Vademecum del detenuto. Manuale per sopravvivere in un carcere italiano”
Al momento delle riprese del film aveva già finito di scontare la sua pena e si trovava in una casa famiglia a Terni.
Alessandro preferisce non parlare dell’episodio che l’ha portato a una lunga detenzione. Dopo una lite, era andato a casa a prendere la pistola. Era alterato, e aveva sparato con l’intento di uccidere… ma aveva sbaglio bersaglio, troncando la vita a una bambina che si trovava lì per caso. Il senso di colpa lo perseguita e non è un caso se nel suo percorso di riabilitazione abbia intersecato la vita di un ragazzo autistico, con il quale ha stabilito un rapporto molto speciale, con un reciproco sostegno, scambio di amicizia e affetto. Forse ha trovato la sua strada… sembra che abbia una vera capacità di relazione con questi ragazzi problematici e potrebbe continuare a lavorare in questo settore. Adesso è in semi libertà e ha trovato una ragazza con la quale spera di ricominciare.
Rosario ha un sorriso speciale, una stazza da rugbista, un carisma che si avverte ancora per un po’ nell’ambiente quando se ne va per tornare nella sezione dei semi-liberi… A Napoli ha una moglie e un figlio. Gli hanno dato 14 anni e 8 mesi per spaccio, quando aveva poco più di vent’anni.
E’ difficile comprendere la pesantezza di certe condanne quando sentiamo che fatti di cronaca con stupri, pedofilia e omicidi, spesso si concludono con pene molto più leggere. Chi non ha i mezzi per difendersi adeguatamente paga per tutti.
Rosario mi ha spiegato che il motivo della sua grave condanna è che aveva un fratello a Como… spacciatore anche lui.
“Ma non lavoravamo insieme… Ognuno per se.”
Ogni tanto si telefonavano per salutarsi e così gli hanno dato anche l’associazione a delinquere, con il relativo inasprimento della pena. Questa è la sua versione… Non ho letto gli atti del processo ma mi è difficile non credere alla parola di Rosario che sprizza simpatia, entusiasmo e speranza, nonostante la sua condizione.
A parte il rammarico di essersi perso dietro le sbarre gli anni della crescita di suo figlio, il suo ottimismo partenopeo lo porta verso un futuro che sono certo sarà migliore del suo passato.
Slimane è evaso, è fuggito in Marocco. Gli mancavano solo un paio d’anni e questa evasione è difficile da spiegarsi se non per l’inquietudine che lo accompagnava. Ogni tanto diceva di non farcela più… Il personaggio di Slimane apre e chiude il film.
Ormai aveva maturato il diritto a un permesso premio senza accompagnatore. Un cugino è venuto a prenderlo per portarlo a Perugia qualche giorno. Dopo essere andato alla caserma dei carabinieri a firmare, guadagnando ventiquattro ore, ha fatto perdere le sue tracce. Pensiamo che sia in Marocco, dove non esistono accordi per l’estradizione.
Non avrebbe senso per me giudicare le sue azioni, non ne so abbastanza, ma non posso che essere felice di saperlo finalmente libero, nel suo paese, con la sua famiglia.
La cosa straordinaria è che dopo la fuga, controllando il materiale da lui girato, abbiamo trovato una lunga ripresa notturna, fatta all’interno della sua cella. Con un notevole gusto dell’immagine e una “regia” davvero efficace, si è ripreso riflesso sul vetro della finestra che dà sul grande cortile interno della prigione, attraverso le sbarre. Un lungo monologo in arabo. Abbiamo chiesto a Rachid di tradurlo e il risultato è stato sorprendete. Slimane in quel momento di solitudine e disperazione racconta la sua storia. Alla luce delle decisioni che poi ha preso questa testimonianza rappresenta una specie di testamento spirituale, l’ultimo atto della sua partecipazione al progetto FUORI FUOCO. Un finale da brivido!
Da film maker a film maker: grazie amico.
Durante il festival di Cannes del 2010, poco prima della proiezione del film di Sabina Guzzanti “Draquila – l’Italia che trema”, incontrai per l’ultima volta Hector Babenco. Erano passati dodici anni da quando avevamo lavorato insieme a Venezia, dieci dall’incontro a Rio.
Cannes riproponeva alcuni suoi film nella sezione “Classics”. Fui molto contento di quell’incontro fortuito, anche perché con un certo orgoglio gli potevo dire che ero invitato al festival come “produttore di un film della selezione ufficiale”.
Hector Babenco a Cannes
Gli presentati Sabina e poi rimanemmo a parlare per un po’. Mi venne in mente, e glielo ricordai, una storia personale che mi aveva raccontato dodici anni prima a Venezia. Riguardava una donna che aveva lasciato un segno profondo nella sua giovinezza. Molti anni dopo l’aveva incontrata in Brasile. Hector era ormai un regista affermato, con una nomination all’Oscar. Inizialmente l’incontro era stato molto emozionante ma poi la cosa aveva preso una piega inaspettata. La sua antica fiamma gli aveva ricordato un episodio della loro giovinezza nel quale avevano fatto l’amore in modo particolarmente passionale e poi lui l’aveva accompagnata a casa con un vecchio pick up…
Già alcuni particolari del racconto non tornavano, ma a quel punto Hector aveva capito che, nel ricordo, il “grande amore della sua vita” lo aveva confuso con un altro. Lui non aveva mai avuto un pick up! E pensare che per quella donna aveva corso dei rischi gravissimi, ritardando la partenza dall’Argentina, suo paese natio: solo per una serie di fortuite causalità era scampato all’arresto ed era fuggito, prima in Italia, poi in Brasile dove sarebbe vissuto fino alla sua morte.
Dopo quell’incontro a Cannes ho ripreso i contatti con Hector, ma in due successive occasioni non siamo riusciti a incontrarci a Sao Paulo, quando fui invitato al festival nel 2013 (con “Un minuto de silencio”) e nel 2014 (con “Vinodentro”).
La prima volta Hector non era in città, la seconda era in ospedale. Evidentemente non era destino che le nostre strade s’incrociassero ancora se non nel mondo virtuale della memoria che qui viene fermata e diventa una piccola storia.
FMM: Come è cominciata la tua avventura nel cinema?
CR: Non so neppure dire se sia mai iniziata, ho semplicemente realizzato qualche film.Diciamo che ad un certo punto della mia vita ho scoperto di amare la poesia ma di non saper scrivere. Ho avuto una strana vita, non saprei individuare con esattezza il momento esatto nel quale il cinema ha fatto irruzione in essa. Sono nato e cresciuto in una famiglia estremamente religiosa, in quella che le persone “comuni” non farebbero fatica a definire una setta. Fino ai miei 18 anni la mia esistenza è stata fortemente normata, disciplinata e forgiata da un’educazione molto rigida. Il mio carattere ribelle ha fatto sì che ne uscissi con conseguenze molto dure che perdurano a quasi venti anni di distanza da allora. Ad un certo punto ho intuito che il cinema, i film, erano come un singhiozzo per me. Un singulto da me e dalle mie pene e, al tempo stesso, un’emanazione di queste. Il cinema è la contemplazione e il dissolvimento nell’attimo presente, è viaggio sciamanico, è la piccola morte, è il dischiudersi del non-duale. Guarisce ed infetta, lenisce e divampa. É il dare voce alla coscienza del mondo nascosta in noi e alla coscienza nostra insita nel mondo. É cooperazione con le energie, è akasha, è śakti, è spirito santo, è kundalini. Ma è anche uno schifoso oggetto di consumo da collezionare, vomitare e defecare. Ha dunque potenzialità infinite. Insomma, tante chiacchiere per una risposta vaga.
Sul set di Ananke (foto di Mario Cichetti)
FMM: Quando e come è nata l’idea di “Ananke“?
CR: “Ananke” è nato da una preghiera, dalla spossatezza di vivere. Invece di mangiare il peyote e fare domande ho deciso di fare un film e cercarle lì. E ha funzionato, poiché da “Ananke” tante cose sono cambiate nella mia vita. Io e Betty avevamo preso in affitto una casa, la stessa dove viviamo ora, senza luce né gas, né acqua calda. Era il 2011, a dicembre, con la neve ed il freddo. E, come al solito, senza il becco di un quattrino. Di per sé questa non era una condizione che poteva mettermi a disagio. Ma era abbinata ad una situazione esistenziale davvero infame. Avevo seriamente smesso di capire il prossimo, non ne capivo le azioni, non ne condividevo le esistenze. Non provavo empatia per nessuno, coltivavo l’insofferenza e il rancore, senza motivi precisi. Ero dunque ad un passo dal non essere nemmeno più un essere umano. Mi sentivo disgustoso, apatico. Quindi abbiamo deciso di fare “Ananke“, per capire se là fuori c’era ancora vita. Se è giusto quello che siamo e come decidiamo di vivere. Cosa significa ‘giusto’. Cose così. La lavorazione di “Ananke” è una costellazione di ingiustizie. Non so ancora cosa sia giusto, ma ho sicuramente imparato cosa non lo è. Sono molto contento di averlo fatto.
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Quali sono state le maggiori difficoltà dal punto di vista tecnico nella realizzazione del film?
CR: Lavorare con un’emulsione fresca. “Ananke” era pensato per essere girato con pellicole Svema scadute da 40 anni, recuperate nell’ex Iugoslavia. Un film già vecchio e fragile ancor prima di essere montato. Poi è andata in modo diverso e abbiamo usato la Kodak Vision3, nuova. Ma ripensarlo con un’emulsione che restituiva un’immagine tanto diversa è stato molto difficile. Alla fine mi sono ritrovato per le mani un telecinema, che è una versione intermedia molto scadente, che di solito viene utilizzata per convenzione solamente per trasferire il film dall’emulsione al software di montaggio. Il master è ancora oggi un telecinema, poiché non ho il denaro per concludere la lavorazione presso il laboratorio. Dunque il master è tecnicamente molto scadente e conserva delle qualità molto interessanti, poiché è la scansione di qualità molto bassa di una pellicola di qualità molto alta. Dunque una involontaria povertà digitale in termini di nitidezza e definizione, che mi riavvicina un po’ all’idea iniziale, ma è completamente un’altra cosa. Un altro aspetto piuttosto impegnativo è stato realizzare la colonna sonora, suoni e composizione elettroacustica. Con Anthony Di Furia abbiamo optato per l’Ambisonics, uno standard che nel cinema non ha mai avuto fortuna, ma che è senza ombra di dubbio ancor più interessante ed espressivo dell’Atmos della Dolby.
Anthony Di Furia
FMM: Chi è stato il tuo braccio destro durante questo percorso?
CR: Betty naturalmente. In questo percorso come in tutti gli altri. Con lei ho creato la mia famiglia e creo i miei film, dunque siamo in comunione totale. Senza Betty e i suoi stimoli mi sarei già stancato del cinema e della vita.
Claudio Romane ed Elisabetta L’Innocente sul set del film
FMM: Quali errori non dovrebbe mai commettere un regista in pre, in post e durante la produzione?
CR: Quello di non cambiare idea, di blindarsi dietro a scalette, ordini del giorno e sceneggiature. Non deve smettere di osservare e lasciarsi guidare. E’ bene pianificare, o essere fedeli ad un’idea o ad un tema, ma non bisogna zittire il proprio intuito, la propria coscienza. Non vogliamo ammetterlo, perché altrimenti saremmo quasi tutti senza un lavoro, ma molte cose nel cinema non hanno niente a che vedere con i meriti umani. Una delle più grandi abilità di un cineasta è quella di annullarsi e mettersi in ascolto. Di suo deve solo mettere la capacità di non fare niente. Mettersi da parte, farsi attraversare da ciò che si filma, che si tratti di un albero, di un cane, di una sedia o di una persona.
Deve morire in quello che trova, non per quello che ha e che pensa di essere.
FMM: Rivedendo il film c’è qualcosa che cambieresti oppure l’attuale versione è un’autentica director’s cut?
CR: É inevitabilmente il frutto di scelte, è uno degli infiniti film possibili. A distanza di tempo, se dovessi farlo ora, sarebbe diverso, credo sia naturale. Ma “Ananke” è quello che doveva essere nel 2015, quindi è quello che deve essere ora. Dovrei vederlo in pellicola per rispondere alla tua domanda correttamente, è quella la versione definitiva del film. Versione che non ho mai visto né conosciuto, come dicevo poco sopra.
FMM: Cosa vorresti che notassero gli spettatori nella tua opera?
CR: Se stessi. In un uomo, una donna, una capra, una bimba e un albero. Vorrei che immaginassero cosa c’è fra un’inquadratura ed un’altra, fra gli stacchi di montaggio. Vorrei che abitassero quelle frazioni nere. É quello “Ananke“. Ed è quella la necessità del cinema.
FMM: Qual è il complimento più bello per un regista?
CR: Non so, un regista non dovrebbe mai ricevere complimenti. Il rischio è quello di illuderlo di avere meriti, mentre il suo compito è azzerarsi, annichilirsi. Si parla dello sguardo di questo o quel regista. La questione dello sguardo per me è semplice: non si tratta di decidere da che angolazione, posizione e in quale modo osservare e raccontare le cose, ma decidere la posizione dalla quale si sceglie di morire. Per me fare un film è inseguire un ricordo, un qualcosa che è già morto qui nel momento in cui si è manifestato. Ma anche da morto quel ricordo continua a manifestarsi; mediante un film, ad esempio, che è uno squarcio fra mondi. Il ricordo è una realtà parallela che vive di vita propria ed esiste altrove, come le anime dei morti. Ne cerco i riverberi nella “nostra realtà” filmabile e con essi tento di ricongiungermi. Come l’indio cacciatore, che con la rana si avvelena per vedere meglio di notte, nella selva. E alla fine solo io posso essere testimone di questa esperienza. Quello che dicono gli altri non ha nulla a che fare con questo.
Claudio Romano (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Parlaci dei tuoi nuovi progetti.
CR: Con Betty ho da poco terminato “Incanto”, il nostro secondo lungometraggio. Si può considerare il sequel di “Ananke”, o il prequel di “Liebe”, non saprei proprio. Ecco, “Liebe”, probabilmente è il sequel di “Incanto”. É la scoperta dell’amore nell’aldilà, nel cinema e nella vita. Che poi sono tre modi diversi per definire la stessa cosa: l’esistenza che si dispiega sulle possibilità. Questo film è ancora in fase embrionale, non abbiamo ancora appoggi produttivi. Dobbiamo ancora individuare la strada da seguire, non sono molti (nessuno?) i produttori che ci appoggiano. Ma sia io, che Betty, siamo ottimisti.
Marco Casolino, protagonista di “Ananke” (foto di Vittoria Magnani)
FMM: Un augurio per un giovane autore.
CR: Di essere sempre umile ed umano, vicino a se stesso e a ciò che lo circonda. Di non sedersi mai e di aver fame e voglia di conoscere meglio i misteri che ci avvolgono, ovunque egli li individui. Di non essere avido, di non badare alle cose materiali. Di essere un buon vicino di casa, un buon cittadino, un affabile amico per gli sconosciuti. Di continuare a studiarsi e studiare, di cambiare sempre idea, di non essere mai coerente con niente e nessuno. Di avere rispetto, di non perdere tempo e di coltivare l’ozio e il silenzio. Di saper ascoltare i piccoli oggetti, gli animali, le persone vicine e lontane, la luna, il vento e la notte e le anime dei defunti. Di continuare ad amare fino all’ultimo alito di vita. Insomma, di essere felice.
Gira e rigira, prima o poi molto spesso i filmakers riescono a girare il loro film. E questa è sia una fortuna che una sfortuna allo stesso tempo. Sì perché da questo crogiolo gorgogliante di creatività escono sia i grandi autori di domani, quanto delle sonore boiate che non valgono i 90 minuti impiegati per la visione e che nessuno mai riavrà indietro. Eppure non c’è modo più divertente e veloce per fumarsi una fortuna che produrre un film indipendente. Per coloro che invece vogliono esplorare le rotte di una minima profittabilità è uscito un interessante studio che analizza le performance di 3.000 film usciti tra il 2000 ed il 2015 realizzato da Stephen Follows , analista dell’industria del cinema che ha collaborato con aziende del calibro di Bethesda (mica bruscolini), e Bruce Nash, fondatore della società “The Numbers” (“dove i dati e l’industria del cinema s’incontrano” recita il payoff della company). L’osservatorio contempla solo film a basso budget tra i 500 mila ed i 3 milioni di dollari i quali abbiano generato almeno 10 milioni di dollari di profitti netti per il produttore considerando tutti i canali di sfruttamento (purtroppo sono considerati nel novero anche i proventi del canale ormai scomparso dell’home video e di questo va tenuto conto nella lettura dello studio). Nonostante gli evidenti limiti a calare tale studio nel panorama italiano dove 3 milioni di dollari non sono poi un budget così basso, mentre 10 milioni di dollari rimangono il più delle volte una chimera irraggiungibile, se ne può ricavare un indicazione non trascurabile.
Il genere più profittevole è l’horror, che nonostante il generalmente schifato parere della critica (ha un metascore di appena 65/100) è in vetta al rapporto tra costi e ricavi. La sorpresa è che neppure i fan danno un miglior giudizio sulla qualità media delle produzioni (6,2 su IMDB), ma ugualmente si affollano ai botteghini e fanno (facevano) incetta di DVD. fanalino di coda nelle forme di sfruttamento è ovviamente la TV per le evidenti caratteristiche dei film. Un’intressante eccezione in tal senso è il film “Monsters” in cui i mostri però praticamente non si vedono, diretto da Gareth Edwards che ha anche scritto la sceneggiatura (probabilmente già sapeva che non avrebbe avuto i soldi per i mostri).
Al secondo posto troviamo i documentari. Ebbene sì il rapporto tra costi e ricavi premia il documentario a patto sia incentrato su di un argomento di forte interesse o su un personaggio di grande calibro. Sia la critica che l’audience premia il genere con un punteggio molto alto vicino a 80/100. Sarà l’effetto Michael Moore e anche il costo così contenuto rispetto ad un film da ottimizzare più facilmente il rapporto costi-ricavi, ma il documentario si conferma il miglior investimento dopo l’horror.
Al terzo posto c’è una mezza sorpresa perché troviamo film incentrati sui buoni sentimenti o di argomento religioso . Affossati generalmente dalla critica (il metascore è un disastroso 26/100) hanno invece una forte base di fan che li fanno prosperare in tutti gli ambiti di sfruttamento, inclusa e soprattutto la TV che apprezza la durata media piuttosto alta, attestandosi attorno ai 110 minuti il che gli consente di coprire sia la prima che la seconda serata . Ottimi esempi di produzioni italiane in questo genere sono “7 km da Gerusalemme” tratto dall’omonimo libro di Pino Farinotti (sì proprio quello del dizionario dei film) e “La Strada Di Paolo” di Salvatore Nocita e con Marcello Mazzarella.
La medaglia di legno va al dramma d’autore che al pari dei documentari ha il plauso di pubblico e critica, ma una base di audience piuttosto contenuta ed un endemico problema di visibilità che il passaggio negli innumerevoli e pur prestigiosi festival del mondo non riesce a risolvere appieno. Singolari eccezioni sono rappresentate dai drammi che hanno per oggetto un tema di forte attualità come il razzismo, l’intolleranza, la corruzione o la violenza contro le donne. Possiamo citare a buon esempio “Fruitvale Station” di Ryan Coogle o “Arretez Moi” di Jean-Paul Lilienfeld che tra l’altro hanno il triste pregio di non tramontare di interesse sino a che il problema di cui trattano rimane nelle prime pagine della cronaca.
Salta all’occhio come i grandi assenti siano le commedie, i musical, i thriller ed i film d’azione. Le ragioni sono insite nei generi stessi. Un film d’azione a basso budget è un aporia, sul versante thriller e commedie i stenta a scovare una trama che non sia trita e ritrita, mentre i musical sono da sempre un genere rivolto ad una nicchia troppo contenuta e se poi si aggiunge il limite del basso budget la condanna all’insuccesso è quasi certa. Ma tutto questo accade negli Stati Uniti e rapportandolo all’Italia si dovrebbe rivedere al ribasso la posizione dell’horror ed al rialzo quella delle commedie le quali prosperano facendo leva sulla fabulazione con cui lo spettatore italiano raggiunge una beata quiete rivendendo sempre la stessa commedia, al limite con l’apporto di minime variazioni. Per cui cari filmakers indipendenti, quando metterete in ballo il vostro prossimo progetto, grazie a questo studio, avrete un’altra voce a dirvi: “Vi avevamo avvertito”. Un altro monito di cui beffarsi a cose fatte, comunque siano andate.
Il cinema indipendente non è necessariamente povero ed in ogni caso è un cinema altamente professionale che a cura affinché i propri prodotti abbiano un EPK (Electronic Press Kit) di tutto rispetto e corredato di ogni elemento utile a sostenere il film. Non ultimo tra questi elementi è il “making of“, ovvero il dietro le quinte della produzione dell’opera. Non vogliamo essere irriverenti o addirittura presuntuosi, ma immaginate come sarebbe interessante visionare oggi il making of di “Io Sono Un Autartico” di Nanni Moretti.
C’è chi storce il naso alla prospettiva di frugare oltre lo schermo, per alcuni è come rompere l’incanto di un gioco di prestigio, ma a tutti gli altri, quelli che riescono a mantenere intatta la magia anche dopo aver esplorato il meccanismo della produzione farà piacere sapere che mercoledì 13 aprile l’Accademia RUFA ospita il Talk con Andrés Rafael Zabala, docente RUFA di cinema e regista attivo in Italia e all’estero, nel corso del quale sarà presentato il “making of” del suo ultimo lungometraggio, dal titolo “A Dark Rome”.
Momenti nel Backstage del film
Il documentario sul film è stato realizzato dallo studente RUFA di cinema Francesco Giorgi, con il prezioso contributo del materiale girato dal Prof. Alessandro Carpentieri. Il film di Zabala è un thriller ambientato nella capitale, che ha convinto pubblico e critica, tanto da aggiudicarsi il Macabreite Award come Best thriller del 2015 al Macabre Faire Film Festival di New York.
Il regista del film Andrés Rafael Zabala
È una storia su come ognuno di noi si confronta con i propri sensi di colpa ed è un soggetto nel quale convivono elementi del thriller, (gli omicidi e l’apparizione di un fantasma), ma anche i toni di una commedia nera (il centro estetico per preti). Il Talk è un incontro con gli studenti per mostrare tutti i processi di produzione che hanno contribuito a questo successo, sintetizzati nel video di Giorgi. Sarà quindi un’occasione utile per analizzare i nuovi modi di “fare cinema”. Insieme al regista saranno presenti anche altri addetti ai lavori, tutti impegnati, in modo diverso, nella realizzazione del lungometraggio. Si tratta dell’attrice Rosanna Fedele, dell’attore Bruce McGuire, dello studente RUFA e regista Francesco Giorgi, di Corrado Parigi, amministratore delegato della casa di distribuzione 30 Holding e Andrea Tosi, compositore e orchestratore per musicals e cinema.
Rosanna Fedele
Oltre a vedere il documentario ci si concentrerà su argomenti di grande attualità per un cineasta nei tempi della crisi, come le difficoltà e i vantaggi dei film indipendenti low budget, la realizzazione delle musiche ed il sound design del film, il problema dei diritti musicali costosi, i criteri di scelta dei film da parte di un distributore e l’importanza della partecipazione ai Festivals. L’appuntamento è mercoledì 13 aprile, dalle 15 alle 17 nell’aula Magna (in via Taro 14). Per prenotarsi è necessario iscriversi in segreteria.
Era l’aprile del 2002 quando in America un film indipendente con una protagonista sconosciuta fu distribuito in sordina in poche sale e finì per essere programmato per quasi un anno e divenne il film indipendente con il maggior numero d’incassi di ogni tempo.
Sono quindi passati ben quattordici anni da “Il Mio Grasso Grosso Matrimonio Greco” e, cosa incredibile, l’intero cast originale torna sugli schermi con un sequel che sfida “Batman contro Superman“.
Il progetto nasce all’origine come spettacolo teatrale, scritto e interpretato dall’ormai e per questo giustamente famosa Nia Vardalos. La commedia andava in scena a Los Angeles dal 1997 e fu dopo aver assistito ad una di queste rappresentazioni che la moglie di Tom Hanks, Rita Wilson anche lei con origini per metà greche, convinse il marito a produrre l’adattamento cinematografico.
Tom Hanks e signora alla prima del film a New York lo scorso 15 marzo
Nia Vardalos, che aveva rifiutato analoghe proposte da major che avrebbero voluto imporre un’ambientazione italiana o ispanica ed una protagonista di grido, accettò incredula la proposta della Playtone, la casa di produzione di Tom Hanks, che acquistò quindi i diritti di adattamento dell’opera teatrale e si presentò alla HBO. La regia fu affidata a Joel Zwick, solido regista televisivo ai tempi noto per le serie “8 sotto un tetto” e “Una bionda per papà” (e quindi presumibilmente pratico nel dirigere set singolarmente “affollati”), mentre la distribuzione cinema andò alla IFC films, piccola ma vitale società che ha il merito di aver portato nelle sale statunitensi molti gioielli della cinematografia come “Frances Ha” di Noah Baumbach e “Valhalla Rising“.
Quest’ultima non disponeva di quegli investimenti pubblicitari ciclopici propri della major e quindi basò la strategia di marketing sul passa parola e, cosa non frequente, funzionò benissimo. Anche se non raggiunse mai la posizione di testa delle classifiche, alla fine incassò 241 milioni di dollari, il che lo rende il film indipendente che ha incassato di più negli USA e cosa forse ancor più incredibile Nia Vardalos ebbe la nomination per l’Oscar (come miglior sceneggiatura originale e non come attrice protagonista, che quell’anno andò alla Kidman per “The Hours“), che non vinse battuta però da un ottimo Almòdovar per la sceneggiatura del suo “Parla Con Lei”.
In Italia fu distribuito dalla Nexo con gran successo ai botteghini ed ancora oggi vive in home video come uno tra i DVD che ancora ben presenziano sugli scaffali catalogici.
Difficile che si verifichi ancora un successo così eclatante, ma chi può dirlo? Saranno senz’altro molti coloro che andranno a vedere o rivedere Toula (Nia Vardalos) e tutta la famiglia Portokalos nei cinema.
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.