The Strangers – Prey at Night: remake d’atmosfera che “bussa”, timoroso, alla porta dell’horror

Cindy e Mike decidono di traslocare dopo l’espulsione da scuola della figlia adolescente Kinsey. Cercando di ricomporre i cocci della famiglia, prima di raggiungere la nuova abitazione, decidono di trascorre il weekend assieme. Con il figlio maggiore Luke, partono alla volta di un complesso turistico sperduto tra boschi, dove gli zii materni hanno messo a loro disposizione un caravan in cui passare la notte. Quella che avrebbe dovuto essere una semplice vacanza, però, si trasforma presto in un gioco al massacro, quando un gruppo di psicopatici mascherati comincia a perseguitare i quattro malcapitati.

A dieci anni di distanza, esce in sala quello che, almeno nominalmente, avrebbe dovuto rappresentare il sequel del fortunato “The Strangers” di Bryan Bertino (2008) – che, in questa circostanza, si limita a co-firmare la sceneggiatura. In realtà, fin dalle inquadrature iniziali, l’opera di Johannes Roberts assume i connotati di un vero e proprio remake. Pur alterando il sottogenere di partenza, un ansiogeno home invasion – di cui “La notte del giudizio”(James DeMonaco; 2013) rimane uno degli esempi (contemporanei) più compiuti insieme a “Them” di David Moreau e Xavier Palud (2006). –, il regista inglese, mettendo in scena un survivor-movie, un last womanstanding dal sapore slasher anni ’90, ripropone la struttura narrativa dell’originale, limitandosi a introdurre nel racconto alcune piccole varianti – lo sdoppiamento dei protagonisti e dei villan.

Nonostante, come spesso accade, l’opera prima sia superiore alla copia, “Prey at Night” resta un discreto tentativo d’horror d’atmosfera. Il brumoso villaggio di caravan – che, anche senza lago, ricorda il Camp Crystal Lake di “Venerdì 13″ (Sean Cunningham; 1980) – è l’inquietante location in cui Roberts dimostra di avere compreso i meccanismi del genere -“The Other Side of the Door” (2016) –, riuscendo per larghi tratti del lungometraggio a mantenere alta la tensione – la sequenza della piscina – e procurando al pubblico qualche brivido –  Dollface nel tubo di calcestruzzo.

Un momento delle riprese del film

Niente di nuovo, comunque.
A livello formale, infatti, l’autore britannico impiega gli stilemi convenzionali del genere, sopprimendo quasi completamente, però, l’apparato sonoro, in favore di una musica pop di commento che, almeno inizialmente, desta una certa curiosità – Kinsey braccata dall’uomo in maschera – ma che a lungo andare depotenzia l’effetto orrorifico.
Sul piano narrativo, invece, da una parte la pellicola sviluppa il tema del pericolo costante, scardinando la supposta invulnerabilità della vita quotidiana, una sicurezza oziosa che, ormai, siamo portati a dare per scontata –ATM – “Trappola mortale” di David Brooks (2012) –; dall’altra, grazie al potere catartico della paura, mette in scena la soluzione di un conflitto familiare attraverso un’esperienza traumatica – da notare, al riguardo, il paradossale confronto tra una famiglia “normale” disgregata e una famiglia criminale compatta (“Le colline hanno gli occhi” di Wes Craven; 1977).

Un “onesto” remake d’atmosfera, quindi, che “bussa”, timoroso, alla porta dell’horror – come Dollface a quella degli zii –, ricevendo in risposta il brusio nervoso dello spettatore che, illuminato dallo spiraglio d’oscurità dell’ingresso accostato, si agita nel buio, ma non trema.

 

Alessio Romagnoli

Blade Runner 2049

L’uscita del sequel di “Blade Runner” è avvenuta tra i timori alimentati dallo scempio dei prequel di Alien e per nulla placati dai teaser che giravano in rete. Fortunatamente già dai primi fotogrammi, prima dei titoli di testa, s’intuisce un altro passo di questa produzione che distende lo spettatore e predispone ad una visione che consigliamo, se possibile, in una sala Dolby Atmos.

Hampton (a sinistra) e Green (a destra)

Hampton Fencher , che fu lo sceneggiatore del Blade Runner storico, e Michael Green, che oscilla tra ottime cose come “Logan-The Wolverine” ed altre meno riuscite come “Alien Covenant“, hanno fatto un gran lavoro ed, eccettuate un paio di forzature nella trama, il film fila senza intoppi conservando quell’atmosfera “noir” della pellicola degli anni ottanta.

Denis Villeneuve (a sinistra) e Roger Deakins

Per nulla intimidito da un cast di autentiche star, Denis Villeneuve ha diretto il film con la sua caratteristica impronta che abbiamo già avuto modo di apprezzare in “The Arrival“, ma senza che questa tracimi nel meccanismo narrativo a tutto beneficio dell’effetto finale. La fotografia è di un autentico maestro come Roger Deakins (“Le Ali Della Libertà” “Non è un paese per vecchi“) che rende ogni fotogramma un’opera a sé che si potrebbe incorniciare. C’è poi una grande attenzione per l’aspetto acusamtico con una sonorizzazione precisa e suggestiva che si avvale di un veterano come Hans Zimmer (“Interstellar“) ed il giovane Benjamin Wallfisch, reduce dalla collaborazione con Christopher Nolan per “Dunkirk” ( e non è un caso evidentemente).

Ana De Armas

Della trama nulla si può desumere dai trailer e nulla è ciò che sembra, anche quando nella visione del film sembra di anticipare alcune verità  non c’è invece nulla di banale e scontato. Tutto il cast è perfetto nel proprio ruolo e non c’è spazio per gigionerie inopportune. Anche la cubana Ana De Armas si rivela una scelta fortunata in un film in cui i ruoli femminili hanno una spiccata centralità accanto a Robin Wright ed all’olandese Sylvia Hoeks che abbiamo visto in  “La migliore offerta” di Tornatore.

Jared Leto nella parte di Wallace

Se il tema del primo Blade Runner era il senso e l’origine della vita, in questo seguito il focus è sulla relazione e sul concetto di persona. Raro e pregevole caso in cui si assiste ad un alzo del tiro. L’occhio vede ma è il cuore che percepisce, per cui si può desiderare ciò che si vede ma non si può entrare in una vera relazione senza una percezione cinestesica. Una cosa per essere reale deve essere toccata? Questo è un quesito che sarebbe piaciuto a Philip K. Dick e che nel film trova una delle risposte possibili. Un topos che invece  lega questo film di Villeneuve a quello di Ridley Scott è la creazione della vita. A Tyrell,il creatore dei replicanti, è succeduto Wallace, interpretato da Jared Leto, che non a caso è cieco e prima ancora di vedere le persone, grazie ad evolutissimi interfaccia cybernetici, deve o meglio vuole toccare con le mani per percepire. E’ chiaro il riferimento alla figura dell’orologiaio cieco, assunto a simbolo dei creazionisti che negano che l’evoluzione possa produrre  per caso qualcosa di così sofisticato come l’occhio umano. Wallace vive a bordo di una piscina sotterranea, in una sala buia, in un ambiente che ricorda un utero, con l’acqua a significare il liquido amniotico. E’ lì che crea replicanti ubbidienti, con  i quali non ha però empatia e né pietà.

Ryan Gosling ed Harrison Ford

Efficaci le ambientazioni che si giovano di effetti impensabili 30 anni fa eppure usati con gusto e misura il tutto a rendere l’idea di una Los Angeles sterminata e con poco senso. Un inferno sovraffollato di persone che non hanno scelta se non sopravvivere o smettere di farlo. I replicanti fanno i lavori che gli uomini non vogliono più fare e questo ci ricorda tristemente una situazione vicina ai nostri tempi in cui negare l’umanità a certi individui assolve dal senso di colpa di non trattarli come tali. Mentre il navigatore dell’auto o il nostro telefono si rivolge a noi con una voce calda e cordiale noi ignoriamo chi ci sta a fianco, uomo o forse ormai già replicante che sia.  Uno scenario (non necessariamente quello del film) scevro d’amore dove bisogna sgomitare per un pasto ed in cui il concetto di umanità trascende lo status legale di replicante, di umano o… altro.

 

 

Sarà Ana De Amas la nuova Rachael in Blade Runner 2

E invece non è completamente vero. Nel senso che la bella cubana (classe 1988) farà sì parte del cast del sequel del film di Ridley Scott, ma non si conoscono ancora i dettagli su ruoli e trama. Cosa ne sarà del ruolo di Rachel che fu della affascinante Sean Young ancora non si può dire.

Sean Young in Blade Runner
Sean Young in Blade Runner

Si sa invece che nel cast oltre a Robin Wright e Ryan Gosling ci sarà anche Dave Bautista (I Guardiani della Galassia , Riddick, Spectre) che ormai sembra  specializzato in ruoli nei film di fantascienza. Ci sarà anche Harrison Ford intento a passare il testimone dell’ormai attempato ed ex detective Rick Deckard al neofita Gosling.  Sembra quindi confermarsi la tendenza che vede ultimamente Harrison Ford aggirasi come un fantasma in trame che gli furono fortunate in età più verdi.

Ryan Gosling in una scena del nuovo Blade Runner
Ryan Gosling in una scena del nuovo Blade Runner

Certo che dopo l’amara esperienza del prequel di “Alien” (Prometeus) a sentir parlare di un sequel di Blade Runner vien da metter mano alla pistola. Tanto più se si pensa che mentre Blade Runner ha una ascendenza blasonata che deriva dal genio di Philip K. Dick (il film fu tratto infatti dal racconto dell’autore “Ma Gli Androidi Sognano pecore Elettriche?“) questo sequel nasce ex-novo senza alcun conforto letterario. Unico elemento ansiolitico è che dei due sceneggiatori, Hampton Fancher e Michael Green, il primo fu co-sceneggiatore dell’originale (all’epoca insieme a David Peoples). Speriamo in bene, ma temiamo comunque il peggio.