Avengers – Infinity War: l’epica (comica) di un mondo dominato da un titano folle

Le sei gemme dell’infinito, i frammenti cosmici che incarnano le forze elementari dell’esistenza, capaci di conferire l’onnipotenza a chi le possegga, sono state localizzate. Thanos, il titano pazzo, semina morte nella galassia pur di ottenerle, con lo scopo di riequilibrare la vita nell’universo. Solo gli Avengers, con l’aiuto dei Guardiani della galassia, possono fermarlo.

I Guardiani della galassia

Esce in sala il primo capitolo del progetto più ambizioso della storia recente del cinema, che, da una parte, completa una geniale strategia commerciale iniziata dieci anni fa (“Iron Man” di J. Favreau; 2008), e, dall’altra, porta a termine un processo di trasfusione schermica – generato dal contraccolpo psicologico del post 11/9 (“Spiderman” di S. Raimi; 2002) – del concetto di sicurezza (nel mondo contemporaneo) attraverso la figura del supereroe.

Iron Spiderman

Agli studi Marvel sono stati necessari dieci anni, e venti film, per condensare e distillare la propria poetica super eroica. “Avengers – Infinity War” rappresenta l’apice, e il lavoro più compiuto, di un’epopea eroicomica contemporanea, dove epos (la memoria corre a “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re”) e ironia convivono funambolicamente (la battaglia su Titano).
In universo diegetico (quello extraterrestre soprattutto) denso, sfaccettato e visionario – non è forse questa la componente assente in “Interstellar” di C. Nolan? –, il meccanismo narrativo costruito dai fratelli Russo è oleato e scorrevole, nonostante la frammentazione della storia in almeno quattro “campi di battaglia”, che rende alcuni passaggi farraginosi – si vedano, per esempio, le scene ambientate sulla Terra; come se una volta diretto lo sguardo verso le stelle, i destini terrestri fossero divenuti troppo limitati.

Questa fluidità espositiva è resa possibile dalla presenza dei Guardiani della galassia, che gli sceneggiatori C. Markus e S. Mc Feely impiegano come soluzione narrativa agli snodi cruciali (la nuova arma di Thor, la scoperta del cuore di Thanos) di un intreccio assai articolato.
Escludendo alcune forzature (veniali) alle quali un blockbuster non può sottrarsi – si veda la fastidiosa necessità di ricomporre, ad ogni scontro, il gioco delle coppie; come, ad esempio, il confronto tra stregone buono (Doctor Strange) e stregone cattivo (Fauce d’Ebano) –, il film regala momenti di grande cinema. Come l’intenso finale, croce e delizia della pellicola; coinvolgente e teso, ma, inevitabilmente, poco credibile per lo spettatore avvezzo ai superhero movies, che già conoscendo dell’esistenza di un capitolo finale, intuisce come gli incredibili eventi conclusivi siano facilmente reversibili – «Il tempo è un’illusione» scriveva Einstein.

Thanos

E poi c’è Thanos; uno dei migliori personaggi prodotti dalla mente di K. Feige. Oltre il nomen omen (Thanos = morte incarnata), al di là della logica manichea sull’equilibrio cosmico – dove il riferimento al sovrappopolamento mondiale non è poi così velato -, il titano pazzo è il personaggio che meglio esprime la nostra umana fragilità; lui, un Eterno. A differenza dei supereroi che, nascondendosi dietro il loro: “Non lasciamo indietro nessuno”, si concedono il lusso di evitare ogni scelta sofferta, Thanos è costretto a sacrificare ciò a cui più tiene, a fare delle scelte e poi a sostenerne il peso. Ed è tutto là, in quello sguardo conclusivo verso un orizzonte splendente, ma illusorio, ricreato dalla gemma della realtà, dove il dolore si confonde alla soddisfazione, per un titano trasformatosi in dio, ma che conserva ancora il cuore di un uomo.

Alessio Romagnoli

Han Solo a Cannes

Non è la prima volta che un film della saga di guerre stellari è presentato al festival di Cannes, nel 202 toccò a “Star Wars – Episode II – Attack of the Clones” e nel 205 fu la volta di  “Star Wars: Revenge of the Sith”. 

Alla 71^ edizione sarà proiettato fuori concorso “SOLO : A Star Wars Story” diretto da Ron Howard e sceneggiato da Lawrence e Jonathan Kasdan. Ci saranno oltre ovviamente a Solo, interpretato da Alden Ehrenreich, e Chewbecca anche Lando Calrissian, il Millenmium Falcon e i droidi in un cast che come la saga è veramente stellare ed annovera Woody Harrelson (No Country For Old Men , 2007), Emilia Clarke (Terminator Genisys , 2015), Donald Glover (The Martian , 2015), Thandie Newton(Jefferson in Paris, 1995), Phoebe Waller-Bridge (The Iron Lady , 2011), Joonas Suotamo (Star Wars VIII: The Last Jedi , 2017) and Paul Bettany (Dogville , 2003).

Ron Howard

La scelta conferma se ma i ce ne fosse bisogno che il festival di Cannes non ha falsi pudori e negli anni ha ospitato accanto ai più raffinati autori, anche film di cassetta (citiamo ad esempio il “Robin Hood” del 2010 di Ridley Scott, quello con Russel Crowe) e perfino film scomodi in patria come fu “Apocalypse Now”  di Francis Ford Coppola sino ad includere addirittura in concorso le produzioni di Netflix come “Okja“.

Insomma il festival di Cannes è veramente la festa del cinema, quella che non riesce ad essere quella di Roma, ed anche quest’anno il Festival si preannuncia con l’iniziale maiuscola.

 

 

 

 

Blade Runner 2049

L’uscita del sequel di “Blade Runner” è avvenuta tra i timori alimentati dallo scempio dei prequel di Alien e per nulla placati dai teaser che giravano in rete. Fortunatamente già dai primi fotogrammi, prima dei titoli di testa, s’intuisce un altro passo di questa produzione che distende lo spettatore e predispone ad una visione che consigliamo, se possibile, in una sala Dolby Atmos.

Hampton (a sinistra) e Green (a destra)

Hampton Fencher , che fu lo sceneggiatore del Blade Runner storico, e Michael Green, che oscilla tra ottime cose come “Logan-The Wolverine” ed altre meno riuscite come “Alien Covenant“, hanno fatto un gran lavoro ed, eccettuate un paio di forzature nella trama, il film fila senza intoppi conservando quell’atmosfera “noir” della pellicola degli anni ottanta.

Denis Villeneuve (a sinistra) e Roger Deakins

Per nulla intimidito da un cast di autentiche star, Denis Villeneuve ha diretto il film con la sua caratteristica impronta che abbiamo già avuto modo di apprezzare in “The Arrival“, ma senza che questa tracimi nel meccanismo narrativo a tutto beneficio dell’effetto finale. La fotografia è di un autentico maestro come Roger Deakins (“Le Ali Della Libertà” “Non è un paese per vecchi“) che rende ogni fotogramma un’opera a sé che si potrebbe incorniciare. C’è poi una grande attenzione per l’aspetto acusamtico con una sonorizzazione precisa e suggestiva che si avvale di un veterano come Hans Zimmer (“Interstellar“) ed il giovane Benjamin Wallfisch, reduce dalla collaborazione con Christopher Nolan per “Dunkirk” ( e non è un caso evidentemente).

Ana De Armas

Della trama nulla si può desumere dai trailer e nulla è ciò che sembra, anche quando nella visione del film sembra di anticipare alcune verità  non c’è invece nulla di banale e scontato. Tutto il cast è perfetto nel proprio ruolo e non c’è spazio per gigionerie inopportune. Anche la cubana Ana De Armas si rivela una scelta fortunata in un film in cui i ruoli femminili hanno una spiccata centralità accanto a Robin Wright ed all’olandese Sylvia Hoeks che abbiamo visto in  “La migliore offerta” di Tornatore.

Jared Leto nella parte di Wallace

Se il tema del primo Blade Runner era il senso e l’origine della vita, in questo seguito il focus è sulla relazione e sul concetto di persona. Raro e pregevole caso in cui si assiste ad un alzo del tiro. L’occhio vede ma è il cuore che percepisce, per cui si può desiderare ciò che si vede ma non si può entrare in una vera relazione senza una percezione cinestesica. Una cosa per essere reale deve essere toccata? Questo è un quesito che sarebbe piaciuto a Philip K. Dick e che nel film trova una delle risposte possibili. Un topos che invece  lega questo film di Villeneuve a quello di Ridley Scott è la creazione della vita. A Tyrell,il creatore dei replicanti, è succeduto Wallace, interpretato da Jared Leto, che non a caso è cieco e prima ancora di vedere le persone, grazie ad evolutissimi interfaccia cybernetici, deve o meglio vuole toccare con le mani per percepire. E’ chiaro il riferimento alla figura dell’orologiaio cieco, assunto a simbolo dei creazionisti che negano che l’evoluzione possa produrre  per caso qualcosa di così sofisticato come l’occhio umano. Wallace vive a bordo di una piscina sotterranea, in una sala buia, in un ambiente che ricorda un utero, con l’acqua a significare il liquido amniotico. E’ lì che crea replicanti ubbidienti, con  i quali non ha però empatia e né pietà.

Ryan Gosling ed Harrison Ford

Efficaci le ambientazioni che si giovano di effetti impensabili 30 anni fa eppure usati con gusto e misura il tutto a rendere l’idea di una Los Angeles sterminata e con poco senso. Un inferno sovraffollato di persone che non hanno scelta se non sopravvivere o smettere di farlo. I replicanti fanno i lavori che gli uomini non vogliono più fare e questo ci ricorda tristemente una situazione vicina ai nostri tempi in cui negare l’umanità a certi individui assolve dal senso di colpa di non trattarli come tali. Mentre il navigatore dell’auto o il nostro telefono si rivolge a noi con una voce calda e cordiale noi ignoriamo chi ci sta a fianco, uomo o forse ormai già replicante che sia.  Uno scenario (non necessariamente quello del film) scevro d’amore dove bisogna sgomitare per un pasto ed in cui il concetto di umanità trascende lo status legale di replicante, di umano o… altro.

 

 

Valerian e la città dei mille mondi

titanica produzione di Europa di Luc Besson e sostenuta dagli investimenti cinesi di  Fundamental Film che ha apportato ben 50 milioni di dollari degli oltre 200 milioni di cui si compone l’intero progetto. Il budget è ciclopico e nessuno se lo è rubato con il risultato che i soldi sono tutti lì nel film, ricco di effetti, scenografie ed un orgia di creature aliene la cui varietà non è mai stata raggiunta neppure da George Lucas. Fallita Relativity Media il film è uscito negli Stati Uniti con STX Entertainment, una giovane società che un film così grosso non l’aveva mai distribuito. In Italia la distribuzione è di Leone Film Group di Andrea Leone, un imprenditore che grazie all’incolpevole circostanza di essere nato dopo il proprio padre può aggiungere ai propri talenti dei capitali sufficienti per maneggiare un colossal del genere.

Dane De Haan e Cara Delevingne nei panni di Valerian e Laureline

La storia è tratta da una serie di fumetti conosciuta come Valérian e Laureline agenti spazio-temporali creati negli anni sessanta dallo scrittore Pierre Christin ed il disegnatore Jean-Claude Mézières. I fumetti avevano la caratteristica di trattare temi sociali ed ecologici che si ritrovano nella narrazione di Besson che ha scritto e diretto il film. La notorietà dei personaggi è troppo limitata alla Francia per incontrare un gusto internazionale e forse anche per questo i risultati al botteghino non sono entusiasmanti. per il pubblico italiano ma anche americano il nome Valerian non dice poi molto e non è quindi spendibile con la stessa efficacia di Spiderman. Il plot poi non restituisce quel senso di avventure per adulti che hanno i 21 volumi della serie a fumetti,  ma si definisce come un film fantastico per bambini. In questo genere Besson eccelle ed impone una sospensione del giudizio sulle ingenuità della trama e la leggerezza dei personaggi principali, per concentrarsi sulle magnifiche ambientazioni ed il susseguirsi di azione farcita da effetti visivi abbondanti e ben fatti.

Il trasmutatore

In un pianeta lontano chiamato Mul, bagnato da oceani dove si affacciano spiagge bianchissime,  una razza aliena vive in comunione con la natura grazie ad un animaletto, chiamato trasmutatore, che moltiplica all’infinito tutto ciò che mangia. Una routine idilliaca che viene interrotta da una catastrofe che distrugge tutto quanto con l’eccezione di pochi superstiti ed un unico animaletto custodito dalla federazione dei mille mondi. I due agenti spaio temporali dovranno dipanare un mistero che minaccia la democrazia della federazione, proteggere il prezioso animaletto e restituire un futuro alla razza pacifica ma quasi estinta.

Nel futuro i gradi dell’esercito si sono un po’ incartati e mentre Valerian è maggiore con due stellette sul bavero, Laurelin che è solo sergente ne ha soltanto una, ma ciò non le impedisce di togliere la scena a Dane De Haan che ben contento di essere promosso da goblin a protagonista si è visto sorpassare dall’elfica modella che in “Suicide Squad” , non potendo rivaleggiare con la Margot Robbins né nelle forme esteriori così come neppure nello spessore attoriale, era finita un po’ in fondo ai titoli di coda. Ma non è colpa di De Haan e neppure merito di Cara Delevingne , sempre rigida ed algida come una mannequin (forse un po’ aliena con quelle sopracciglia da Tiberio Murgia), quanto della sceneggiatura di Besson, che ha sempre avuto il debole per figure femminili forti sin dai tempi de “Il quinto elemento”. Non è un caso che un o dei personaggi più riusciti del film sia infatti quello di un mutaforma di nome Bubble, interpretato da Rihanna,  che tra un numero di burlesque e tentativi di seduzione, ci fa affezionare e ci ricorda che le cantanti sanno anche prodursi in oneste prove di recitazione.

Rihanna

Qualche soldo del budget si poteva risparmiare dall’ingaggio di Clive Owen che per il ruolo assegnato, il super gallonato comandante della federazione, appare sovradimensionato e francamente anche un po’ fuori luogo, ma si sa che il cartellone e le vendite hanno le loro esigenze. C’è cosi poca fantascienza hard core che quanto di buono c’è in questo film ne incoraggia di certo la visione, ma per gli appassionati è giusto precisare che si tratta solo un gap filler in attesa di “Blade Runner 2046″.

 

Apertura “ridotta” per Venezia 2017

La 74^ Mostra d’Arte cinematografica di Venezia apre con l’ultimo film di Alexander Payne dal titolo “Downsizing“. In un mondo sempre più sovrappopolato dove le risorse sono limitate, la soluzione sembra essere quella della miniaturizzazione dell’umanità. Un’equipe di scienziati norvegesi (interessante de localizzazione rispetto ai cliché americani) scopre il modo di rimpicciolire gli esseri umani sino a ridurli ad un’altezza di poco più di 15 centimetri così che possano vivere in cittadine che misurano appena 11 metri per 7 e la cui spazzatura prodotto in un anno può essere comodamente contenuta in un ordinario sacchetto per la spesa. Purtroppo il processo non è reversibile ma come incentivo a chi si offre volontario per la miniaturizzazione è offerta una vita da nababbi.

Il regista Alexander Payne

Il film è in tono di commedia e segue uno dei classici stilemi della fantascienza che prevede di speculare su di un assunto fantastico. In questo caso il risultato è una satira sociale divertente ma anche puntale nell’indagine del delirante mondo del consumismo, dove un’umanità irresponsabilmente vanesia e gaudente corre a tutta velocità incontro al disastro.

Uni’mmagine tratta dal film

Il film è prodotto e distribuito da Paramount che coniuga così le esigenze di botteghino con il film di qualità. Alla base della formula c’è un regista, che in questo film è anche produttore, il quale ha già dato diverse prove d’autore con film ben congeniati e profittevoli come il 25 volte premiato “A proposito di Smith” del 2002 con un grande Jack Nicholson, “Sideways – In viaggio con Jack” e “Paradiso Amaro” per entrambi i quali vinse l’oscar come miglior sceneggiatura non originale e l’ultimo “Nebraska” che ha avuto ben 6 candidature agli Oscar (pur non vincendone alcuna). Ad arricchire poi il cartellone in modo di attirare anche il pubblico mainstream c’è un cast con nomi molto noti composto tra gli altri da Matt Damon, Christoph Waltz, Laura Dern e Udo Kier.

Matt Damon in una scena di “Downsizing”

Sicuramente il film ha la capacità di intrattenere chi vuole semplicemente svagarsi e si attende una sorta di “Mamma mi si sono ristretti gli adulti”, ma si presta allo stesso tempo ad una visione in chiave più metaforica, aspetto che analizzando la carriera di Payne non è certo secondario. Dopo “Gravity” la Mostra di Venezia continua quindi a non dimostrare alcuna inibizione nei riguardi della fantascienza e nessuna difficoltà a far spazio alle major, alle quali però, a dire il vero, lo spazio proprio non gli manca. Speriamo quindi che a risultare “rimpiccioliti” non siano alla fine le produzioni di qualità ma di industrie minori.

Il Blade Runner che verrà

Il 2017 era il futuro immaginato da Ridley Scott nel suo capolavoro del 1982 e puntuale come la morte il 2017 è arrivato. Non abbiamo colonizzato altri pianeti e non ci serviamo di androidi per svolgere i lavori più degradanti o pericolosi che, i primi più dei secondi, continuano ad essere svolti dal genere umano. Eppure il tema della vita e della morte rimane sovrano sin dai tempi di Prometeo.

A dire il vero nel romanzo di Philip K. Dick da cui fu tratto Blade Runner il tema principale non è tanto la vita o la morte, bensì l’ontologica composizione del tessuto di ciò che è reale ed a corollario il senso ultimo dell’uomo. In sintesi a Dick interessa indagare sul concetto di verità, intesa come quella qualità che definisce ciò che è reale e ciò che non lo è. Nelle sue opere, si prenda Ubik ad esempio, non è tanto importante che una cosa esista in sé ma è sufficiente che essa sia percepita per poter definirsi reale. Se un sogno è percepito come reale, ebbene allora esso diviene la realtà per chi lo sogna e se un androide ha la capacità di sognare evidentemente ciò lo rende di fatto umano ed indistinguibile da noi. Non a caso il titolo originale de “Il cacciatore di androidi” (sfortunata traduzione italiana del titolo che descrive solo l’aspetto superficiale e per nulla affascinante del romanzo) è “Do Androids Dream of Electric Sheep?” ( e rendiamo merito alla Fanucci per aver restituito all’opera nella sua edizione del libro il titolo più consono di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?“). L’interrogativo del titolo suggerisce già la risposta che Dick ha in serbo: se un soggetto è capace di percepire e di sognare, ebbene questa qualità lo rende umano, indipendentemente dalla sua genesi.

Il libro edito da Fanucci

In questo senso Dick non è certo un neo realista, anzi è molto vicino al radicalismo di Nietzsche quando dice “non ci sono fatti solo interpretazioni”, o di Kant per cui al centro della creazione vi è l’uomo che fabbrica mondi attraverso i concetti. E questo è forse l’unico aspetto che Ridley Scott mutua dall’opera di Dick ed emerge nel monologo finale dell’androide Roy (Rutger Hauer) che richiama con inquietante esattezza un brano de “Verità  e menzogna in senso extramorale” di Nietzsche.

“In un angolo remoto dell’universo scintillante, diffuso in innumerevoli sistemi solari, c’era una volta un astro sul quale animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della «storia universale»; ma fu solo un minuto. Dopo pochi respiri della natura l’astro si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola del genere, ma non riuscirebbe mai a illustrare adeguatamente quanto lamentevole, quanto vago e fugace, quanto inane e capriccioso appaia nella natura l’intelletto umano. Ci furono eternità in cui esso non c’era, e quando di nuovo non ci sarà più non sarà successo niente.”

Ruger Hauer nell’ultima scena di Blade Runner (1982)

Perfino l’immagine suggerita dal passo “… e l’astro si irrigidì” ricorda lo spegnersi dell’androide dopo aver pronunciato quelle ultime parole che sono tra le più famose del cinema e non solo : “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, com lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire.”

Per il resto però la trasposizione cinematografica si concentra esclusivamente su questo tema di vita e morte, facendone un qualcosa che è altro rispetto al pensiero ed all’opera di Dick. Poco male poiché è diritto del cinema trarre spunti e tradirli e sottrarsi così allo sterile confronto tra libro e film. E’ comunque interessante come busillis ed è meritorio il modo con cui viene dipanato da Scott, che nello svolgimento della trama rivolge il suo tributo al “Novello Prometeo” di Mary Shilley , al secolo “Frankenstein“. Ogni creatura, comunque sia venuta al mondo, ha in comune con tutti gli esseri senzienti la paura della morte ed è questa la caratteristica che per Scott definisce il concetto di umanità più della capacità di astrarre e percepire. E’ con questo enunciato che il regista  apre il film, ossia per bocca del replicante Leon che dice a Decker (Harrison Ford) : “Brutto vivere nel terrore vero?Niente è peggio di avere una vita che non è una vita.”

L’attore Brion James bell part del replicante Leon Kowalski

Nel proseguo del film si capirà invece che è proprio la consapevolezza della morte a dare alla vita un valore così prezioso. I replicanti fungono quindi da iperbole dell’esistenza umana. Sono creature progettate per vivere solo quattro anni per cui l’anello di vita e la sensazione del tempo che fugge è estremizzata, ma anche l’uomo non è immortale e a differenza di Roy non ci è dato di parlare con il nostro creatore e tanto meno stritolargli la testa con le nostre mani in caso le risposte non dovessero soddisfarci. Tutti noi quindi, come i replicanti, “corriamo sul filo” tra la vita e la morte.

Era un film quasi perfetto se non fosse per la voce fuori campo che recita un mantra consolatorio a beneficio del lieto fine che è imposto dalle necessità di botteghino, il vero monarca della cinematografia americana, un peccato a cui nel 1992 Ridley Scott farà ammenda cassandolo nella director’s cut facendo così raggiungere alla sua opera  una perfezione postuma.

Il regista Denis Villeneuve sul set di Sicario

Il timore di questi giorni, da che è apparso il teaser con alcune scene del sequel, è che un così azzeccato equilibrio possa spezzarsi con un estensione non necessaria che potrebbe risultare posticcia come un parrucchino. A calmare parzialmente i timori è la regia di Denis Villeneuve che ha già dimostrato di essere, oltre che bravo, assolutamente non banale (si veda ad esempio “The Arrival” 2016). Pure il cast è solido e confortante e vede in prima linea grandi professionisti come Ryan Gosling, Robin Wright, Jared Leto e lo stesso Harrison Ford. Eppure  un dubbio aleggia nelle menti di conoscono ed amano Blade Runner ed è: cosa altro si può aggiungere?  Non è certo la curiosità di come va a finire la storia d’amore tra Decker e la bella androide senza scadenza Rachael, oppure cosa comporta la evoluzione estrema dei modelli Nexus, termine che non a caso significa connessione, legame. Ma soprattutto è preoccupante la presenza di un supercattivo che verrà interpretato da Jared Leto . La sublime originalità di Blade Runner era scoprire poi che non c’è nessun cattivo. Non era cattivo Tyrrell, il creatore che amava i suoi replicanti, non era cattivo Decker che era anzi pieno di empatia, non era cattivo Roy che  negli ultimi istanti ha amato la vita in assoluto,  non era cattivo nemmeno il poliziotto Gaff (quello degli origami) che risparmiò Rachael. I supercattivi nel cinema servono ad assolvere l’umanità dai suoi peccati, convogliando su di un’unica pecora nera la responsabilità delle peggiori azioni. C’era bisogno  di ridurre il capolavoro di Scott ad un cliché ? Ma soprattutto, questa pecora nera, sarà almeno elettrica?

ALIEN COVENANT

Già dai tempi di Stanley Kubrick con il suo “2001 Odiessea nello spazio” si sospettava che intelligenza artificiale, viaggi interstellari e criogenia non andassero d’accordo. E’ un concetto ribadito più volte nella fantascienza sin dal primo “Alien” del 1979 e fino al recente “Passengers” di Morten Tyldum. Di astronavi in orbita impossibilitate di comunicare con la squadra a terra a causa di mille disgrazie ed avarie, mentre i poveretti laggiù sono in gravi ambasce e con i minuti contati, ne abbiamo visti a iosa, tanto che sarebbe noioso elencarli, ma quello di cui veramente non se ne può più è la scampagnata nel bosco dove un orribile pericolo fa fuori tutti i partecipanti uno ad uno.

david alien

Una volta tarato sullo zero pressoché assoluto lo strumento che misura la credibilità di un film sul precedente “Prometheus“, questo ultimo lavoro di Ridely Scott segna comunque un movimento verso l’alto e lo si deve ad una circolarità nella trama della intera saga, che chiude un anello anticipato, se non proprio iniziato, nello storico “Alien” e che riguarda il rapporto tra creato, creatura e creatore. Non sveliamo nulla poiché è già tutto chiaro nella sequenza iniziale, un flashback dove l’androide David (Michael Fassbender), già presene in “Prometheus“, dialoga con il suo ideatore Michael Wayland (Guy Pearce) prima che tutto abbia inizio. In questo dialogo c’è la chiave del film e di tutta la saga. Vi si riscontrano elementi archetipici del tema di Prometeo, per l’appunto, ma anche di Zeus e Cronos. La peritura sostanza del potere ben riassunta nel poema di ShelleyOzymandyas” contrapposta alla hybris di chi si paragona ad un dio, arrogandosi il più grande degli attributi: quello della creazione. Non è quindi per caso che appena “attivato”, l’androide David, dopo una rapida e profonda riflessione, accenna al pianoforte “L’entrata degli dei nel Walhalla” dal “Rehingold” di Wagner.  Si tratta proprio del “Crepuscolo degli dei”, che anticipa il vero e proprio Götterdämmerung che si sta per compiere. Ma le note della celebre sinfonia eseguite al pianoforte mancano di spessore senza l’impatto dell’orchestra e ne risulta quindi solo una pallida imitazione, come altrettanto mancante si rivelerà l’opera dell’androide. Nel rapporto tra l’androide e Wayland si manifestano subito le incongruenze di status ed è qui apprezzato dai cultori della fantascienza il chiaro riferimento ad Isaac Asimov ed alle sue tre leggi della robotica.

DAvid occhio

Per anni i creazionisti hanno sostenuto che un organo così sofisticato come l’occhio umano non poteva essersi sviluppato per caso, ma necessitava invece dell’opera di un creatore (si veda invece a confutazione il libro “Alla conquista del monte improbabile” di Richard Dawkins) ed in tal prospettiva va interpretato il primo fotogramma del film che ritrae l’occhio di David dal quale la prima cosa che vede è la luce in una metafora neanche troppo sofisticata. Lo stesso nome dell’androide è un nome biblico di colui che sfidò il gigante Golia e che divenne re.  Il riferimento al dio creatore è rafforzato dal titolo stesso “Covenant“, che è il nome della nave spaziale e che in campo biblico esprime il concetto di “patto con dio” ed infatti è funzionale a sottolineare questa implicazione che a capo della spedizione si ritrovi un uomo di fede, contrapposto al “sintetico” Walter che si occupa ed affianca l’equipaggio umano nella missione non per amore ma per dovere. L’origine della vita ed il suo scopo sono in definitiva il lodevole e sempre interessante tema centrale del film, che purtroppo aleggia per aria senza essere mai veramente approfondito.

alien covenant

Oneste le scenografie, anche se ci si sarebbe aspettato qualcosa di più soprattutto relativamente all’astronave ed i suoi ambienti. La prima sembra riciclata dalla serie televisiva degli anni 70 “Spazio 1999″ ed i secondi peccano di un guizzo originale. Mentre è di sicuro impatto, anche se forse un po’ gigionesca, la città aliena. Al netto dei cliché del genere, che vengono religiosamente ripercorsi senza alcuna esclusione (c’è pure il malato che interrogato sulla sua salute asserisce eroicamente di stare bene),  si assiste ad una recitazione decorosa e professionale anche se minata da una sceneggiatura che fa acqua come un colabrodo. Il cast è così politically correct da includere non solo una copia omosessuale, ma anche una copia interraziale, con tanto di scena di sesso in doccia inclusa, per buona pace di chi già incominciava a sentire la mancanza di Charlize Theron.

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Alla fine della proiezione rimane il grattacapo di capire come farà Scott nel terzo episodio a ricollegarsi con il film del 1979. Ad essere ottimisti si tratterà di un colpo da maestro con cui si riscatteranno i primi due brutti tentativi di questa trilogia e si spiegheranno molte incongruenze e curiosità (incluso il cameo di James Franco all’inizio del film), ciò a patto però che si rivedano una buona volta le procedure di atterraggio ed esplorazione di pianeti alieni a vantaggio della credibilità della pellicola. Altrimenti il passo del poema di Shelley «Sono Ozymandyas, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese», rischia di essere un compito veramente poco sfidante. Intanto proliferano su you tube le speculazioni su che fine a fatto il personaggio di Elisabeth Shaw, sul perché David abbia ucciso l’ingegnere alieno e perché mai le astronavi debbano avere quell’irritante voce calma e rassicurante anche quando tutto va a rotoli.

alien xeno

Di base ci sentiamo di raccomandare quanto detto in occasione della recensione di “Life”.  Se sbarcaste su di un pianeta ad anni luce dalla terra da cui trasmettono “Take me home country road” di John Denver e, come se ciò non bastasse a mettervi sul chi vive, trovaste qualcosa di strano per terra, in una caverna o in un antica necropoli, qualunque cosa sia: è meglio non toccare.

I guardiani della galassia – vol 2

E’ sempre James Gunn a scrivere e dirigere il secondo capitolo della squadra galattica della Marvel ormai passata alla Walt Disney. La banda di scatenati ed improbabili eroi capitanati da Peter Quill (Chris Pratt) salverà questa volta l’intero universo e nel farlo urterà ben più di qualche suscettibilità arricchendo la lista di nemici potentissimi. Ci sono grandi e sorprendenti rivelazioni parentali come è d’uso in una saga spaziale e combattimenti ed inseguimenti mozzafiato, il tutto condito con raffiche di battute e gustose citazioni per i più nerds. Ci si ritrova il gusto degli episodi della serie storica di Star Trek ed a tratti si ravvisa anche accenni al celeberrimo “The Blob” (quello del 1958).

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Per il resto la trama è così stringata che non accenniamo nulla per non togliervi quel minimo di sorpresa, ma d’altro canto non è certo l’intreccio narrativo la ragione per andare a vedere questo film, caso mai è un’alternativa ad un giro sull’ottovolante quando il tempo è piovoso. Anzi, il tentativo di costruire un certo intreccio va oltre le capacità di scrittura di Gunn che, dopo un inizio scoppiettante, si impantana per una quindicina di minuti in un ritmo un po’ lento, ma niente paura: il tutto riparte poi alla grande per un finale con , letteralmente, i fuochi d’artificio. E’ giusto anticipare almeno, come del resto si evince già durante i titoli di testa, che Groot, l’uomo pianta a cui Vin Diesel ha dato la propria voce, ha un ruolo veramente centrale.

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I titoli di testa e di coda ormai sono assurti a vera arte e sono inglobati nel film in modo così funzionale e divertente che veramente consigliamo di stare seduti in sala fino a che non vi cacciano per fare le pulizie. Marchio di fabbrica di questo franchisee è l’uso della colonna sonora composta di brani anni 80 ( “Awesome Mixtape #2” è il nome della compilation con le musiche del film) che passano disinvoltamente dal piano diegetico a quello extra diegetico senza falsi pudori. La qual cosa crea un effetto spesso così dissonante tra commento sonoro ed immagini che risulta più esilarante delle battute, non sempre felici, che costellano il film.

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Ogni attore, mascherato o meno, fa il suo eccellente lavoro in ruolo e ci piace citare, oltre ai soliti noti, un magnifico Michael Rooker, usualmente un cattivo professionista, nella parte di Yondu e la bravissima Karen Gillan, nella parte di Nebula, la sorella “cattiva” di Gamora (Zoe Saldana). Sempre bellissima anche tutta pittata d’oro è Elizabeth Debicki che ricorderete in più umane spoglie in “Macbeth“, “Everest” e “Il grande Gatsby” e che qui interpreta Ayesha, la grande sacerdotessa dei Sovereign.

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Per sopramercato troviamo infine persino Sylvester Stallone che più invecchia e più migliora con un piacevole senso dell’umorismo.

The Circle

In un futuro che è ormai presente una internet company è divenuta potentissima grazie ad un’intuizione del giovane genio che ha fondato la società: un unico account per accedere ad ogni funzionalità di internet. Se la mente corre a Face Book è una cosa vostra perché io non l’ho detto. La sua sede assomiglia ad un campus universitario, razionale ed all’avanguardia non solo nella tecnologia, ma anche nel welfare a beneficio dei dipendenti e consumatori. Le sue attività si ramificano sempre più rapidamente ed efficacemente lanciando prodotti che entrano prepotentemente nella vita delle persone cambiandone potenzialità ed abitudini. La giovane entusiasta Mae Holland (Emma Watson) viene assunta grazie alla raccomandazione dell’amica Annie (Karen Gillan) che è già un pezzo grosso della company e subito si mette in mostra per il suo zelo. I colleghi sono simpatici, la vita in azienda è piacevole e coinvolgente e tra i benefit vi è pure un’assicurazione sanitaria che permette a Mae di assistere il padre (interpretato da Bill Paxton nella sua ultima parte prima della sua recente scomparsa) ammalato di Parkinson. Eppure qualcosa non quadra e tutto appare sempre più avvolgente e soffocante, come se la società volesse invadere sempre di più la sfera privata ed intima di ciascuno. Sono forse i due manager che hanno affiancato il fondatore e che mossi da filantropia o forse da ambizione sfrenata stanno varcando il confine tra ciò che è utile e ciò che è lecito? Come si suol dire (e non a caso): il cerchio si stringe.

tom hanks
Tom Hanks ha preso all’ingrosso i diritti di trasposizione cinematografica da Dave Eggers autore dei best sellersThe Cirlce” e  “L’ologramma del re” (attualmente in lavorazione e sempre prodotto da Hanks) e fin qui tutto bene, poiché Eggers è un autore visionario ma calibrato che sa rendere plausibili i suoi scenari. Peccato però che il senso del libro ne viene completamente stravolto, compreso il finale reso in senso diametralmente opposto al messaggio del libro. Nel romanzo c’era pure un personaggio misterioso la cui identità invece nel film viene sciorinata a pochi minuti dai titoli di testa. Siccome alla sceneggiatura ha collaborato lo stesso Eggers non si può dire che gliela hanno fatta sotto il naso. Segno che i soldi non solo fanno ballare l’orso ma fanno fare agli autori delle virate di 180° rispetto ai loro libri. Non tutti ovviamente e va reso merito tanto ai Cormack Mc Carthy, quanto alle Rowling che hanno ceduto sì i diritti di trasposizione delle loro opere ma imponendone un certo rispetto.

L'autore del libro Dave Eggers
L’autore del libro Dave Eggers

Il riferimento alla creatrice di Harry Potter non è casuale visto che la protagonista era la Hermione della interminabile saga e che fuori da quel ruolo stenta a trovare un talento recitativo. A parte il fatto che Mae Holland dovrebbe essere una ragazzotta del ovest americano cresciuta a furia di hamburger e patatine e la fisionomia cosi British della Watson ci azzecca veramente poco, le doti attoriali della fu compagna di scuola del celebre maghetto risultano veramente insufficienti per una parte da protagonista. La cosa risulta ancor più evidente al cospetto di una Karen Gillan che ride, piange, strepita, si entusiasma, si dimena e si abbatte dando una lezione di recitazione che eclissa la Watson e fa rimpiangere di non poterla vederla in un numero maggiore di film.

Karen Gillan in un'ìmmagine del film
Karen Gillan in un’ìmmagine del film

La Adler , distributrice in italia insieme a Goodfilm, ha fatto una scelta al risparmio e non ha fatto doppiare Tom Hank dalla sua abituale voce italiana, il grande ed ormai caratterizzante Roberto Chevalier, per cui l’effetto è strano ed è come se la vostra cara zia vi parlasse con la voce di Milly Carlucci.

Roberto Chevalier
Roberto Chevalier

Il regista georgiano (quella statunitense di Georgia non quella caucasica) James Ponsoldt aveva sino ad ora all’attivo tre film minori ed una manciata di episodi TV, la qual cosa non stupisce considerando l’esito deludente della regia di The Circle. Il vantaggio di un film rispetto ad un libro è la possibilità di usare differenti modalità espressive quali la fotografia, il montaggio delle immagini, la scelta delle inquadrature oltre ovviamente alla musica. Ponsoldt invece non fa che ribattere pedissequamente il libro sottoponendoci a molteplici noiosissimi monologhi ed a conversazioni esplicative, rinunciando ad ogni espediente evocativo o quantomeno simbolico. I personaggi risultano così solo abbozzati, le situazioni poco incisive e la trama in genere è toccata così superficialmente da far sfuggire il senso dell’agire dei protagonisti. Una regia scolastica e didascalica per un soggetto che avrebbe meritato se non proprio la maestria di un Terrence Malick almeno la sensibilità di Tim Sutton (l’autore di Dark Night).

FILE - In this Sept. 12, 2012 file photo, James Ponsoldt, writer/director of the film "Smashed," poses at the premiere of the film at the 2012 Toronto Film Festival, in Toronto. The family of David Foster Wallace is objecting to the upcoming film “The End of the Tour,” directed by Ponsoldt, which is based on David Lipsky’s 2010 book that recounts his accompanying Wallace on a book tour. In a news release issued Monday, April 21, 2014, Wallace’s estate says it has no connection to the film and doesn’t endorse it. (Photo by Chris Pizzello/Invision/AP, file)
Il regista James Ponsoldt

In sintesi: la storia non è quella del libro, il cast è sbagliato (almeno nella sua protagonista principale), la regia insufficiente e la distribuzione italiana così sparagnina da negarci pure la voce di Tom Hanks. Alla fine ci tocca trovare del positivo nel fatto che in Italia i film in sala durano come un gatto in tangenziale, così possiamo sperare in qualcosa di meglio.

LIFE – Non oltrepassare i limite

Una squadra di scienziati a bordo della stazione spaziale internazionale ha il compito di recuperare la sonda di ritorno da Marte con il suo carico di campioni raccolti sul suolo del pianeta rosso. La scoperta sensazionale di una forma di vita pluricellulare si trasforma ben presto in un incubo. Come è intuibile c’è poco altro da dire ed anche quel poco che è stato detto non può che spoilerare l’esile trama di cui è fatto il film.

Photo by IBL/REX/Shutterstock Daniel Espinosa 'Child 44' film premiere, Stockholm, Sweden - 27 Apr 2015
Photo by IBL/REX/Shutterstock
Daniel Espinosa
‘Child 44’ film premiere, Stockholm, Sweden – 27 Apr 2015

Anche se il pay off lo dice chiaramente il limite è stato oltrepassato. Nonostante Daniel Espinosa sia il regista del buon “Child ’44” del 2015 (non inganni il nome ispanico: è nato a Stoccolma quarant’anni fa) e il cast non abbia nulla da farsi rimproverare (c’è persino Hiroyuki Sanada il giapponese d’ordinanza di ogni TV serie che si rispetti da “Lost” a “The Last Ship“) la sceneggiatura era evidentemente troppo “marziana” per essere salvata. In questo modo il limite dell’attenzione dello spettatore viene irrimediabilmente oltrepassato. C’è lo scienziato di colore (Aryon Bakare) che come il tale con la tutina rossa di Star Trek già sa che non vedrà i titoli di coda, c’è l’ufficiale medico riflessivo ed empatico (Jake Gyllenhaal), c’è la comandante di missione in gamba ed efficace ( tale Olga Dihovichnaya russa nel film come nella realtà che è veramente brava ed efficace come il suo personaggio e che sarebbe bello rivedere in altre pellicole), c’è l’ufficiale di quarantena (la svedese Rebecca Ferguson) con grande sensibilità ma con i suoi ordini segreti, il pilota impulsivo e rompicollo ma in che in fondo è un ottimo elemento (Ryan Reynolds, alias Deadpool, alias Lanterna Verde), non manca neppure il dilemma di chi compirà l’estremo sacrificio per salvare tutta la baracca. Insomma ci sono tutti gli stilemi di tutti gli altri film del genere che chi ha già visto non ha voglia di ripercorrere.

Ryan Reynolds
Ryan Reynolds

Eppure Rhett Reese e Paul Wernick sono la coppia ben collaudata di film ben riusciti come “Deadpool” e “Zombiland” ,anche se qui qualche buco e incongruenza di sceneggiatura non mancano di certo. Espinosa sa e lo dimostra nel film come creare suspense ed autentici colpi apoplettici da spavento ricalcando i cliché tipici del genere. E allora dove sta l’inghippo? Forse il problema è nell’età di chi scrive e che di questi film ne ha visti tanti, troppi e va alla ricerca di qualcosa di nuovo in un genere dove è stato detto tutto. Poi mi ricordo del recente “Arrival” di Denis Villeneuve e mi tocca spogliarmi della croce dello scettico perché è la dimostrazione evidente di come la vena della Sci-Fi è ben lungi dall’essere esplorata. In fin dei conti è un genere che per definizione si occupa di ciò che è alternativo, futuro, speculativo. Non resta quindi che attendere nuove forme di vita capaci di soggetti e sceneggiature più inedite e coinvolgenti. Nel frattempo se qualcosa di sconosciuto vi capita tra le mani, ricordatevi i sani principi appresi nei primi anni di vita, che valgono sia per il vaso Ming della zia ricca che per le meduse spiaggiate sulla battigia: non toccate.