Le invisibili

Le invisibili, di Louis-Julien Petit racconta le vicende di Manu e Audrey, due assistenti sociali che ce la mettono tutta per riabilitare le loro assistite, donne della Francia del nord senza fissa dimora. 

Il regista Petit in basso circondato dal cast

Ne esce una involontaria rappresentazione della Gestione del Personale. Il quadro è completo e comprende la selezione del personale, la scrittura del CV, la formazione, la relazione capo-collaboratore, la vision, la compliance e le regole, il coaching, la motivazione ed il team building. 

Ma tutto è capovolto e, per magia, diventa più chiaro. Le assistenti sociali assistono, contro la prepotenza e i pregiudizi.  

Ogni donna è una sfida, come la clochard che ha imparato in carcere a riparare elettrodomestici. Si tratta di una persona talmente onesta che dichiara, nei colloqui di lavoro, di avere ucciso il marito. Bisogna convincerla ad omettere questa confessione, visto che dall’altra parte si alza una barriera. Niente da fare, è più forte di lei raccontare la verità. 

una scena del film

Poi c’è la ragazza di buona famiglia, ma portata al conflitto e ad avvelenare le relazioni. Finisce in un brutto giro e viene rifiutata anche dalle altre in una sorta di mobbing dell’emarginazione. 

Le storie sono tante e tutte caratterizzate da difficoltà insormontabili, quali una malattia psichiatrica, un disturbo borderline di personalità, una storia traumatica. 

Caro formatore, quali lezioni possiamo derivare da queste vicende dei bassifondi? In primis che ogni individuo ha risorse specifiche in coabitazione con la propria disabilità. Questo vale per ogni contesto lavorativo, per cui il volontariato offre, ove si sceglie un approccio vero, straordinarie opportunità per comprendere. 

Non a caso l’immagine iniziale: siamo in viaggio.; il percorso è il codice di chi ci prova, di chi vuole veramente valorizzare le persone. E ove maggiore è la povertà tanto più illuminante il percorso.  

La cartina al tornasole è rappresentata da Hèlène, una volontaria che, avvicinandosi da ricca al mondo rovesciato finisce per gettare alle ortiche il proprio matrimonio, le proprie certezze. La sua presenza straniata è contrassegnata da continui “non capisco”. Ma ci prova e, per questo, riesce a portare un contributo, portando a casa molto di più.  

Distribuito nelle sale italiane da Teodora

Il vero nemico è il pregiudizio, che non è tanto un fenomeno culturale, quanto la voglia di semplificare. Dove non si capisce, si mandano le ruspe. Non è una questione di cattiveria, quanto di incapacità di andare in profondità. L’ideologia idiota (“devono cavarsela” “Se le aiutiamo non facciamo il loro bene”), sostenuta dal pensiero unico della pseudo economia, genera soluzioni sempre più costose. 

L’uniformità impossibile della regola non valorizza nessuno.  

Dunque il vero nemico della valorizzazione del personale è nella superficialità, nel giudizio prematuro, nella demotivazione che inevitabilmente coglie chi ci prova. Chi mette le mani nel pattume per riciclare cose o persone deve avere molta pazienza. Il mondo infero dei perdenti ed il mondo paradisiaco dei vincenti non sono così diversi, altrimenti non esisterebbe il “change management”, la versione nobile della riabilitazione.     

 Per questo il vero eroismo è quello di chi ci crede, sia che lavori con i disabili certificati sia che assista i disabili integrati nel mondo del “profit”. Ecco quindi dimostrato il bivio: riciclare persone con pazienza e intelligenza oppure accettare i costi delle semplificazioni. Bisogna scegliere.  

Luigi Rigolio

Don’t Worry

Caro formatore, forse “Don’t worry” di Gus Van Sant non è un film da utilizzare in aula, ma è un film da vedere. Non tanto per i temi moralistici o sociopolitici, che farebbero di Gus Van Sant l’ennesimo follower leftist della “Leggenda del Santo bevitore”. La critica ha sottovalutato questo capolavoro interpretandolo un atto di amore per omosessuali, diversi, disabili, oppure come una versione riscaldata della zuppa americana: “Se ci credi ce la puoi fare…”.

l’attore Joachim Phoenix (a sinistra) ed il regista Gus Van Sant

Secondo Federico Gironi (Cooming Soon) la vicenda del fumettista tetraplegico Callahan “si tramuta in un incoraggiamento a fare ciò che tutti noi dovremmo fare per vivere una vita più felice e sentirci più realizzati: smetterla di lamentarci e sentirci vittime, trovare nel mondo che ci circonda stimoli e aiuti, la forza di perdonare e di avere rispetto per gli altri e noi stessi, sorridere di fronte ai problemi e agli impedimenti ed esprimerci liberamente, per trovare così soluzioni giuste, che sono sempre possibili.”

Gus Van Sant, che ne sa di cinema, ci racconta il percorso di redenzione di John Callahan (interpretato da uno strepitoso ed irreale Jaquin Phoenix) disegnatore umoristico nato nel 1951 e scomparso nel 2010. Dopo l’incidente, a ventuno anni, John inizia un percorso di liberazione dall’alcol e, nonostante la disabilità, riesce ad ottenere la pubblicazione delle proprie vignette, poco rispettose del “politically correct”, trovando anche l’idillio con una hostess svedese.

Rooney Mara e Joaquin Phoenix in una scena del film

Ma già nella scena iniziale Van Sant ci avverte esplicitamente che la vicenda è un pretesto per un’interrogazione sul senso della scrittura, del cinema, del destino umano, “che forse non ha un senso”.  Dunque non è un film sull’individualismo americano ma all’opposto un percorso di ricerca del senso attraverso i limiti dell’umano, creatura disabile per nascita. E ci deve essere un passato, un’origine, un qualcuno che ha scritto i 12 comandamenti (dell’Anonima Alcolisti)…!!!

E l’origine è chiaramente indicata da Danny Elfmann (Jonah Hill), lo sponsor dell’Anonima Alcolisti, il demiurgo che mette in ordine le cose, all’americana, passo dopo passo. I nonni ricchissimi di Danny hanno trasmesso la ricchezza ai suoi genitori che a loro volta l’anno trasmessa a lui, figura cristologica, sceso sulla terra dall’alto per salvarci. E il “dove” è al di fuori di noi, non sappiamo dove ma certamente da qualche parte ove si capisce che Danny sta ritornando. Non sono casuali le ripetute inquadrature della bocca, del fumo, di ciò che rimanda allo spirito, alla madre del racconto, ai “genitali”. E didascalica quindi la scena dei genitali sulla bocca. Un’omaggio a “Smoke” di Wayne Wang.

Harvey Keitel in “Smoke” (Wayne Wang 1995)

Ma dunque dove possiamo cercare le risposte? In un Dio ovviamente, che ci parla tramite gli angeli e i santi, che sono ovunque. Sono gli ex alcolisti del gruppo, sono i bambini, i passanti, basta saperli interrogare, anzi basta ascoltarli, senza giudicare, senza controbattere.

E nel percorso catartico del perdono universale e del ringraziamento John Callaghan ritrova il proprio professore di disegno. E guarda caso anche lui è una creatura divina, che capisce e perdona e ricorda che il manifestarsi del talento era già chiara all’epoca del Liceo. Tutto era già scritto.

Phoenix e Van Sant sul set

Dunque il talento, e questo si è un tema per la formazione, è la nostra cifra, la nostra radice personale, ciò che può dare i frutti nelle condizioni più estreme. Non si capisce perché, da anni, gli americani ci continuino a dire: “L’importante è il talento!”, e noi continuiamo a sentire: “L’importante è la motivazione!”. Ci vorrà tempo…

Luigi Rigolio

Protagonisti del cinema italiano: il professor Giuliano Urbani

In Italia la divulgazione delle informazioni e pertanto la creazione delle opinioni, quella che in altri termini si chiama persuasione, transita tramite giornali, televisione e meccanismi strumentali, quali incarichi, presidenze e quant’altro. Con questi sistemi persone di nessun valore, di nessuna capacità, o di normali attitudini, riescono a creare a loro vantaggio la memoria di “buon operato” o di “rinnovo delle strutture” o di “intervento atteso da tempo”.

Urbani in Parlamento

Chi invece non ha mai usato la “persuasione” quale mezzo per crearsi una fama positiva, passa nel dimenticatoio sociale. È il caso del Prof. Urbani, sicuramente il miglior ministro che il nostro paese abbia avuto negli ultimi vent’anni in ambito culturale. Giuliano Urbani, con semplicità e senza forzare i tempi, ha intuito quali erano i difetti e i disagi del mondo dello spettacolo ed è intervenuto con leggi di sistema che avrebbero potuto radicalmente ristrutturare il settore se poi l’oligopolio successivo non avesse provveduto a demolirne i contenuti.

Giuliano Urbani e il Presidente Carlo Azeglio Ciampi

L’introduzione del “ reference sistem”, vale a dire della valutazione delle aziende e degli operatori sulla base di dati inoppugnabili, quella del “product placement” che ha riportato l’Italia in Europa, la creazione di una Cinecittà centrale nel sistema e autorevole, la preparazione di un nuovo sistema di censura, sono solo alcuni dei tratti legislativi capaci di portare nuovi capitali e di diminuire la discrezionalità che tanto piace ai nostri dirigenti pubblici.

Urbani e Sgarbi quando erano direttori scientifici del corso VaProBAC

Il prof. Urbani era ed è un uomo di cultura e non di potere, non si è saputo pertanto difendere dalle offese gratuite e volgari di Sgarbi, né dalle infiltrazioni politiche del partito che aveva collaborato a creare, e si è ritirato silenziosamente quando ha compreso che non era più in grado di navigare in un mondo evoluto malignamente.

Giuliano Urbani e la moglie Ida Di Benedetto

E’ stato accusato di favorire Ida Di Benedetto, grande attrice, grande personalità: bene, oggi è sua moglie e se le avesse dato una mano, diciamolo con sincerità, avrebbe fatto bene!

 

Michele Lo Foco

Gli abnormi costi di personaggi e format televisivi

Rai è un’azienda  che offre un pubblico servizio autorizzata da specifico contratto con lo Stato. Rai ha il compito  di  fornire al  pubblico,  e  pertanto  ai cittadini  che  pagano un canone minimo, tutto quanto sia ritenuto di pubblica utilità e che possa essere trasmesso  tramite    immagini, a partire ovviamente dall’informazione fino all’ intrattenimento,  che dovrebbe  essere  comunque  inteso come  elemento costruttivo e funzionale.

Rai  è  finanziata  dallo  Stato  che,  a  sua   volta, riceve  dai  cittadini  un canone, attualmente  addebitato  sulla  bolletta dell’ elettricità  in  modo  da  rendere  ineludibile il versamento: pertanto  Rai  viene  finanziata  dai  cittadini  italiani  e  il serv1z10 pubblico grava sui medesimi cittadini che hanno diritto, conseguentemente, ad  un utilizzo dei propri soldi che sia compatibile con l’ equità sociale cui lo stesso Stato dovrebbe tendere.

Antonella Clerici

La sig.ra Antonella  Clerici, per  condurre  uno spettacolo  giornaliero dal  titolo “La prova del cuoco”  percepisce  in  base a  specifico  contratto biennale  la somma  di € 3.400.000,00, ovvero circa unmilionesettecentomila euro l’anno.

Il sig. Flavio Insinna per condurre, a suo modo , il programma “Affari tuoi‘ percepisce circa unmilionequattrocentomilaeuro l’ anno.

Lucia Annunziata

La sig.ra Lucia Annunziata  percepisce  invece unmilionetrecentottantamila  euro l’ anno per “In mezzora(titolo che si commenta da solo anche so attualmente è stato ampliato a sessanta minuti) fino al 2019.

Il sig. Michele Santoro percepisce duemilionisettecentomila euro l’anno per programmi di cui è conduttore e autore.

Il sig. Fabio Fazio percepisce per il suo modesto programma , di costo ulteriore  elevatissimo , undicimilioniduecentomilaeuroper quattro anni e 64 serate, oltre a ulteriori compensi e sponsorizzazioni mentre la sua ospite fissa, Luciana Litizzetto, per esporre cinque minuti di banali assurdita’ , viene ricompensata con ventimila euro a puntata.

Carlo Conti

Il sig. Carlo Conti che aveva ricevuto seicentocinquantamila euro per condurre in quattro puntate San Remo, riceve oltre un milionecinquecentomila  euro annui quale presentatore generico diprogrammi.

Il sig. James Conlon, direttore dell’orchestra sinfonica della Rai percepisce trecentomila euro per sette mesi di attività.

Endemol per la cessione per due stagioni del format “Affari tuoi” (che poi è il men che nuovo “gioco dei pacchi”)  incassa cinquemilionitrecentomila euro nonché tremilioni per una edizione annua di “Detto Fatto” su Rai 2.

Orbene, nel corso degli ultimi anni è giunta all’esame della politica italiana la necessità di adeguare i corrispettivi spaventosi degli operatori Rai ad una forma di equità amministrativa, riducendo le cifre altisonanti a livello di quelle del Presidente della Corte Costituzionale, cioè fissando un limite a € 240.000,00, misura che è stata ritenuta più che doverosa, ma che ha ovviamente suscitato la polemica dei nomi di maggiore spicco e frequenza, come sopra  parzialmente descritti, contrari al fatto che tale limite massimo fosse applicabile anche ai giornalisti e ai presentatori Rai.

Fabio Fazio e Luciana Litizzetto

Appare incredibilmente evidente come non vi sia un legittimo rapporto tra compensi così abnormi, più spese non sorrette da alcuna motivazione, e la funzione propria della azienda pubblica Rai, se sol si pensi al divario economico esistente in Italia tra il Sig. Fabio Fazio ed un primario ospedaliero in cardiochirurgia, che salva la vita delle persone ogni giorno e che guadagna € 40.000,00 circa annui lavorando dodici ore al giorno con una enorme tensione emotiva.

E’ inoltre di nessun pregio la considerazione che tali compensi siano dovuti in relazione al valore “commerciale” dei personaggi e dei format, in quanto queste stesse persone e programmi, se uscissero da Rai, varrebbero nel mercato privato un decimo della valutazione attuale.

 

Michele Lo Foco

 

I Figli Di Papà

Ci deve essere un elemento comune nel fatto incontestabile che a capo, o comunque in posizione apicale, di strutture audiovisive nazionali ci siano i figli di personalità politiche o istituzionali di grande importanza.

Qual è questo elemento comune?

Le ipotesi sono molteplici, e vanno da quelle molto negative a quelle leggermente positive: partiamo dalle prime. Sembrerebbe connaturato con l’animus di “padre” quello che il figlio possa vivere comodamente in un ambiente di generica leggerezza come lo spettacolo, piuttosto che inserito in un mondo di lupi, di trappole e di lavoro a testa bassa. In questa versione il figlio è un elemento passivo, di non particolare acume né di grande personalità, che viene di conseguenza “ricoverato” laddove la concorrenza è di facile aggiramento e il lavoro di nessuna sostanza pratica, e detto diversamente, dove sbagliare non porta ad alcuna conseguenza.

Altra ipotesi è quella che per una persona illustre è molto più facile spedire il figlio in RAI o in una televisione piuttosto che farlo diventare professore universitario, in quanto nel primo caso non serve una preparazione specifica, mentre nel secondo qualcosa bisogna pur saper scrivere. La televisione è una grande chioccia che accoglie nel suo tepore ogni genere di mentalità ed ogni forma di ignoranza, perché anche quest’ultima può essere utile per capire cosa gradiscono gli ignoranti.

In televisione non si butta nulla, né la buccia né la polpa, esistono strade aperte, strade tortuose, angoletti riparati, soste invisibili, piazzole di scambio, il tutto condito da retorica, creatività, belle donne e begli attori, occasioni vacanziere, mancanza di controllo ed altro.

Chi si accorge se un dirigente televisivo non va a lavorare? Nessuno, e nessuno come un dirigente televisivo può curarsi il raffreddore a casa per una settimana. Solo un dirigente RAI ha il potere di disdire l’appuntamento un’ora dopo la sua scadenza senza che il povero interlocutore vada a bastonarlo, e di fissarne uno nuovo a un mese, dopo il festival del caso e l’ennesimo viaggio di fondamentale importanza.

C’è poi, al di sotto, l’elemento “risultato”: se in un lavoro normale sbagliare vuol dire creare danni ed averne nocumento, in televisione ciò non avviene, si possono confezionare le peggiori pecionate, si può distruggere una intera programmazione che la colpa non è mai del dirigente, ma del caso, dell’ambiente, della concorrenza, del tempo e persino dell’eccesso di bravura.

Ipotesi leggermente positiva è invece quella che il personaggio illustre abbia notato che suo figlio fin da bambino aveva tendenze artistiche, era un visionario, aveva allucinazioni nelle quali Pippo Baudo era un mago dotato di poteri soprannaturali e la De Filippi la strega cattiva. In questo caso il lavoro nella fiction o nei cartoni animati può essere sembrato al genitore potente connaturato con le predisposizioni del pargolo, al punto da piazzarlo prima possibile nell’ambito che gli è congeniale.

Resta il fatto da cui abbiamo iniziato la nostra breve riflessione, e cioè che le persone normali, che hanno figli normali, sperano che costoro divengano notai o dottori, o semplicemente che trovino un lavoro, mentre i politici e i potenti, che hanno figli privilegiati, prenotano immediatamente per loro un posto televisivo, tanto – soprattutto dopo il contratto a Fazio – tutto è possibile.

 

Michele Lo foco

The Post: nostalgia dei tempi semplici

Caro formatore,
non è facile giudicare il mondo contemporaneo. Ci sono molte opportunità, molta tecnologia ed allo stesso tempo tanta complessità e conseguente disorientamento. Di fronte all’evoluzione politico-culturale degli Stati Uniti Steven Spielberg ha sentito l’urgenza di interrompere a metà due film per dedicarsi alla storia dell’indagine del Post sul coinvolgimento americano nella guerra del Vietnam.

Il regista Stephen Spielberg in mezzo a Meryl Streep e Tom Hanks

Per questo, secondo alcuni critici questa volta Spielberg, l’unico grande autore che è stato campione nei botteghini, sembra dare importanza più al contenuto che al meta-testo filmico. Non è così, visto che The Post è costruito intorno ai due stilemi derivati dall’ebraismo: scrittura e memoria. Dunque si tratta di un testo in continuità con la filmografia precedente del regista americano. Dunque, se proprio vogliamo interpretare politicamente quest’ultima fatica di Spielberg, più che un giudizio morale su Donald Trump, possiamo vederci una domanda sul mondo incomprensibile, illeggibile e non memorizzabile che produce un presidente che sfugge alle categorie del passato.

Il presidente USA Richard Nixon

Dunque l’esigenza di scavare nella memoria, mettendo al centro la tetra figura di Richard Nixon, il presidente “malvagio”. L’indagine porta ad uno shock: dal 1971 tutto è cambiato, il mondo della comunicazione soprattutto. Solo 40 anni fa tutto era comprensibile, stampato su carta, ricostruibile. Impressionante rendersi conto di come la tecnologia della stampa, ancora negli anni ’70, fosse più simile a quella del 1600 che a quella attuale.

Un’immagine delle rotative di stampa tratte dal film

La domanda del testo è: dove stiamo andando? E soprattutto dove sta andando la scrittura e dove la memoria? E la risposta viene, per sottrazione, da un passato chiaro, anche se non necessariamente “buono”. Il film dunque non indaga la questione politico-morale quanto il tema dell’informazione, e dunque, della verità. La scrittura, nella società, non esiste più, come non esiste più la “struttura” e dunque anche la memoria è a rischio.
La questione è dunque: come potremo ricordare?

Meryl Streep

Per questo la protagonista, una grandissima Meryl Streep, recita per sottrazione, tramite magistrali silenzi che rappresentano il bisogno di ricordare, ricordare il padre, la fonte e l’origine della Verità. Non è un caso che la proprietaria del Post si oppone alla logica dei consiglieri più fidati tramite un percorso a ritroso (“dove saremmo se…”).
Scendendo ad un livello più mondano, quello che abbiamo perso è la capacità di interpretare ruoli chiari.


E qui veniamo al potenziale impiego formativo del racconto: se vogliamo rappresentare il funzionamento della prevenzione, il cosiddetto “Risk Management”, vediamo, con chiarezza crescente, emergere ruoli e struttura. Chiara risulta la rappresentazione dei due filamenti del DNA (altro stilema di Spielberg) organizzativo: chi lavora per il risultato, chi lavora per evitare disastri. In Tribunale, a difendere il Post, ci va proprio il Legal Advisor, chi aveva fatto di tutto per prevenire i guai.


In sintesi, caro formatore, il testo di Spielberg è perfetto per rappresentare lo schema organizzativo ideale, ove i ruoli sono definiti. Ricordando un mondo che non c’è più (e che non è mai stato perfetto) abbiamo un modello di ingegneria organizzativa che non è ancora stato sostituito. Sta noi decidere se ispirarci ai tempi chiari, al mitico Washington Post, oppure inventarci qualcosa di nuovo, oppure affidarci ai sistemi informatici, che permettono di controllare tutto “in tempo reale” (ma non il Caos, ovviamente).

Conferenza stampa sui dati CINETEL 2017

Le Associazioni ANEC-AGIS, ANEM, ANICA e la Direzione Generale Cinema del MIBACT hanno tenuto ieri, presso la Sala Cinema della Presidenza Nazionale ANEC, l’annuale conferenza stampa sui dati CINETEL del mercato cinematografico 2017 .

Ascoltando la conferenza di presentazione dei dati cinematografici elaborati da Cinetel nascono due sensazioni: la prima è che le poche e confuse parole che vengono espresse siano quelle di quattro, cinque, sei anni orsono, le stesse identiche.

La seconda è che quella specie di comitato “bulgaro” che sovrintende alla presentazione stia prendendo in giro tutti, e nemmeno con uno sforzo apprezzabile.

Descrive lo scenario devastante del fallimento Borg, vale a dire colui che con la Universal ha guadagnato per conto degli americani le fette di fatturato perse dal nostro paese, e danno una loro interpretazione del momento storico i soliti Occhipinti e Cima, cui si legge in faccia che loro da questa crisi non sono nemmeno sfiorati, visto che quello che conta sono i rapporti televisivi.

da sx a dx Rutelli, Cima e Occhipinti

Rutelli poi non nasconde l’imbarazzo di dover parlare di una materia che non conosce e che probabilmente non gli interessa, e inanella discorsi vuoti di contenuto ma rassicuranti: il cinema è vivo.

La realtà è che il cinema è morente anche grazie al lavoro pessimo di questi signori e ad una legge che non è entrata ancora in vigore e che dubito potrà mettersi in moto tra esperti internazionali di chiara fama, una piattaforma che non funziona e richieste burocratiche da paese borbonico.

Dimettetevi, questa è l’unica implorazione e imprecazione che viene spontanea dopo la conferenza di ieri, nella quale si è parlato per la centesima volta di pirateria, di internet e dell’estate le vere colpevoli secondo loro della crisi.

Ma dire che il prodotto italiano è troppo modesto non è più regolare? Dire che questo cinema di Stato gestito da una sinistra cieca e faziosa ha mostrato i suoi limiti, non sarebbe segno di civiltà? Quanti soldi sono stati gettati dallo Stato, e quindi anche dalla Rai, con i tax credit, le agevolazioni, i contributi, in un buco nero che vale il 17,8% del fatturato nazionale?

Paola Cortellesi e Antonio Albanese alla presentazione del loro ultimo film “Come un gatto in tangenziale”

Quando un film ha un minimo di personalità, la gente va a vederlo: questa è la miserabile considerazione che si evince guardando i dati, e non c’è bisogno di capolavori, basta una commediola non deficiente con Albanese per dimostrare che il pubblico si accontenta di poco!

Ma non si è accontentata del nulla che è stato proposto nel 2017,  e qualcuno, in politica, nel governo, dovrebbe trarre, quanto meno, le conclusioni: il cinema di Stato quello determinato dalla televisione e dal Ministero, quello stabilito discrezionalmente nelle stanze dei potenti, non funziona, il cinema dei privilegi, non funziona. Il cinema è libertà e creatività: servono autori, testi intelligenti, attori credibili, produttori veri.

 

Avv. Michele Lo Foco

Membro Consiglio Superiore del Cinema e dell’Audiovisivo

 

The Square, lo spazio della comunicazione impossibile dove va in scena la miseria umana

Christian (un bravissimo Kristofer Hivju), è il curatore di un museo di Stoccolma. Vive da “svedese tipico”, lavorando nel rarefatto mondo delle improbabili quanto vacue opere d’arte contemporanea, abitando in solitudine in un patinato e ricco appartamento. E’ anche un seduttore seriale, grazie al fascino del frigido intellettuale che tiene le passioni sotto controllo, almeno fino a che subisce un furto in una strada ove ladri attori simulano una violenza. Nella mancata colluttazione gli vengono sottratti portafoglio e cellulare, il cui segnale GPS permette però la localizzazione dei ladri.

Kristofer Hivju

Per recuperare il maltolto, Christian ha la malaugurata idea di imbucare a tutti gli abitanti del palazzo del ladro, una lettera che minaccia ritorsioni qualora la refurtiva non verrà restituita. Ma asservire la comunicazione ai propri scopi materiale è il peccato originale che porterà il caos nella vita e soprattutto nell’identità dello smarrito eroe.

Il regista mentre riceve il premio come miglior film a Cannes

Ruben Östlund si interroga sull’identità umana esplorando il tema della comunicazione; in “Forza maggiore” (2014) si era focalizzato sulle interazioni umane partendo dagli inquietanti meccanismi di una coppia svedese in vacanza con i figli, in “The Square”, tra l’altro vincitore della Palma D’Oro a Cannes, lo spettatore è invitato a riflettere su vari piani. La scena dell’irrompere dell’uomo/gorilla alla cena dell’alta società svedese richiama le rappresentazioni giurassiche di Spielberg e la brutalità di Kubrik. Il messaggio arriva forte alla pancia: ciò che conta, anche nel paese più civile del mondo, sono le forze psichiche profonde: rabbia, vergogna, desiderio, pura, oltre che la ferocia assassina del gruppo.

Sarebbe un errore valutare il testo come una condanna morale della società borghese. Il tema del pregiudizio dei ricchi sui poveri, degli intellettuali sugli ignoranti, degli europei sui migranti spinge gli spettatori a pensare ad un film di condanna della società occidentale, e forse per questo è stato premiato.

Non è per nulla così: il capolavoro di Ruben Östlund sfida i grandi temi della letteratura classica e contemporanea, suggerendo il legame tra l’impossibilità della comunicazione e le costanti dell’identità umana: solitudine, sofferenza, miseria spirituale.

Christian (i nomi non sono casuali) ci prova ad essere caritatevole e non c’è nessun motivo per dubitare della sua buona fede. Il suo dramma deriva dall’incapacità di cogliere i segnali, di comunicare, di esprimere anche i sentimenti più elementari, come l’affetto o le scuse.

Per questo deve percorrere un viaggio costellato di bivi, di scale discendenti, di scelte impossibili, fino all’inferno, il mucchio di immondizia indifferenziata dove si trova il numero salvifico (le citazioni bibliche si sprecano).

Elisabeth Moss

Christian è novello Ulisse, che incontra Sirene (il marketing), Calipso (l’amante calamita), il Titano (l’uomo-gorilla), ripercorrendo il viaggio iniziatico dell’eroe omerico. Si ritroverà alla fine, secondo uno schema perfettamente circolare, al confronto con il peccato originale, che, guarda caso, è stato un errore di comunicazione.

Ruben Östlund fa a pezzi l’illusione informatica, mostrando che Smartphone, Social Network, posta elettronica, spacciati come strumenti per migliorare la comunicazione, la ostacolano, generando guai, fraintendimenti, violenze inutili. Dunque le sbandierate potenzialità di scambio di informazioni offerte dalla contemporaneità sono in realtà la nuova chimera.

Alla fine un impotente Christian deve dimettersi (ma non riesce a fare neppure quello) dal prestigioso incarico proprio per l’incapacità di comunicare e, in ultima istanza, di vivere degnamente, come lui stesso ammette. L’unica risorsa positiva sembra essere, in definitiva, proprio il senso di colpa, che tormenta il protagonista spingendolo ad interrogarsi sulle colpe reali del “Capro espiatorio”, un surreale bambino salvifico che pretende le scuse, l’aiuto, la resurrezione.

Alla fine il tema della colpa e della comunicazione conducono alle domande sull’identità dell’uomo, sulla paternità (il destino del seme), sul significato dell’arte.

La deviazione dal percorso, lo smarrimento dell’identità, l’oscuramento della ragione non sono accidentali, ma normale destino dell’anima umana, che si illude di controllare i Titani, ma ne è in realtà dominata, come ammoniva già un certo Alfred Hitchock (Psycho, 1960), il maestro dell’inquietudine.

Il personaggio Norman Bates in Psycho.

Caro formatore, non credo che “The square” sia un film utilizzabile a scopi didattici, quanto un testo che ci ricorda quanto siano potenti le forze psichiche primordiali; in ogni riunione, per quanto frequentata da persone civili ed incravattate, le paure, la volontà di dominare i più deboli, i pregiudizi, possono irrompere in ogni momento con tutto il loro carico di violenza. Anche quando sei di fronte alla buona società, anche quando sei supportato da tranquillizzanti “slides”, preparati ad affrontare le forze che abbiamo dimenticato fuori, ma che sono pronte a trasformare l’aula in un’arena catartica, dove potresti essere tu a finire in pezzi…

Luigi Rigolio

Norman, maldestro fixer con talento negoziale

Caro formatore, “L’incredibile vita di Norman” ( Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, 2017), sembra un film poco adatto a supportare la formazione, visto che non ci sono eroi né modelli nella storia raccontata da Josef Cedar, il regista newyorkese di origine ebraica già candidato all’oscar per il suo precedente “Footnote” (“Hearat Shulayim” ,2011) . 

Il regista Joseph Cedar

Richard Gere è Norman Oppheneimer, un uomo qualunque, senza alcuna credenziale, che si presenta come “Consulente Strategico”. Nei suoi sforzi di allargare la sua rete, aggancia, dopo un lungo pedinamento, il cavallo giusto, un sottosegretario del governo Israeliano, cui regala un paio di scarpe di lusso. In bilico tra il servilismo e la vera amicizia, riesce a superare le reticenze del politico, che sa di non poter accettare regali costosi. Tra i due nasce un legame che perdurerà anche quando, tra anni dopo, Micha Eshel (Lior Ashkenazi) diventa primo ministro. Tre anni ove Norman si è prodigato per aiutare il potente amico, addirittura riuscendo ad inserirne il figlio all’Università di Harward, nonostante non ne avesse i titoli. Questi risultati vengono ottenuti utilizzando l’aiuto di altre persone, che a loro volta abbisognano di favori. Norman, non potendo fare leva su alcuna reale risorsa, adotta la strategia del Barone di Munchausen, che si sollevava tirandosi la treccia di capelli.

Richard Gere e Lior Ashkenazi in una scena del film

Il film indaga il limite della morale attraverso la miseranda condizione dell’oggi, ove gli umani si caratterizzano per il bisogno di aiuto quanto dalla povertà di risorse.

Ma è proprio in questo contesto che Norman, maldestro faccendiere (fixer) riesce ad ampliare progressivamente la rete e la visibilità, senza dimostrare competenze di alcun tipo, e senza peraltro ottenere alcun beneficio personale. La sua “strategia” funziona fino a ché le sue telefonate vengono intercettate cosicché il Primo ministro finisce sotto indagine. Ma quando tutto sta per andare a rotoli e l’ansia dello spettatore arriva al culmine, Norman, omuncolo privo di statura morale quanto di professionalità, chiude in modo geniale o forse eroico le parentesi che aveva aperto. Anche il Primo Ministro sorprende nel finale, svincolandosi dal trito cliché del politico senza scrupoli. Ne esce un film poco allineato all’etica corrente, quasi una reazione agli isterismi moralistici dei nuovi soggetti politici.

Lior Ashkenazi nella parte di Micha Eshel

Cosa possiamo portare in aula della pellicola di Josef Cedar? Innanzitutto una memorabile rappresentazione didascalica del talento, la risorsa che ogni essere umano possiede. Secondo i Guru che ne hanno definito il funzionamento, il talento è una moneta a due facce, indispensabile in alcuni contesti, controproducente in altri. L’altezza è un dono per un giocatore di pallacanestro, un limite per un giocatore di hockey sul ghiaccio.

Charlotte Gainsburg interpreta nel film un agente del Mossad

Norman è una rappresentazione didattica del professionista dotato di un unico talento, il bisogno di creare relazioni aiutando gli altri. Nel tentativo di aiutare la “pericolosa” Alex Green (Charlotte Gainsburg), agente dei servizi di sicurezza israeliani, che utilizzerà contro di lui le informazioni captate, disegna la propria rete di relazioni su un foglio, ciò che costituirà la prima prova del dossier giudiziario. Il bisogno di aiutare gli altri è uno dei talenti chiave del negoziatore efficace, che è un motore di accordi che fanno muovere le cose. E Norman, per quanto maldestro e non consapevole dell’esistenza di codici normativi (il nome non può essere casuale), è un efficace negoziatore. Nella sua mente, prima di tutto, c’è il bisogno di offrire qualcosa, anche quando non ha nulla.

Luigi Rigolio

 

Miramax e la nuova gestione

La scimitarra dei nuovi proprietari arabi ha tagliato lo scorso mese 20 teste nella società che fu fondata nel 1979 dai fratelli Weinstein. La spending review a cui ha messo mano appena arrivato lo scorso aprile il nuovo CEO Bill Block (omen nomen) ha  fatto altre vittime. Giusto o sbagliato che sia non si può dire che abbia perso tempo o che si sia intimidito dalla lunga tradizione della società. Infatti una prima tranche di 25 impiegati fu licenziata già in maggio ad appena un mese dall’arrivo di Block. Venti duri quindi che quelli che soffiano dal Qatar ove ha sede Al Jazeera che acquistò Lo scorso hanno la società tramite la sua controllata beIN MEdia Group.

Bill Block

Bill Block non è un novellino , anzi è un veterano di Hollywood che ha sempre visto dall’alto l’industria americana. Sempre impegnato in progetti al top che lo hanno visto come produttore, finanziatore e distributore di centinaia di film, molti dei quali eccellenti ed alcuni pure innovativi secondo gli schemi americani come “District 9”, “Blair witch project” e “Buenavista Social Club”. Una professionalità indubbiamente capace di sperimentare oltre che gestire e che se è intervenuta così pesantemente sul personale c’è da supporre fosse veramente necessario e d’altro canto i numeri di troppi anni a questa parte non erano poi eclatanti.

Il display art di District 9

Sarà una deformazione tutta italiana ma l’immagine di 45 persone con gli scatoloni in mano traboccanti dei loro oggetti personali mentre lasciano gli uffici di Los Angeles smuovono la nostra empatia e ci fanno ricordare che i dipendenti, anche se vengono definiti a volte con termini tecnici quali “unità” o “risorse”, sono in fondo persone con tutta l’umanità che ne consegue. Sono fatti della stessa sostanza dei personaggi di cui parlano i film e sono anche i medesimi che i film li vanno a vedere. Non importa quindi che fosse inevitabile o se si tratta solo del trito cliché: “arriva il nuovo capo e si porta dietro il suo staff”, ma almeno la stampa dovrebbe dire le cose come stanno ed annunciare senza pudori che la nuova proprietà araba di Miramax ha licenziato 45 persone. Poi, al prossimo bilancio, vedremo se è stata una buona cosa o solo un atto di becero e sterile ripulisti. Beati i manager dell’industria che possono cambiare chi gli pare, perché nell’esercito invece i generali devono combattere le guerre con i soldati che hanno.