Il racconto cinematografico come esperienza di finzione del tempo

  • Un’introduzione

«Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so;
se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più.
E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che se nulla passasse
non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire,
e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente»

Agostino, Confessioni, libroXI

 

Nell’oscurità, i tuoi occhi non riescono a mettere a fuoco ciò che li circonda, proscritti dal regno della luce. Per un istante ti senti frastornato quando rumori e bisbiglii prendono d’assalto le tue orecchie: indietreggi nel vuoto, vacilli nel buio. D’un tratto, però, come d’incanto, un fascio iridescente squarcia le tenebre. In cerca di salvezza, le tue pupille si aggrappano a quella scia luminosa, trascinate, arrendevoli, fino ad uno schermo; immagini, allora, come fantasmi opalescenti, prendono vita… adesso puoi distinguerle chiaramente.
Shh! Silenzio, la pellicola sta per cominciare. Il film è iniziato; il film è finito. Com’è possibile?! Due ore in un attimo; mille anni in un minuto: l’uomo esplora la terra, solca il mare; l’uomo indaga l’universo, viaggia nello spazio. L’incantesimo della lanterna magica! Eoni raccontati in pochi istanti, secondi dilatati in ore.
«Il tempo è un fanciullo che gioca con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno» [Eraclito, Frammento n. 48], ed il cinema è esattamente come quel bambino: gioca con il tempo, piegandolo al proprio volere; ciò che noi, poveruomini, non riusciamo a fare…
Tempo. Tempo che scorre, che fluisce, che passa; tempo che rallenta, accelera, si arresta. Tempo e tempi: storia, memoria, ricordi, sogni, visioni, speranze. Passato, presente, futuro. L’uomo è immerso nello Zeitma non riesce ad afferrarlo, ci sfugge come l’acqua dal palmo della mano. Χρονος non è umano, è
dis-umano. Non ci appartiene, è proprietà altrui… dei Titani, di Crono, che, sprezzante, lascia sull’umanità e su ciò che crea la sua impronta sgretolatrice.
All’arte, al cinema, dunque, il compito di riappropriarsene.

  • Condicio sine qua non: capisaldi teorici

Il presente saggio si proporne di dimostrare la tesi secondo la quale il racconto – letterario o cinematografico che sia – possegga la capacità innata d’esprimere la stessa esperienza temporale esperita dall’uomo.
«Fra le forme linguistiche rivelatrici dell’esperienza soggettiva» scrive Benveniste ne “Il linguaggio e l’esperienza umana” (1965) «nessuna è così ricca come quelle che esprimono il tempo». Ciò significa, di conseguenza, applicando la proprietà commutativa, che ogni forma linguistica espressione del tempo è anche rivelatrice di un’esperienza soggettiva.
Il tempo dell’uomo, quello della vita vissuta, della quotidianità, è di tipo cronico, scorre in un unica direzione, non può essere alterato. Ciononostante, «quell’osservatore che è ciascuno di noi» prosegue Benveniste «può spingere il proprio sguardo sugli avvenimenti conclusi, ripercorrendoli nelle due direzioni dal passato verso il presente o dal presente verso il passato. La nostra stessa vita fa parte di questi avvenimenti che la nostra visione discende o risale. […] Il tempo cronico, fisso nella storia, ammette una considerazione bidirezionale, mentre la nostra vita vissuta scorre […] in un solo verso». L’esistenza (tra)scorre incessantemente, sempre in avanti, come una freccia: un senso unico – è unidirezionale, come la “storia” (Gerard Genette). All’uomo, tuttavia, è concesso di (ri)percorre tale traiettoria (temporale) in una duplice direzione (la «bidirezionalità» benvenistiana):dal presente al passato (o viceversa), come nel caso «delle nostre ricordanze», che sono «uno dei modi di far nostra ed umanizzare la cronicità» – per esprimerci con le parole di Lucio Lugnani contenute in “Del tempo: racconto, discorso, esperienza” (2003) -; oppure dal presente al futuro, come quando «l’avvenimento non è ancora presente, sta per diventarlo e appare in prospettiva» [Benveniste] – ciò che Agostino, nelle Confessioni, chiamava «aspettativa».


Tale forma di attesa si muove dal presente al futuro, presentificando i «segni» dell’avvenire. Avvenimenti in prospettiva, quindi, ante-visti attraverso l’immaginazione, l’intuizione o la previsione, e che, come i ricordi e la memoria, sono «i materiali e le facoltà necessarie perché un’esperienza del tempo possa esistere»- «solamente in questo senso […] può darsi l’esperienza del futuro».
Per innescare questi meccanismi, ricorriamo alla durata interiore. L’essere vivente, infatti, umanizza il tempo facendone esperienza. Esperienza, tuttavia, che scaturisce soltanto dalla nostra interiorità
–l’uomo è oggetto del tempo in cui vive ma soggetto del tempo che vive.La temporalità interna pulsa nella nostra psiche, è il tempo dei nostri processi mentali: ricordi, sogni, aspettative. Nella nostra «anima» – il riferimento («In te, anima mia, misuro il tempo»), naturalmente, è alla distentio animi agostiniana: il triplice presente (memoria, attenzione e attesa) che si distende, contraendosi, all’interno dell’anima dell’uomo, il solo luogo in cui è possibile afferrare, e com-prendere, il Tempo -, nella nostra interiorità, dicevo, risaliamo e ridiscendiamo liberamente il tempo della (nostra) storia. E’ la durata interiore, perciò, ha renderci padroni di αἰών – l’Eterno -, e ha costringere Chronos, entità demoniaca, ad assumere sembianze sensibili, e per questo umane.
Con il tempo interiore ripercorriamo la cronicità, avanti e indietro, dal passato al futuro (e viceversa). Solo in questo modo possiamo fare esperienza dello Zeit, (com)battendo l’indifferenza della cronologia e la rigida logica del causa-effetto.
La durata interiore, però, resterebbe inespressa se non fosse raccontata. «Se non [venisse] narrata», infatti, «sarebbe condannata a restare recondita e non rivelata» [Lugnani], confinata nel nostro «animo». Il Tempo, pertanto, diviene tempo umano solo se espresso mediante il racconto – manifestazione, come visto, di una temporalità e, contemporaneamente, di una soggettività.

Emile Benveniste

In un testo, l’attività del narratore ricorda il processo (interno) con cui gli esseri viventi percepiscono l’αἰών. Il tempo del vissuto, in cui siamo invischiati fin dalla nascita, è assimilabile al tempo della storia. Allo stesso modo della cronicità del quotidiano, la fabula è composta da una serie di eventi disposti in ordine cronologico e consequenziale. Se questa analogia è valida, allora, l’istanza narrante è posta nelle condizioni migliori per poter sperimentare, in prima persona, un’esperienza del tempo che ricalca esattamente la nostra. Relazionandosi con il tempo cronologico della storia, il narratore genera una nuova dimensione non-cronologica. Dal suo «ininterrotto e inesteso presente» [Lugnani, e seguenti], l’istanza discorsiva, “imitando” la durata interiore dell’uomo, ripercorre senza alcun vincolo, piegandoli al proprio volere, gli eventi cronici della fabula: «Il racconto coniuga il senso dello scorrere inarrestabile del tempo vissuto, narrando una storia, con la capacità del discorso di risalire e rivedere quel vissuto e di contrapporre dunque un’altra temporalità ai rigori della cronicità».
Se ciò è vero, è ipotizzabile che le anacronie di un racconto alterazioni dell’ordine temporale – siano, in realtà, gli strumenti del narratore per esprimere un’esperienza (umana) del tempo. Dunque, potremmo considerare prolessi e analessi come le tracce lasciate dell’attività riflessiva dell’istanza narrante. Le anacronie, difatti, non possono essere generate dalla fabula, perché «appartengono esclusivamente al discorso».
L’enunciazione ripercorre liberamente gli accadimenti trascorsi, svelando «un altro tempo»; un tempo a-cronologico, analogo a «quello dell’umana esperienza». La parola narrante, abbracciando l’intero arco della storia (nella sua immodificabile cronicità), avvicina e sovrappone fatti (e tempi) distinti e distanti, destituendo la cronicità e introducendo una nuova struttura temporale non cronologica.
Si pensi, ad esempio, al caso di un’analessi sotto forma di ricordo, che «con la sua facoltà di ripercorrere fulmineamente il tempo a ritroso e in avanti, umanizza il tempo e lo esprime come esperienza, non come cronicità»; oppure, all’eventualità in cui il narratore dischiude una prolessi nel tessuto narrativo, replicando la nostra capacità di evocare eventi non ancora accaduti (durata interiore).
Come l’uomo rivive il tempo cronico attraverso la sua interiorità, allo stesso modo, l’istanza discorsiva rielabora adlibitum  la rigida consequenzialità degli eventi (della fabula). Ed è così he che “memoria” e “attesa” (finzionali) del narratore generano un’esperienza temporale composta proprio «da questi andirivieni assolutamente interdetti all’oggettività cronica».

 

                                

 

 

Alessio Romagnoli

 

CONTAMINAZIONI n° 12 – Sound art: la memoria corta della storia. L’arca romana di Alvin Curran a Caracalla… nel segno di Sokurov e Tarkovsky

Le imponenti rovine della Roma imperiale, con un automatico paragone in difetto, facilmente ci suggeriscono considerazioni sulla decadenza della civiltà contemporanea.

Terme di Caracalla

Pensiamo al Colosseo, al Pantheon, a Villa Adriana, alle terme di Caracalla e a quello che rimane del passaggio dei romani in ogni angolo dell’impero: l’arena di Pola in Croazia e di Arles in Francia, la porta Nigra in Germania, l’anfiteatro di ElJem in Tunisia, le terrazze di Efeso e il teatro di Aspendos in Turchia…

Anfiteatro di ElJem in Tunisia

Un patrimonio sconfinato e ineguagliabile contro le continue lamentele sul degrado della Roma di oggi, con le buche che rendono pericolosa la circolazione anche in centro e i servizi che non funzionano.

Ai tempi di Augusto e Livia c’erano già oltre un milione di abitanti e sicuramente ci si lamentava anche allora, magari idealizzando il periodo agropastorale di Romolo e Remo, i fondatori, quando lontani dai vizi della decadenza ci si occupava di sane attività, del tipo… procurarsi femmine per generare una discendenza.

Augustus di Prima Porta
La lupa con i gemelli Romolo e Remo

 

Come predoni i primi romani calavano sui popoli vicini per rapire le loro donne, eppure il “ratto delle Sabine” anche sui libri di scuola non è mai stato dipinto come uno stupro di massa ma piuttosto un necessario aggiustamento nella prospettiva dello sviluppo di una grande civiltà. Strano che nessuno abbia ancora segnalato il caso alle attivissime vendicatrici di “Me Too”, ma forse questo è davvero fuori tempo massimo.

 

La civiltà romana si diffuse in quasi tutto il mondo allora conosciuto, portando un metodo, un’amministrazione pubblica efficiente, delle regole di convivenza codificate… imponendo la sua visione innovativa a popolazioni che erano molto più indietro, più o meno dei “barbari”. Non è senza senso quindi la battuta attribuita a un romano di oggi che si rivolge a un inglese:

“E’ inutile che vi diate tante arie… Quando ancora abitavate nelle caverne noi romani eravamo già froci!”

Il paradosso sembrerebbe qui dare un valore positivo alla diversità sessuale quando in realtà vuole solo imporre ad ogni costo la propria superiorità nella disputa, ricorrendo persino alla presunta negazione di pregiudizi omofobici… ma la battuta è filologicamente corretta poiché la percezione dell’omosessualità nell’antica Roma era lontana dalla condanna e dal pregiudizio, codificati più tardi con la chiusura mentale delle religioni moderne.

Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha dichiarato che preferirebbe vedere suo figlio morto piuttosto che omosessuale, una posizione abbastanza comune, e non solo tra i simpatizzanti di una dittatura militare che in Brasile, hai tempi del “plan condor”,  ha torturato e ucciso.

il presidente brasiliano Bolsonaro

A un certo punto nella cultura occidentale sono state definite delle regole che qualcuno si è impuntato a far rispettare con la violenza e la coercizione, come ancora accade in Arabia Saudita, Yemen, Sudan, Nigeria, Tanzania… una settantina di paesi del mondo dove la legge punisce questa “diversità”.

Un caso curioso è rappresentato dall’Iran, dove è prevista la pena di morte per gli omosessuali, ma solo per gli uomini, mentre per le lesbiche ci si limita a cento frustate.

due ragazzi mpiccati nel 2005 per il reato di omosessualità vigente in Iran

Allo stesso tempo dal 1985, già in epoca khomeinista, la legge permette il cambio di sesso. Il primo uomo a diventare donna in Iran fu un certo Feridun Malekara (conosciuta anche come Maryam Khatoon Molkara) che si rivolse direttamente a Khomeini spiegando il suo problema. Pare che tra i due ci fosse un legame di parentela, una voce che gira a Tehran ma non ne ho la certezza. Mi sembra però un’ipotesi più che plausibile: per avere il coraggio di andare dall’Ayatollah in persona e rompergli i coglioni con una richiesta così assurda, e in piena guerra con l’Iraq… beh, come minimo doveva essere il suo nipote preferito.

 

“Zio, zio…”

“Cosa vuoi ancora?”

“Mi sento intrappolato in un corpo che non è il mio. Mi sento donna!”

“Oh cazzo…! Ma sei sicuro?”

 

Maryam Khatoon Molkara
Khomeini

 

Khomeini si dev’essere poi rassegnato all’idea, ordinando di approvare subito una nuova legge, ma molto generica.

“E’ possibile cambiare sesso.” Basta.

La feroce repressione dell’omosessualità combinata alla facilità nel cambio di sesso (basta essere maggiorenni) ha fatto sì che in Iran molti transgender abbiano seguito questa strada (oggi circa duemila casi all’anno, secondo solo alla Tailandia) e la scienza si sia evoluta al punto che questo paese è diventato un pioniere in materia anche dal punto di vista medico.

Non c’è traccia del passaggio dei romani in Iran: si fermarono in Turchia senza mai riuscire a conquistare la Persia. L’imperatore Valeriano fu sconfitto nel 260 d.c. dall’esercito dei Sasanidi, comandato dal re Shapur.

Tutto questo è stato rievocato pensando a una recente visita alle terme di Caracalla, alla scoperta di una straordinaria installazione sonora di Alvin Curran.

Terme di Caracalla
Alvin Curran e l’autore dell’articolo alle terme di Caracalla

Lo spazio delimitato dalle mura perimetrali si compone di enormi palestre e piscine, dove il popolo romano poteva curare il proprio benessere, socializzare, passare il tempo. Un’opera ciclopica, che suggerisce l’apice di una grande civiltà e quasi intimidisce per la sua grandiosa intelligenza progettuale.

L’equazione di Alvin Curran e di mettere in relazione questo enorme oggetto apparentemente inanimato con un’infinita combinazione di suoni in una serie di altrettanto infinite sequenze prodotte da un computer, con diffusori posizionati secondo una logica precisa che fa arrivare il suono dalle più variegate angolazioni. Se s’aggiunge anche il cambiamento della luce naturale e poi la staticità dell’illuminazione notturna, ecco che il quadro è quasi completo. Dico quasi perché mancano altre varianti, come il movimento e la presenza degli eventuali visitatori e la vita “naturale”, selvaggia, che si è impossessata dello spazio… Ci sono gabbiani, gatti, topi ovviamente, e una piccola comunità di falchi pellegrini…

Veduta totale delle Terme di Caracalla

 

Durante il complicato allestimento, mentre i diffusori venivano portati perfino nei cunicoli del sottosuolo sfruttando come via di fuga una serie di aperture, e poi in altri punti più in alto, ci si è posto il problema di questi rapaci, specie protetta e delicata. Un diffusore stava per finire proprio nel loro nido… ma i falchi pellegrini già dalle prime prove tecniche non avevano fatto una piega, anzi, sembrava che quasi gradissero l’intromissione di quel mondo sonoro che un po’ alla volta veniva loro imposto nella composizione del lavoro.

Possiamo quindi affermare, dopo averlo verificato sul campo, che “al falco pellegrino piace la sound art”.

 

Un falco pellegrino in picchiata

 

L’arte sonora è una forma di espressione artistica molto sofisticata e di grande impatto emotivo che, diversamente da quanto generalmente si crede, non nacque negli USA con John Cage (che ne fu certamente un importante e innovativo interprete e catalizzatore) ma nell’Unione Sovietica di Lenin. Quasi tutta la straordinaria sperimentazione dei “soundartisti” sovietici fu distrutta da Stalin che era contrario alle avanguardie. Quello che ci è rimasto, che si è riusciti a recuperare, lo si deve a un’idea geniale di Vladimir Il’ič Ul’janov (il vero nome di Lenin – 22 aprile 1870 – 21 gennaio 1924) che offrì a tutti gli artisti della Russia la possibilità di viaggiare gratis in treno.

Lenin

Molti di loro erano senza fissa dimora… come ci ricorda persino il nome di uno dei protagonisti de “Il maestro e margherita” di Mikhail Bulgakov, il poeta Ivan Nikolayevich Ponyrov, detto “Bezdomny”, cioè “senza casa”. Molti artisti vivevano viaggiando in lungo e in largo per il paese, abitando i treni e le stazioni, fermandosi quando e dove potevano.

Le registrazioni degli esperimenti dei “soundartisti”, sono state ritrovale negli archivi di alcune piccole città, in alcuni casi sperdute, dove la distruzione ordinata da Stalin non ha colpito con l’efficacia sistematica adottata nelle grandi città.

Tra questi pochi superstiti ci sono esempi straordinari e imponenti, come l’opera di Arseny Avraamov che, nel 1922 a Baku, registrò “Symphony of Factory Sirens”, un evento livenel quale dirigeva l’azione delle sirene in alcune fabbrica circostanti.

Arseny Avraamov a Mosca nel 1923

Una fine tragica toccò a Vsevolod Mejerchol’d, fautore della prima sincronizzazione: fu arrestato, torturato e ucciso, durante le purghe di Stalin nel 1940.

Vsevolod Emil’evič Mejerchol’d

 

Un altro grande sperimentatore fu Lev Theremin, scienziato e inventore di strumenti musicali, in particolare l’eterofono, (ribattezzato poi “theremin”). Nel 1938, al ritorno da una permanenza di alcuni anni in America, fu internato in un campo di lavoro, ma sopravvisse e fu poi riabilitato grazie a una proficua collaborazione con il KGB nella progettazione di tecnologia spionistica. Morì a Mosca nel 1993 a 97 anni.

Lev Theremin ed il suo Eterofono

 

Sono molti gli artisti contemporanei che si dedicano anche (o solo) alla sound art, una forma espressiva ancora poco nota al grande pubblico. Se prendiamo come paragone una classica mostra istituzionale, che ne so… i soliti “impressionisti”, Frida Kalo o Jan Vermeer (magari alle scuderie del Quirinale) la proporzione di pubblico interessato alla soud artforse non arriva l’1%, ma non è certo questo che ne sminuisce il valore. L’esperienza attiva di chi fruisce un’opera sonora può essere qualcosa di veramente speciale: una percezione che utilizza anche il senso dell’udito fa provare sensazioni che coinvolgono in profondità.

All’Auditorium di Roma, Anna Cestelli Guidi, una curatrice sensibile e determinata, ha inventato il “Sound Corner”, sfruttando un corridoio che si allarga all’interno della struttura progettata da Renzo Piano, in uno spazio sufficientemente riservato, adatto alla bisogna.

Il sound corner all’Auditorium di Roma

Questa iniziativa va avanti da qualche anno e contribuisce a diffondere la consuetudine alla sound art a Roma… ma è ovvio che la differenza con un grande spazio aperto come quello delle terme di Caracalla affrontato da Alvin Curran a singolar tenzone, è sostanziale.

La grandiosità dell’intervento di Alvin, più vicino alla land artche a un’installazione sonora, ci riporta idealmente alle sperimentazioni del suono sui grandi spazi, intraprese dei sovietici ai tempi di Lenin, in una sana contaminazione con la tradizione occidentale di John Cage, di cui lui certamente è un degno erede.

veduta aerea delle terme di Caracalla

 

Angelo Farro, giovane compositore e collaboratore di Alvin, mi ha spigato le particolarità tecniche dell’opera: utilizzando dei logaritmi, un computer va a pescare i file sonori da diverse “cartelle” e li rielabora seguendo una casualità che potrebbe vedere lo stesso frammento ripetuto a breve distanza oppure no… un’intelligenza artificiale che una volta attivata, entro certi limiti, collabora autonomamente. Otto diffusori sono stati posizionati nel sottosuolo, mentre altri dodici in vari punti in tutto lo spazio delle terme, su altri due livelli: in altro (le mura in alcuni punti superno i trenta metri) e ad altezza d’uomo. Questo comporta una combinazione di tre diverse provenienze del suono con una specie di effetto dolby sourround. Ci sono poi dei suoni “sinusoidali”, cioè puri, limitati a una precisa frequenza, che viaggiano attraversando lo spazio come delle lame taglienti e invisibili… a loro volta combinati con loro simili che si differenziano solo per pochi hertz. La complessità tecnica e teorica si spinge molto più in là e può avere un senso per gli addetti ai lavori… quello che conta è la percezione di un sistema complesso.

OMNIA-FLUMINA-ROMAM-DUCUNT-TUTTI-I-FIUMI-PORTANO-A-ROMA architetture sonore di ALVIN-CURRAN
Alvin Curran all’inaugurazione della sua opera alle terme di Caracalla

All’inaugurazione del lavoro di Alvin a Caracalla (Omina Flumina Roma Ducunt– Tutte le strade portano a Roma – Architetture sonore di Alvin Curran, a cura di RAM radioartemobile) ho incontrato Donatella Spaziani, un’artista romana, forte, una cara amica… e mentre tutti i visitatori dal grande spazio all’entrata s’incanalavano a destra per procedere in senso anti orario, ci siamo ritrovati a camminare insieme in senso orario, contromano, costeggiando i bellissimi mosaici dalla parte che per tutti sarebbe stata la fine del percorso, dove non c’era ancora nessuno. Era da un po’ che non ci vedevamo, un paio di mesi almeno. Abbiamo cominciato parlando dei nostri dubbi e complicazioni sentimentali e della sua attesa per una nuova sede d’insegnamento. Chissà in quale accademia andrà a finire… Poi abbiamo parlato di un libro scritto da un amico che in copertina riporta una sua opera. Me lo aveva regalato prima dell’estate e per fortuna ho fatto in tempo a leggerlo.

Donatella Spaziani

ESCHE, di Andrea Fiorito, è un libro piuttosto sorprendete sia per la forza della scrittura che per il continuo spiazzamento che impone al lettore… ma si sente che non lo fa per stupirti o per farti vedere quanto poco sia convenzionale, è proprio così che funziona il suo cervello con il quale stabilisce un filo diretto che il suo stile scarno e volutamente grezzo riesce sempre a mantenere a fuoco, mentre vaga tra mondi ed esistenze marginali, puttane, disperati in cerca di sesso, solitudini e ossessioni…

 

Esauriti gli argomenti finalmente ci accorgiamo della meraviglia ci circonda e per un po’ ce ne siamo in silenzio. Camminando lungo una specie di passerella, mentre ascolto la complessità del lavoro di Alvin, mi viene in mente uno straordinario film, ARCA RUSSA (2002) di Alexander Sokurov, un lungo piano sequenza, un punto di vista fantastico che si muove dentro il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, attraversando varie epoche della storia della Russia.

La passeggiata a Caracalla tra le imponenti architetture romane, immerso nelle architetture sonore di Alvin, mi fa sentire come “trasportato”, non solo nello spazio ma anche nel tempo, un tempo che non cerco di definire pensando a quei suoni misteriosi come a una rievocazione soggettiva… La memoria mi riporta all’esplorazione dello Stalker nel capolavoro di Andrei Tarkovsky, che cerca una risposta ai propri dubbi sconfinando nella “zona” proibita, uno spazio pieno di pericoli mortali, dove le regole del mondo esterno sono sospese.

Il mondo reale, i rumori metropolitani della Roma di oggi che arrivano un po’ ovattati fanno da tappeto alla polifonia dei suoni “architettati” in centinaia di file gestiti dal computer e ripescati dal logaritmo che li combina in sequenze imprevedibili.

Le terme di Caracalla al tramonto

 

Poco dopo il tramonto incontriamo Mario e Dora e ci fermiamo qualche minuto, giusto per provare un po’ di affettuosa invidia per il loro entusiasmo, per la loro energia inesauribile: questo grande sforzo produttivo è stato possibile grazie alla loro determinazione e all’impegno della direttrice di Caracalla Marina Piranomonte.

Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier

Mario indica verso l’alto.

“Eccolo… il falco pellegrino!”

Alziamo gli occhi e intravediamo un’ombra alata volteggiare sulle gigantesche mura, ma è un attimo: il cielo scuro l’ha già inghiottita e non è possibile identificarla con certezza.

Mario non ha dubbi. E’ stata una giornata perfetta e la presenza regale del mitico rapace completa il quadro. Il nume tutelare dell’arte deve essere per forza lì presente, in forma di falco pellegrino, sopra le nostre teste.

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

Peterloo

Il titolo dell’ultimo film di Micke Leigh è un a crasi tra le località di Peterfield ed il celebre luogo dove si svolse la battaglia di Waterloo. Ed è proprio durante la battaglia durante la quale l’inglese duca di Wellington  sconfisse Napoleone che inizia il film con l’inquadratura di un frastornato trombettiere che vaga sul campo di battaglia tra fumo, fragore di armi da fuoco, urla e morti. Presagio del finale che non è un mistero per chiunque conosca la storia del massacro di Peterfield, quando la cavalleria del re caricò la folla riunitasi a Manchester il 16 Agosto del 1819  per ascoltare il comizio del radicale Henry Hunt (Rory Kinnear).

Rory Kinnear

Il film approfondisce il quadro sociale dell’epoca, i personaggi storici e le dinamiche che portarono a quell’eccidio e lo fa con una fotografia che richiama i quadri dei ritrattisti dell’ottocento inglese (già apprezzata nel suo premiato “Turner” con Timothy Spall), unica concessione all’immagine che per il resto rimane relegata in secondo piano rispetto alla parola. D’altronde è un film sull’oratoria e gli “speech” dei giudici, come degli agitatori, piuttosto che dell’elite politica dell’epoca sono lo strumento attraverso cui lo spettatore misura le distanze tra gli strati sociali e la profondità dell’indigenza del proletariato.

Mike Leigh in sala dopo la proiezione a Venezia

E’ una denuncia della mentalità mercantilista dell’era industriale e dei suoi nefandi effetti, attuali ancora oggi. Pure il protezionismo è messo all’indice. All’epoca di quei fatti il protezionismo fu applicato dalla Corona alla produzione di grano inglese contro le importazioni dalle americhe e dal continente, sebbene inteso come incentivo alla produzione nazionale, divenne invece, a causa di una carestia, la causa di un rialzo vertiginoso dei prezzi che affamò i poveri spingendoli a rivendicazioni non sempre pacifiche.

Il mercantilismo sfrenato, la sperequazione, lo sfruttamento e la condizione abbietta dei lavoratori, la sordità dei ceti abbienti, la stolida burocrazia delle istituzioni, sono tutti mali ancora operanti di cui Leigh ci vuole parlare rimandandoci ad un ricordo più che centenario, per ricordarci che hanno radici solide e lontane ben lungi dall’essere state completamente estirpate. C’è un chiaro parallelismo tra il lavoratore e il fantaccino, entrambi irrilevanti per chi comanda ed ininfluenti quando vagano soli in mezzo al loro campo di battaglia, sia esso Waterloo o la fabbrica. Solo l’unione e la solidarietà, inseriti in un contesto pacifico ma determinato, paiono essere la via da percorrere per una società più inclusiva. Ma nel finale ci viene ricordato come ogni guerra ha le sue battaglie ed ogni battaglia, anche quelle sociali, ha i suoi morti.

 

Minnesota Fez

Non avete ancora sentito niente

Sono passati ormai 90 anni da quel 6 ottobre 1927 in cui Al Jolson, corifeo del vaudeville, fece sentire la propria voce nel ruolo del protagonista del film “Il cantante di jazz”. Prima di allora il cinema era muto, nel senso che non parlava, ma non era del tutto silenzioso, infatti è sempre stato accompagnato da musica dal vivo, oppure riprodotta con strumenti come il fonografo. C’erano persino attori che leggevano i dialoghi e riproducevano i rumori.

un kinetoscopio di Edison

Pioniere della sincronizzazione tra immagine e suono fu già Edison che trovò la maniera di far funzionare contemporaneamente il kinetoscopio, la sua invenzione con cui nacquero i nickleodeon theatres,  e il fonografo. Ma il kinetoscopio era un apparecchio ad uso individuale e per far fruire audio ad un pubblico in sala si dovrà attendere almeno fino al 1923 quando Lee DeForest brevettò il “Phonofilm”, la prima pellicola a contenere una traccia audio incisa su una striscia verticale a lato dei fotogrammi.  Segue la Western Electric che nel 1925 inventa il “Vitaphone”, un sistema basato sulla sincronizzazione di una pellicola e dei dischi. L’appena nata società dei fratelli Warner adotta il sistema Vitaphone e il 6 agosto 1926  proietta al pubblico il film di Alan CoslandDon Giovanni e Lucrezia Borgia” . Il sistema funziona, ma il film, girato per il muto e quindi senza dialoghi, presenta giusto la colonna musicale sintonizzata e la cosa non fa certo scalpore.

Al Jolson e May McAvoy

Neppure  “Il cantante di Jazz” presenta dei dialoghi, il lavoro di sceneggiatura non si è ancora adeguato al passo tecnologico, ma in quattro scene è sincronizzata la voce di Al Jolson mentre canta e in una di queste recita le celeberrime parole “You ain’t heard nothing yet” e indubbiamente, prima di quel momento, nessuno spettatore aveva ancora sentito niente di simile durante una proiezione cinematografica.

Gene Kelly in “Cantando sotto la pioggia”

La rivoluzione del sonoro non fu incruenta e molti divi dalla voce gracchiante o dall’eloquio deludente ci lasciarono le penne. I film risulteranno più statici perché i microfoni non sono molto sensibili e nemmeno direzionali, per cui funzionano poco e male, captando tutti i rumori del set. Non c’è la possibilità di avere tracce audio separate da mixare con comodo in studio per cui dialoghi rumori e musiche vanno registrati in contemporanea. Persino il rumore della macchina da presa diventa un problema e deve essere collocata in una cabina insonorizzata che ne limita grandemente in movimenti. Un trauma di tale magnitudo influenzerà per sempre l’industria di Hollywood e ancora nel 1951 Stanley Donen rievoca quel momento girando “Cantando sotto ls pioggia” con Gene Kelly e Lina Lamont, in cui i protagonisti, stelle del muto, si trovano a convertirsi in attori parlanti in corso d’opera mentre girano un film intitolato “Il cavaliere spadaccino”.

Un fotogramma di “Aurora” di Murnau

Il primo film pensato e realizzato peri sonoro sarà nel 1928 “Le luci di New York” di Brian Foy , seguito l’anno successivo dal primo musical cantato, parlato e danzato, “The Broadway Melody” di Henry Beaumont. Ormai il dado è tratto e si moltiplicano i sistemi di sincronizzazione, per cui la Fox adotta un suo stima chiamato “Movietone” molto simile al “Phonofilm” , utilizzato per esempio nella colonna sonora del famoso film di Murnau “Aurora”, anch’esso del 1927. Anche RCA realizza il proprio brevetto che chiama “Photophone” e questo proliferare di standard incompatibili tra di loro spingerà le cinque grandi MGM, Paramount, First National e Producers Distributing Co. a siglare un accordo per la pellicola prodotta dalla Western Electric, mentre il sistema a dischi resisterà sino al 1931 quando la Warner , la prima ad adottarlo, sarà l’ultima costretto ad abbandonarlo.

Entrambi editi e distribuiti da DNA sono disponibili in commercio i DVD de “Il cantante di Jazz”, pubblicato proprio questo mese per celebrare i 90 anni dalla sua uscita, e “Aurora” di Friedrich Wilhelm Murnau.

 

CONTAMINAZIONI n° 9 – Il Rolex di Che Guevara

Il 1° aprile 1971, una giovane donna di nazionalità tedesca si presentò al Consolato della Bolivia di Amburgo per un visto e chiese di incontrare il console, Roberto Quintanilla Pereira, un colonnello dei servizi speciali dell’esercito boliviano passato alla carriera diplomatica. Dopo un po’ di anticamera fu ammessa nello studio del console e i due rimasero soli. L’incontro fu breve. Non sappiamo se ci fu una vera e propria conversazione o soltanto dei convenevoli. La donna estrasse una Colt Cobra 38 Special e sparò tre colpi uccidendo l’uomo all’istante.
Prima di fuggire lasciò un foglio di carta con scritto “Vittoria o morte” e la sigla ELN (Ejército de Liberación Nacional).
La moglie di Quintanilla, accorsa per gli spari, tentò inutilmente di fermare l’assassina che nella colluttazione si lasciò dietro una parrucca, la borsa e la pistola.

Quintanilla presenta il cadavere del Che

I documenti contenuti nella borsa svelarono la sua vera identità: Monica Ertl. Era nata in Germania nel 1937 ma dal 1952 viveva in Bolivia. Aveva “giustiziato” Roberto Quintanilla, colpevole di aver fatto scempio del cadavere di Ernesto Che Guevara tagliandogli le mani per consegnarle agli americani (così da poterlo identificare con certezza) e di aver ucciso Inti Peredo, compagno di Monica, che aveva assunto il comando della “guerrilla” in Bolivia dopo la cattura del Che.

Monica Ertl

Il governo boliviano mise una taglia di 20mila dollari sulla sua testa, una cifra enorme all’epoca. La pistola utilizzata per uccidere il console boliviano era stata regolarmente acquistata in un’armeria di Milano il 18 giugno 1968 da Giangiacomo Feltrinelli, nei cui confronti fu subito spiccato un mandato di cattura per complicità nell’omicidio. Feltrinelli, che aveva finanziato l’intera operazione, deve aver incontrato Monika Ertl nelle settimane precedenti. Da tempo si era dato alla clandestinità, che continuò fino a quando il suo corpo dilaniato dalla dinamite fu trovato sotto un traliccio a Segrate il 14 marzo 1972.

Giangiacomo Feltrinelli

Due anni dopo l’azione di Amburgo, il 12 maggio 1973, Monika Ertl cadde in un’imboscata a La Paz. Il suo corpo non fu mai restituito alla famiglia. Era l’unica figlia di Hans Ertl, operatore cinematografico che lavorò con Leni Riefenstahl nel celeberrimo film sui giochi olimpici di Berlino del 1938. Hans fu poi fotografo e cineoperatore di Rommel in Africa. Pur non essendo un “nazista”, spesso veniva ricordato come “fotografo di Hitler” e sicuramente dopo la guerra non ebbe vita facile, tanto che nel 1950 decise di emigrare con tutta la famiglia per cominciare una nuova vita. Approdò in Cile ma l’anno dopo si trasferì in Bolivia, a Chiquitania, a 100 chilometri circa da Santa Cruz de la Sierra.

HANS ERTL e LENI RIFENSTAHL

Monika aveva quattordici anni quando iniziò l’esilio degli Ertl. La sua storia è nota. Un giornalista tedesco, Jurgen Schreiber, ha scritto un libro su di lei: “La ragazza che vendicò Che Guevara”. Rimangono invece molti dubbi intorno alla morte del Che, alle circostanze e convenienze che la favorirono. Molte le versioni dei fatti, piene di congetture e inesattezze, distorte dalla mitologia germinata attorno alla figura del guerrigliero/eroe per eccellenza, come il racconto celebrativo e ideologico “El mi amigo Che”, del giornalista argentino Ricardo Rojo. Diversi documentari sono stati realizzati sull’argomento e alcuni film, tra i quali quello del 1969 “Che!” di Richard Fleischer con Omar Sharif nei panni di Ernesto Guevara, e quello del 2008 di Steven Soderbergh “Che l’argentino”, con uno straordinario Benicio del Toro, premiato come miglior attore a Cannes.

Omar Sheriff interpreta El Che
Benicio Del Toro nei panni del Che

 

Il primo si può definire un “instant movie” ante litteram realizzato sull’onda dell’immediata mitizzazione del Che. E’ certamente un film datato e retorico ma non privo di coraggio: la posizione morbida nei confronti della rivoluzione cubana, alla quale viene riconosciuto il merito di aveva ribaltato la feroce e corrotta dittatura militare di Fulgencio Batista, non era per niente scontata a quel tempo.

Il film di Soderbergh, diviso in due parti, dura più di quattro ore: dal successo della rivoluzione cubana che sorprese il mondo e determinò un altro polo nel gioco della “guerra fredda”, alla fine del Che, braccato dall’esercito boliviano, catturato e giustiziato. Si percepisce molto bene il senso di sconforto e disorientamento che deve aver accompagnato Che Guevara nelle ultime settimane della sua vita, quando si accorse che la missione in Bolivia aveva persino meno senso di quella già fallimentare in Africa, ma il film non prende alcuna posizione su ciò che avrebbe senso cercare di ricostruire dopo tanti anni. A parte l’intrattenimento e la qualità degli interpreti è difficile comprendere la necessità di un’ennesima ricostruzione di uno degli episodi più discussi della storia recente, senza aggiungere nulla di nuovo, di significativo, senza rivelare nulla sulle forze in gioco che portarono alla fine iniqua del Che in Bolivia.

La lettura superficiale della realtà può essere fatale ed è proprio quello che gli successe in Bolivia nel 1967. “Cada macaco no seu galho” un proverbio che ho sentito in Brasile suggerisce di impegnarci in ciò conosciamo bene e non in quello che con arroganza pretendiamo di conoscere.

La missione in Bolivia era assurda per vari motivi. Il Presidente in carica, René Barrientos, era molto popolare: nonostante fosse arrivato al potere nel 1964 con un colpo di stato e avesse assunto come consigliere il criminale nazista Klaus Barbie, era stato poi democraticamente rieletto nel 1966. Padroneggiava le lingue tradizionali (Aymara e Quechua) e con il suo elicottero viaggiava continuamente, raggiungendo ogni piccolo borgo sperduto, dove spesso si ubriacava con i campesinos e si prestava a tenere a battesimo i loro figli.

René Barrientos Ortuño

La sua riforma agraria aveva già concesso molte terre ai contadini e quando il Che chiedeva aiuto ai boliviani con la prospettiva di un’equa distribuzione della terra, non si rendeva conto che la politica populista di Barrientos aveva già annullato un elemento chiave della sua strategia.

Anche il partito comunista boliviano fu poco collaborativo con il Che perché aveva ricevuto precise indicazioni dall’Unione Sovietica che lo considerava un elemento pericoloso e destabilizzante, specie dopo le sue aperte critiche ai pericoli dell’influenza sovietica in Africa con il discorso di Algeri del 24 febbraio 1964.

Il Che ad Algeri

Dariel Alarcón Ramiréz, detto “Benigno”, fu uno dei pochi sopravvissuti del gruppo del Che in Bolivia. Aveva combattuto al suo fianco dal 57’ e lo aveva seguito anche in Congo. Con due compagni, dalla Bolivia era riuscito ad attraversare il confine cileno. I tre sopravvissuti se l’erano cavata grazie alla protezione di Salvador Allende, allora Presidente del Senato. Al rientro a Cuba, Benigno fu accolto da eroe e fece carriera, ebbe cariche e riconoscimenti, ma nel 1996 fuggì a Parigi approfittando di un permesso dell’unione degli scrittori cubani e rinnegò la sua vita, accusando Castro di aver tradito la rivoluzione.

Fidel Castro

Le rivelazioni di Benigno sono interessanti per inquadrare meglio il disastro dell’avventura boliviana del Che.

«Cienfuegos e Guevara facevano ombra a Fidel. C’erano contrasti nel gruppo dirigente. Poi Cienfuegos morì in un misterioso incidente. Ero con Guevara in Congo, quando Fidel rese pubblica una lettera in cui Guevara dichiarava di rinunciare ad ogni incarico e alla nazionalità cubana. Il Che prese a calci la radio e urlò: Ecco dove porta il culto della personalità! Il comandante aveva scritto la lettera dopo il discorso di Algeri in cui aveva messo in guardia i paesi africani dall’imperialismo sovietico. Credo che quel discorso fu la sua condanna a morte.». 

Dariel Alarcón Ramiréz

Dal 2008 al 2013 ho viaggiato nove volte in Bolivia per le riprese di un documentario. Sapevo che il Che aveva trovato la morte proprio li, durante una della sua tante “crociate in difesa dei deboli”, braccato e accerchiato dalle forze reazionarie, con l’aiuto dei soliti americani che ne avrebbero chiesto l’esecuzione sommaria, senza immaginare che stavano contribuendo alla creazione di un mito. Era una lettura molto superficiale. Del tutto accidentalmente ho avuto poi accesso a delle informazioni dirette sulla morte di Che Guevara e dopo averle lasciate sedimentare per un po’ mi sono deciso a scriverne, nonostante l’argomento sia quasi “intoccabile”. Mi sento legittimato dalla mia grande fiducia nella logica…

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”

E’ importante ricordare ogni tanto le parole di Pier Paolo Pasolini che con il suo indimenticabile intervento sul Corriere della Sera (14 novembre del 1974) definisce il senso più profondo del nostro lavoro e la responsabilità che comporta.

Pier Paolo Pasolini

Dopo il fallimento della missione in Africa il Che era tornato a Cuba, dove ormai stava diventando sempre più scomodo per Fidel Castro. Il suo carisma era enorme, la sua popolarità ingombrante. La sua natura di guerrigliero e il suo carattere poco si adattavano alla gestione del potere politico e a tutte le problematiche e burocrazie annesse e connesse.

La mia amica Eloisa Lopez-Gomez è nata in Brasile ma i suoi genitori emigrarono da Cuba: il padre nel 1961, la madre nel 1966. A firmare i documenti di espatrio per sua madre fu proprio Ernesto Guevara, appena tornato dall’Africa. Eloisa sperava che sua madre avesse conservato quel “foglio di via”, ma purtroppo è andato perduto.

Fidel castro e il “Che”

Se pure è logico e ovvio, rimane sorprendente come i frammenti di storie lontane s’intersecano nel mondo in luoghi e piani temporali differenti, e questo frammento che Eloisa mi ha riportato suggerisce un Che “piccolo burocrate”, obbligato ad applicarsi nelle noiose mansioni pratiche che la sua carica istituzionale a Cuba necessariamente comportava, lontana dall’esistenza avventurosa dei campi di battaglia.

D’altra parte a Cuba non sarebbe mai potuto diventare “Fidel” essendo lui argentino, uno straniero quindi, nonostante tutto. Il suo sogno era di portare il modello della rivoluzione cubana anche nel suo paese, dove a pieno diretto sarebbe potuto diventare il “leder maximo”.

Nel 1962 in Argentina un colpo di stato militare aveva fatto cadere il presidente Arturo Frondizi. Jorge Ricardo Masetti fu l’unico giornalista argentino a coprire la rivoluzione cubana e si fermò alcuni anni a Cuba dove nel 1959 fondò e diresse l’agenzia si stampa ufficiale del governo rivoluzionario “Prensa Latina”. Tornato nel suo paese nel 1963 con un gruppo di guerrilla tentò di far partire la rivoluzione anche in Argentina, ma dal 1964 scomparve nella giungla, si persero per sempre le sue tracce.

Jorge Ricardo Masetti

Il Che, che voleva ripartire da dove Masetti aveva lasciato, non ascoltò i consigli dei suoi compagni boliviani che suggerivano di concentrare l’azione a nord est, una zona che conoscevano bene, dove potevano contare sull’appoggio della popolazione locale, ma si ostinò invece a spingersi a sud, verso il confine argentino appunto. Con soli trenta uomini, senza appoggi, braccato da tremila soldati, la sua fine era già scritta.

La sua prigionia durò solo un giorno, in una baracca nei pressi del villaggio La Higuera, dipartimento di Santa Cruz. La decisione di giustiziarlo fu presa molto rapidamente, non dai soliti americani come erroneamente si crede (che avrebbero preferito interrogarlo a dovere) ma dal presidente dalla Bolivia. René Barrientos era reduce da una vicenda analoga che non voleva si ripetesse: il caso Debray. Qualche mese prima, giornalista francese, uno dei componenti della guerrila del Che era stato catturato.

Jules Régis Debray

 

L’intenzione della giustizia boliviana era di metterlo a morte ma con il passare dei giorni si era sollevata una grade protesta. Oltre al governo francese e alle varie ONG, per salvare la vita a Debray firmarono importanti intellettuali di molti paesi del mondo tra i quali gli italiani Ungaretti, Pratolini, Moravia, Pasolini, Fellini, Silone…

Alla fine Barrientos fu costretto a cedere: Debray fu liberato.

Per questo motivo quando il Che fu catturato, la decisione di eliminarlo fu presa in meno di ventiquattro ore.

Jules Régis Debray è considerato da molti il vero traditore di Che Guevara, quello che avrebbe fornito le informazioni utili alla sua cattura. Il suo avvocato ha reso pubblica una lettera scritta da Debray durante la prigionia, nella quale comunicava di aver raggiunto un accordo con il governo boliviano… ma questo è un elemento secondario del puzzle.

Ecco come andarono le cose.

Nel 1967 Gary Prado Salmòn era un giovane Capitano dei Rangers dell’esercito boliviano, aveva solo 28 anni quando il gruppo al suo comando catturò il Che a la Quebrada de Churo.

Gary Prado Salmon

A differenza delle varie versioni, più o meno romanzate, fu lui l’ultima persona a parlare con Che Guevara prima della sua esecuzione. Gli comunicò che la decisione era stata presa e che l’ordine sarebbe stato eseguito. Il Che gli affidò il suo Rolex, chiedendogli di farlo avere alla sua famiglia. Fu Mario Teran, un soldato semplice di 27 anni, a premere il grilletto.

Anni dopo Gary Prado ebbe modo di mantenere la promessa e consegnò il Rolex all’ambasciatore cubano, che a sua volta lo fece arrivare alla famiglia Guevara.

Una foto del “Che” con il Rolex GMT

E’ probabile che esistano diversi Rolex del Che e altre storie e particolari che li riguardano (come a Zanzibar esistono diversi luoghi dove sarebbe nato Freddie Mercury)… ma questa versione, una testimonianza diretta di Gary Prado, mi sembra la più attendibile e anche la più bella.

Le imprecisioni sul momento della morte di Che Guevara sono anche dovute al fatto che nell’esercito boliviano c’erano ben tre Mario Teran. Un giornalista americano intervistò un “Mario Teran”, ma non era lui il boia di Che Guevara. In cambio di qualche centinaio di dollari, l’omonimo soldato, che come tutti conosceva bene la storia, andò a braccio e anche per compiacere il giornalista offrì una versione romanzata dei fatti, quello che voleva sentire.

Mario Teran

A Montero, dove ancora oggi vive Mario Teran, c’è una cultura contadina molto semplice, dove “farsi belli” di fronte agli altri è qualcosa di impensabile. Il vero Mario Teran non ama parlare di quell’episodio ma assicura che nessuno gli ordinò di uccidere il Che, fu lui a offrirsi volontario perché poco tempo prima la guerrila aveva ucciso il caporale Kalani, il suo migliore amico, e altri soldati dell’esercito boliviano, tutti giovanissimi.

Si trovano molti resoconti di quelle ultime ore del Che nelle quali si afferma che gli ufficiali gli fecero bere una bottiglia di Rum affinché si facesse coraggio di fronte alla prospettiva di uccidere il grande uomo. Ciò non corrisponde al vero. Mario Teran era pieno di risentimento: entrò nella baracca dove il Che stava seduto con le gambe appoggiate a un tavolo. Gli avevano sparato alle gambe e la ferita doveva essere molto dolorosa: teneva il capo chino, con una smorfia di dolore. Non alzò mai lo sguardo. Senza tergiversare e certamente senza alcuno scambio di parole con la sua vittima, sparò una prima raffica di mitra, si avvicinò e sentì un rantolo… Saprò una seconda raffica per finirlo, giustiziando quello che per lui era un assassino e non un mito.

La famosa foto di Alberto Korda, icona del 68’, è ancora oggi tra gli scatti più famosi della storia della fotografia e ha contribuito a fare dell’immagine del Che una presenza familiare per diverse generazioni in tutto il mondo. La foto che ritrae Che Guevara morto, altra icona che ricorda il meraviglioso “Cristo morto” del Mantegna (conservato nella Pinacoteca di Brera), fu scattata dopo aver lavato il suo corpo, sistemando anche barba e capelli.

Il Cristo del Mantegna

Certi scatti hanno caratteristiche misteriose e permettono di consegnare al mito il soggetto che riproducono, risultato di un’equazione che combina l’intuizione geniale del fotografo con le circostanze della vita del soggetto in rapporto al momento storico. Magiche coincidenze che, come per le storie d’amore, rimarranno sempre un mistero che fa sognare.

 

Ferdinando Vicentini Orgnani

 

PS

Devo ringraziare il mio amico boliviano, Hugo Acha (ingiustamente perseguitato dal regime di Evo Morales, rifugiato politico a Miami) per tutte le informazioni utili che mi ha fornito e per avermi aiutato focalizzare questa vicenda lontana nel tempo, avendo conosciuto personalmente la maggior parte dei testimoni che ho citato, persino il “boia di Lione” Klaus Barbie, che quando Hugo era un bambino (biondissimo), aveva visto in lui un perfetto esemplare della “razza ariana”.

Dunkirk

E’ risaputo che gli inglesi perdono tutte le battaglie tranne l’ultima. L’ultimo film scritto e diretto da Christopher Nolan tratta forse della più nota tra esse: l’evacuazione dell’intero corpo di spedizione inglese dalle coste francesi tra la fine di maggio ed i primi di giugno del 1940.  La Royal Navy trasse in salvo quasi 340.000 uomini tra inglesi e francesi al prezzo di enormi perdite che ammontarono a circa 200 imbarcazioni e 170 apparecchi. Ma d’altro canto, come ebbe a dire il contrammiraglio Andrew Cunningham, comandante in capo della flotta del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale, “Ci vogliono tre anni alla Marina per costruire una nave. Ce ne vogliono trecento per ricostruire una reputazione.” Sì perché Dunkirk non fu né la prima e né l’ultima volta che la Royal Navy dovette evacuare l’esercito per toglierlo dai guai. Accadde in Norvegia pochi mesi prima, e poi in Grecia quasi un anno dopo. Per quel tempo la marina chiamava l’esercito con l’appellativo di “gli evacuati” (e parafrasava l’acronimo della Royal Air Forse in Royal Advertising Force, reputando a torto che lo sforzo massimo si traduceva nell’affissione di manifesti per il reclutamento). Tra le evacuazioni quella di Dunkirk fu però  un evento di scala massima nelle vicende della seconda guerra mondiale tanto da indurre Nolan a dedicargli questo film.

Le truppe degli alleati in attesa di imbarcarsi sulle navi di salvataggio che li avrebbero portati in Inghilterra

La costruzione della storia è ingegnosa e raffinata. La sceneggiatura non segue un percorso temporale lineare ma è congegnata in modo che momenti diversi si succedono in una logica narrativa che procede contemporaneamente in avanti ed a ritroso per convergere in un unico momento topico che si svelerà nel finale. Il tema della circolarità del tempo affrontato da Nolan in “Interstellar” diviene qui la struttura stessa del film con un effetto veramente originale. La percezione dell’immane tragedia della guerra è raccontata tramite le microstorie di tanti piccoli protagonisti che vivono in terra in mare e in cielo gli orrori di quei giorni. Una scelta sineddotica che utilizza il particolare per suggerire il quadro del tutto. Un obbiettivo che il regista persegue senza però realizzarlo appieno. Adottando sempre e solo il punto di vista del singolo il film non riesce a restituire l’immane scala degli eventi. Mancano insomma le scene con squadroni di aerei, migliaia di uomini e centinaia di navi. Forse è una scelta registica ma vi è il sospetto che la Syncopy sia stata sparagnina nel dotare la produzione di mezzi per farci vedere decine di relitti incagliati ed interi stormi si Stukas in picchiata. Raffrontandolo a “Pearl Harbour“, epurando per carità la stucchevole storia d’amore, mancano le scene grandiose dei bombardamenti, la soggettiva delle bombe che cadono, il porto in fiamme, il caos dei feriti e delle esplosioni. In “Dunkirk” anche i bombardamenti sono in tono minore, si vedono gli sbuffi d’acqua e le esplosioni, ma gli aerei sono massimo un paio ed in molte sequenze ci tocca immaginarceli senza vederli. Anche la precisione della ricostruzione storica ne soffre e questo è comprensibilmente scusabile se ci riferiamo ai mezzi navali militari, ma lo schema di colori dei Messeschmitt BF 109 con il muso giallo come erano invece in uso sul fronte orientale pare inammissibile.

Christopher Nolan e Fionn Whithead

Ineccepibile invece la recitazione tra cui spicca il giovane Fionn Whitehead nelle parti di Tommy (non a caso un eponimo del soldato inglese) attraverso le cui vicissitudini lo spettatore assiste alle tante microstorie che compongono il film. Abituée dei film di Nolan dai tempi di Batman c’è Cilian Murphy un caratterista capace di dare spessore ad ogni ruolo.  Kenneth Branagh ha la giusta età per impersonare un contrammiraglio, mentre al posto di Tom Hardy nella parte di un pilota di Spitfire poteva benissimo esserci vostro cognato perché tanto è stato con la maschera per l’ossigeno, cuffia ed occhiali di volo per tutto il tempo. Assodato il sodalizio con Hans Zimmer per le musiche è da notare in questo film l’uso della colona sonora come se fosse un vero e proprio effetto acustico, con temi incalzanti  che suggeriscono un pericolo costante ed incipiente e suoni che sembrano macchinari a ricordare come ormai la guerra è un affare di macchine riguardo la quale chissà se l’ammiraglio Nelson confermerebbe la sua affermazione “Gli uomini combattono, non le navi“. L’aspetto acusmatico raggiunto è sorprendentemente coinvolgente anche se la costante reiterazione nell’intera durata del film ne lenisce un po’ l’effetto a lungo andare.

Cillian Murphy

Nel complesso è un buon film ma siamo lontani dall’opera definitiva su Dunkirk. Tutte le vicende narrate rimangono come tante perle a cui Tommy non riesce di essere il filo che le lega a formare un’unica collana. La trama non solo non rende la grandezza degli accadimenti nella scala che meritano ma è afflitta anche da alcune gigionerie come ad esempio quella di Branagh che in una narrazione che è tutto al di fuori che epica, guarda nel binocolo e, vedendo i natanti che dall’Inghilterra giungono ad imbarcare i soldati,  pronuncia le parole  “Vedo la patria”; oppure la tanto fine quanto surreale disquisizione filosofica sulla sopravvivenza tra i soldati su un relitto che affonda. Vi sono poi palesi violazioni del principio “show don’t tell” in cui un paio di personaggi per farsi conoscere devono raccontarsi poiché dalle immagini il regista non ci fa trapelare molto di loro. Anche della vicenda storica in sé non si apprende poi molto e c’è rischio che per chi non vada già “studiato” al cinema gli apparirà come un film  intimista sulla guerra e gli effetti devastanti che essa ha sulle persone. Peccato che su questo tema Terrence Malik abbia già fatto quasi vent’anni fa il magnifico “La sottile linea rossa“.

 

 

La battaglia di Hacksaw Ridge

L’ultima fatica di Mel Gibson in veste di regista e, almeno in parte, come produttore, narra le vicende del primo obbiettore di coscienza americano ad essere stato decorato con la medaglia d’onore del Congresso degli Stati Uniti. Desmond Doss, interpretato da Andrew Garfield, è il figlio di un veterano della prima guerra mondiale (Hugo Weavings). E’ un padre sconvolto e trasformato dall’esperienza bellica che si rifugia nell’alcol e che indulge alla violenza contro la moglie ed i due figli. Per contrasto il giovane Desmond matura una profonda fede che fa il paio con il rifiuto per le armi, che non gli impediranno però di arruolarsi volontario per servire il proprio paese. Ma il suo peculiare sistema di valori gli crea evidenti problemi con l’esercito apparentemente incapace di gestire una così strana e tenace risoluzione. Tant’è che quando viene il momento di partire per la guerra siamo già al maggio 1945 e la guerra è quasi bella che finita (grazie a quelli che sparavano davvero).

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Dal lontano 1993 con “L’uomo senza volto” sino all’ormai non tanto recente “Apocalypto” ho trovato sempre elementi di originalità nei film di Mel Gibson, che mostra un talento più poliedrico quando dirige che non quando recita. Nel suo ultimo lavoro invece l’originalità sembra essere la prima vittima che nemmeno l’eroico Desmond Doss è riuscito a salvare. Se da un lato è da apprezzare la ricerca di una dimensione eroica differente per un’America sempre ancora molto giovane che sia un’alternativa al solito buon soldato cui ci ha abituato negli anni la cinematografia americana, tra cui ricordiamo almeno tre esempi con Oliver Stone (“Platoon“), Steven Spielberg (“Salvate il Soldato Ryan“) e Brian De Palma (“Victim of Wars“); dall’altro l’esperimento pacifista cozza vistosamente con una realtà di guerre quasi ininterrottamente combattute dagli Stati Uniti in tutto il mondo dalla seconda guerra mondiale ai giorni nostri, delle quali molte scatenate dagli stessi americani.

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Il dramma delle perdite è poi sintomatico della cultura americana i cui media ne hanno da sempre amplificato l’impatto emotivo nell’opinione publica. Si pensi che gli americani ebbero nella battaglia di Okinawa, di cui Hacksaw Bridge è un episodio, 4.000 caduti contro i 110.000 dei giapponesi. Nella sola battaglia di Verdun durante la prima guerra mondiale francesi e tedeschi ebbero complessivamente più caduti  di quanti quelli dubiti dall’intero esercito americano nel corso della prima e seconda guerra mondiale assieme. Gibson aiuta gli americani a guardare la guerra con il binocolo all’incontrario, che ingigantisce ciò che li riguarda e sminuisce ciò che attiene al nemico (di ben altra caratura il dittico di Clint Eastwood sulla guerra nel Pacifico) .

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Dal punto di vista narrativo il film è nettamente diviso in due parti, alla moda di “Full metal Jacket” di Stanley Kubrick, e ciascuna rappresenta un catalogo di citazioni che non lasciano spazio ad alcuna proposizione originale. Ci si ritrova “Pearl Harbour” nell’infermiera Dorothy (Teresa Palmer), fidanzata e poi moglie di Desmond; c’è il sergente duro ma umano di “Gunny“, interpretato da un convincente Vince Vaughan; c’è la corte marziale di “Victim Of Wars” , qui un po’ da operetta con tanto di interruzione del papà con uniforme e agghindato di medaglie che da ubriacone si trasforma in un fine oratore.

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Nella seconda parte c’è un po’ di “La Sottile Linea Rossa” di Terrence Malick (ma senza la medesima maestria delle immagini), evidente nella sfilata di macilenti camerati mentre tornano dalla prima linea con in testa un carro Sherman che rivedremo più volte nel film (visto che ormai lo avevano noleggiato) e che non si capisce a cosa possa servire dal momento che la scarpata da scalare è così ripida che bisogna arrampicarsi su una scala di corda; ci sono scene di combattimento cruente e ravvicinate come in “Windtalkers“, ferite allucinanti e corpi smembrati come in “Salvate il soldato Ryan” (ma senza un montaggio così perfettamente serrato); c’è la richiesta di bombardare la propria posizione perché l’attacco non è più arginabile come avviene in “Platoon“; non può mancare “Il giorno più lungo” rievocato dal capitano Glover (Sam Worthington) che nonostante gli sia rimasta solo una manciata di uomini decide di salire nuovamente sulla scala di corda per conquistare il crinale e che se ne esce con un “Andiamo a finire il lavoro” che è roba da alzarsi e chiedere il rimborso del biglietto.

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Insomma ci sono tutti i film già visti, l’unico che manca è proprio quello di Gibson. Trascorsi 131 minuti di cui metà a fare su e giù da una scala di corda che non si sa chi ha mai messo (forse una cortesia degli stessi giapponesi), alla fine il film finisce senza spiegare perché mai con meno uomini e più provati sono riusciti a fare ciò che avevano fallito quando erano di più e ancora pimpanti.

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Anche il messaggio veicolato per cui esistono eroi senza macchia che combattono senza il fucile non regge ad un esame logico per cui se non ci fossero quelli con il fucile (in un rapporto astronomicamente più elevato tocca dire), non ci sarebbero obbiettori di coscienza a poter fare gesta mirabolanti. Peccato perché tutto il cast recita in maniera impeccabile e sorprende piacevolmente Garfield, a suo agio in questo film tanto come in Spider-man e come prelato gesuita. Il problema non sono quindi gli attori ma pare circoscritto alla scrittura ed alla regia. Per cui l’unico vero elemento da salvare è un’indicazione pratica, ovvero che se siete dei giapponesi e dovete respingere uno sbarco nemico è opportuno tagliare la scala di corda che pende dalla scogliera.

Cannes: la Palma che si mangiò il Leone

I fondatori del celeberrimo festival di Cannes stavano tornando dalla ben più antica Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia quando gli venne l’idea di replicare qualcosa di simile nel sud della Francia.

Philippe Erlanger
Philippe Erlanger

Era il 1938 ed i due personaggi erano Philippe Erlanger e René Jean. La manifestazione Veneziana si teneva a quel tempo al Lido nel periodo tra il 06 e il 21 agosto. Già la scelta del mese la dice lunga sulla lungimiranza italiana, infatti agosto è un mese del’anno molto più stabile rispetto a maggio , in cui oggi si tiene il festival di Cannes e dove piove quasi automaticamente. Il Leone di Venezia non era una faccenda glamour e quasi industriale come gli Oscar americani, ma dichiaratamente consacrava il cinema all’arte già nella sua denominazione di “mostra” (diciamo pure però che nel 32 quando nacque non si sarebbe potuta usare una parola straniera come festival), tipicamente attinente alle arti. I francesi nel mezzogiorno della Francia identificarono la cittadina turistica di Cannes con il suo antico porto e la cittadella storica arroccata su di un promontorio per lanciare il loro festival concorrente. Il presidente sarebbe stato niente di meno che Louis Lumière ed avrebbero partecipato star americane del calibro di Tyron Power e Gary Cooper. Tutto bene  se non per la data improvvida dell’inaugurazione fissata per il 1 settembre del 1939. Lo stesso giorno in cui Hitler decise di far scoppiare la seconda guerra mondiale. Di ironica veggenza parvero dotati invece i cineasti russi che al concorso avrebbero voluto far partecipare la loro opera dal titolo tristemente profetico “Esli Zautra Voyna” (Se Domani Scoppiasse La Guerra). Tutto rimandato quindi al 20 settembre del 1946, ma la selezione è quanto mai ricca e prestigiosa. Vi partecipano infatti “Notorius” di Alfred Hitchcock, “Roma Città Aperta” di Rossellini, “Gilda” di Charles Vidor e “Breve Incontro” di David Lean, denotando sin da subito un respiro veramente internazionale che aveva saputo superare i rancori del conflitto appena terminato.

Cannes-2013

Simbolo e premio reificato del festival diventa nel 1954 la “Palma”, sotto la cui ombra si passeggia nella celebre Croisette. La rassegna diventerà una competizione però solo nel 1960 quando il grande scrittore Georges Simenon convince i giurati a premiare “La Dolce Vita” di Federico Fellini. Negli ultimi quarantanni Cannes è cresciuto progressivamente nella stessa misura in cui si è eclissata la nostra Mostre d’arte cinematografica di Venezia. A fertilizzare questa vivida crescita sono state polemiche e conflitti che hanno mantenuto la manifestazione all’altezza dei tempi e soprattutto del cinema. Non si snobbano infatti opere definite “popolari” come il “Robin Hood” di Ridley Scott, che convive benissimo nel tempo a fianco di capolavori impegnati come “Paris Texas” di Wim Wenders o “Lezioni di Piano” di Jane Campion. Persino ( o soprattutto) un film scomodo in patria come “Apocalypse Now” di Coppola fu presentato a Cannes. Insomma tutto, purché sia cinema.

Il cinema degli esordi in Francia: una questione di fratelli

Se i Lumiere sono senzaltro i più famosi non sono però gli unici fratelli francesi che hanno contribuito all’industria cinematografica del proprio paese. Nel 1896 Charles, Emile, Jacques e Théophile Pathè fondano a Vincennes la omonima società e girano delle slapstick comedy  (come si chiamavano le comiche prima che noi le chiamassimo così) ispirate a Mack Sennet , l’autore canadese definito il re della commedia. I teatri di posa sono simili a delle serre con grandi vetrate in modo da poter godere della massima luce naturale possibile.

gli studi di posa Pathé
gli studi di posa Pathé

PATHE

Il simbolo della società è un gallo che canta al sorgere del sole con regolarità pari a quella dei quotidiani e infatti la Pathé si specializzerà nei cinegiornali di attualità che distribuirà in Inghilterra, in Germania ed anche oltre oceano. D’altro canto il sonoro era ancora al di là da venire e quindi la localizzazione dei programmi era ancora molto semplice e si sostanziava nella sostituzione dei cartelli di testo. L’idea si dimostrò vincente tanto che durante la prima guerra mondiale i “Pathe News” opportunamente tradotti diventeranno popolari in tutti gli stati Stati Uniti.

sul set di Le Prodezze di Elaine
sul set di Le Prodezze di Elaine

Ai cinegiornali con cadenza settimanale la Pathé affianca anche i serial, un genere molto popolare nella primo quarto del secolo scorso e produce “The Exploits Od Eleaine” (Le Prodezze Di Elaine) interpretata da Pearl White (Perla Bianca, un nome che si poteva proporre senza ridere solo a quell’epoca). Purtroppo, malgrado qualche buon film come “I Miserabili” girato da Raymond Bernard la società non riesce a reggere la concorrenza degli studios americani negli States e della Gaumont in patria per cui non potrà evitare la bancarrotta nel 1939 alle soglie della seconda guerra mondiale. Rinasce però subito dopo le ostilità producendo grandi film che sono rimasti nella storia del cinema come “Amanti Perduti” di Marcel Carné e “Il Silenzio è d’oro” di René Clair . Un’attività che continua anche negli anni settanta con coproduzioni cisalpine quali “La Dolce Vita” di Federico Fellini e “Il Gattopardo” di Luchino Visconti. Gli anni ottanta e novanta sono invece un lungo letargo che conducono ad una ritrovata vitalità all’inizio di questo secolo in cui la Pathé oltre alla produzione consolida la propria posizione anche tra gli esercenti delle sale cinematografiche e tra le case di distribuzione internazionale.

Prima di Hollywood la mecca del cinema era il New Jersey

I primi teatri di posa  sorsero nell’est degli Stati Uniti e principalmente nel New Jersey a Fort Lee e a New York. Poco dopo ne comparvero altri a Chicago, a Philadelphia e persino nel Midwest. A quei tempi le riprese erano fortemente condizionate dalla scarsa sensibilità della pellicola 35 mm Kodak ed erano quindi vincolate alla disponibilità dalla luce solare, così che la maggior parte delle scene era girata in esterno o in studi di posa con grandi vetrate.

Il Black Maria di Edison
Il Black Maria di Edison

Il primo e più famoso di questi studi fu il Black Maria di Edison che, aperto in alto e sul lato frontale, poteva essere ruotato per meglio captare la luce solare. Il nome così singolare deriva dal nomignolo attribuito informalmente al cellulare (a quei tempi trainato dai cavalli) con cui la polizia trasportava i criminali ed a cui la struttura dello studio somigliava fortemente. Per poter girare per più ore anche nei mesi invernali alcune società migrarono verso latitudini più meridionali. Le società dell’est predilessero la Florida, mentre quelle di Chicago e del Midwest si diressero in California.

la sede della Selig situata a Chicago al 3900 N. Claremont
la sede della Selig situata a Chicago al 3900 N. Claremont

Nel 1908 la prima società ad inviare una troupe a Los Angeles fu la Selig Polyscope Company di Chicago, fondata da William Selig già nel 1896 e nota per aver lanciato nomi destinati alla leggenda quali Tom Mix, Harold Lloyd, Colleen Moore e Roscoe “Fatty” Arbuckle,  che l’anno successivo costruì il primo teatro di posa nel sobborgo di Edendale. Nel 1909 fu la volta della New York Motion Pictures Co. ad optare per la California in luogo della Florida e nell’inverno del 1910 anche la American Biograph , che girava su l tetto del Roosvelt Building al 841 Broadway a Manhattan inviò Griffith a lavorare a Los Angeles.

Il Roosvelt Building
Il Roosvelt Building

La California vinse il confronto con la Florida grazie ad un clima più asciutto che garantiva potenzialmente un numero maggiore di giornate di lavoro. Inoltre la California disponeva di una varietà maggiore di location naturali quali il deserto, le montagne con le foreste ed i campi coltivati che difettavano alla Florida, dove ad esempio non si potevano girare film western un genere che diventava sempre più popolare. Infine nello stato della California le norme dell’accordo di cartello della MPPC (Motion PIctures Patent Company) non avevano valore legale, per cui molte società indipendenti, tra cui la Universal di cui si è già parlato in questa testata fu la prima, poterono produrre e distribuire liberamente i propri film.

Hollywood come appariva nel 1910
Hollywood come appariva nel 1910

Anche se la municipalità di Hollywood non era l’unico posto dove sorsero gli studi di posa il suo nome finì per diventare eponimo dell’industria cinematografica americana e questo anche se per qualche tempo ancora gli uffici direttivi delle case di produzione rimasero stanziati per lo più a New York, vicino a Broadway che continuò ad essere per il teatro ciò che la nuova mecca era divenuta per il cinema..