Munir (Georges Khabbaz), uno scrittore arabo in esilio si reca su un’isola remota in Germania con l’intenzione di togliersi la vita. Lì, l’incontro con Valeska (Hanna Schygulla), un’anziana signora, riaccende in lui il desiderio di vivere.
Il tema della perdita dell’identità e della memoria è centrale in Yunan. Il dialogo telefonico tra Munir e la madre malata di Alzheimer è uno dei momenti più significativi per comprendere questa dimensione. Il fatto che la madre non ricordi di avere un figlio non è solo un dramma personale per Munir, ma diventa il simbolo della sua stessa crisi identitaria. In quel momento, Munir non è più riconosciuto nemmeno da colei che gli ha dato la vita, amplificando il suo senso di smarrimento e alienazione.
Questo passaggio riflette anche la frattura tra passato e presente che spesso affligge chi vive l’esilio. Munir non solo è fisicamente lontano dalle sue radici, ma sembra perdere anche il legame affettivo e simbolico con esse. La malattia della madre diventa quindi una potente metafora della cancellazione della memoria e dell’identità, sia personale che collettiva. L’isola su cui si rifugia, con la sua dimensione sospesa e fuori dal tempo, accentua questa sensazione di spaesamento, diventando un luogo in cui Munir può confrontarsi con la propria dissoluzione identitaria ma anche con la possibilità di ricostruirsi, grazie all’incontro con Valeska.
I paesaggi estremi e la simbologia nel film Yunan amplificano il senso di spaesamento e la riflessione sull’identità. I luoghi desolati e freddi riflettono il vuoto emotivo e la perdita di orientamento che il protagonista vive, ma allo stesso tempo offrono un terreno neutro dove può riscoprire se stesso, lontano dalle imposizioni delle origini e delle etichette culturali. La balena spiaggiata è un potente simbolo in questo contesto. Tradizionalmente associata a storie di smarrimento e rinascita (come nel mito di Giona o in Moby Dick), qui può rappresentare l’essere fuori posto, un gigante del mare imprigionato sulla terraferma, proprio come Munir è bloccato tra passato e presente, tra l’identità originaria e quella frammentata dall’esilio. Allo stesso tempo, la balena diventa anche metafora della condizione umana: vulnerabile, sola e vittima delle forze esterne che la sovrastano suggerendo la necessità di superare le barriere e le identificazioni nazionali. Il film sembra sottolineare che l’identità non è un’entità fissa legata a un luogo o a una cultura, ma qualcosa di fluido che può rinascere anche dopo l’isolamento o la perdita.
In quest’ottica, l’incontro con l’“altro” (Valeska) e il confronto con la natura estrema diventano momenti chiave per la ricostruzione di un senso di appartenenza che va oltre confini geografici o culturali.
Presentato in concorso alla 75ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2025.
Miriam Dimase