C’è un momento, nel processo creativo, in cui la tecnologia smette di essere un mezzo e diventa interlocutore. Il cinema, più di ogni altra arte, conosce bene questo confine mutevole. Oggi, con l’arrivo dell’intelligenza artificiale, quel confine si dissolve del tutto: non è più la macchina a servire la visione del regista, ma è la visione stessa a essere ridefinita dal dialogo con la macchina.
L’AI dietro la macchina da presa
Negli ultimi anni l’IA è entrata silenziosamente nei set, nei software di montaggio e nelle stanze di scrittura. Oggi può generare storyboard, simulare attori, creare ambienti digitali basati sull’analisi emotiva dei dialoghi.
Strumenti come Runway, Sora o Synthesia stanno trasformando la produzione audiovisiva in un laboratorio dove il limite tra sperimentazione e produzione si assottiglia. Le immagini non si “girano” più, si generano. E la fase di post-produzione, un tempo lunga e costosa, può oggi avvenire in tempo reale, con risultati sorprendenti.
Tuttavia, questo è vero solo in parte. I software di AI hanno costi elevati e, soprattutto, richiedono professionisti formati in grado di governarli con competenza e sensibilità artistica. La macchina non sostituisce il talento: lo amplifica, ma solo se guidata da chi conosce il linguaggio visivo e la grammatica del racconto.
L’IA non abbatte del tutto i costi: li sposta.
Riduce il tempo di alcune fasi tecniche, ma introduce nuove figure specializzate — artisti digitali, prompt designer, data artist, creativi ibridi — che oggi rappresentano la vera risorsa strategica del cinema contemporaneo.
Il futuro non sarà fatto di meno persone, ma di persone diverse, capaci di dialogare con la tecnologia senza perdere la centralità dello sguardo umano.
E forse è proprio qui che si gioca la sfida più affascinante.
Perché al di là dell’efficienza tecnica, l’intelligenza artificiale sta modificando il linguaggio stesso del cinema: non solo come strumento, ma come grammatica narrativa. Gli algoritmi imparano dalle emozioni umane, ma restituiscono qualcosa di nuovo — una sensibilità sintetica, dove logica e intuizione si intrecciano, dando vita a una forma inedita di espressività visiva.

L’AI come protagonista
L’intelligenza artificiale non è solo dietro la camera: è anche, sempre più spesso, davanti allo schermo. Dalle prime utopie di Metropolis e Blade Runner fino ai più recenti Her o Ex Machina, il cinema ha sempre interrogato la natura dell’umano attraverso la lente dell’artificiale.
Oggi, però, stiamo assistendo a un cambio di paradigma. L’AI non è più rappresentata solo come minaccia o antagonista: diventa specchio, compagno, e talvolta anche testimone della fragilità umana. In molte narrazioni contemporanee, la macchina non vuole sostituirci, ma comprenderci.
Nel mio lavoro come regista e autrice, ho sperimentato questa transizione da vicino. Con il docufilm Io Salvatore – AI Revolution, Prime Video, ho esplorato il rapporto tra tecnologia e territorio, tra progresso e identità. In quel contesto, l’intelligenza artificiale non è un personaggio di fantascienza, ma un riflesso delle nostre contraddizioni: la ricerca di controllo e, insieme, il desiderio di redenzione. L’AI diventa così una voce collettiva, una coscienza che osserva l’uomo nei suoi fallimenti e nelle sue possibilità di rinascita.
Autorialità, etica e responsabilità
Uno dei temi più discussi oggi è quello dell’autorialità. Se un algoritmo scrive una scena o genera un’immagine, chi ne è l’autore? La risposta non è semplice. Il cinema è sempre stato un’arte collettiva, ma l’ingresso dell’IA cambia le regole del gioco.
Il rischio non è tanto quello di perdere il “controllo creativo”, quanto di smarrire la consapevolezza del processo. L’IA è uno strumento potentissimo, ma non possiede intenzione. È l’essere umano a doverle dare direzione, senso, etica. La responsabilità del racconto resta profondamente umana.
C’è poi il tema, altrettanto urgente, della verità visiva. Deepfake, attori digitali, identità ricreate: il cinema si confronta con la possibilità di manipolare la realtà in modo indistinguibile. In un’epoca in cui l’immagine è il primo veicolo di informazione, la domanda diventa politica oltre che artistica: come garantire autenticità in un mondo dove tutto può essere generato?
L’autorialità nell’era dell’IA
Nel cinema, la legge impone che ne sia chiaro l’impiego e che resti riconoscibile la mano umana che ne guida il risultato. Non esiste ancora una normativa definitiva: siamo in una fase di assestamento, dove la creatività corre più veloce del diritto. Non tutti i Paesi hanno la stessa visione:
In Europa, prevale la tutela dell’autore umano.
Negli Stati Uniti, il dibattito è aperto: la U.S. Copyright Office ha stabilito che “le opere create interamente da IA non sono protette”, ma accetta di registrare opere “miste” se c’è un contributo creativo umano sostanziale.
In Asia (Cina, Corea, Giappone), alcune proposte legislative mirano a riconoscere l’IA come “strumento d’autore” in determinate condizioni, ma non come autore autonomo.
Il diritto d’autore, come il cinema stesso, sta dunque attraversando una fase di ridefinizione profonda.
Serve tempo perché la legge impari a dialogare con la creatività, riconoscendo che dietro ogni algoritmo c’è ancora una mente, uno sguardo e una sensibilità umana.
Solo allora potremo parlare di una vera armonia tra innovazione e autorialità, dove la tecnologia non limita, ma amplifica l’atto creativo.
Un’estetica ibrida e post-umana
Eppure, accanto ai timori, c’è una bellezza nuova che emerge. L’incontro tra umano e artificiale sta dando vita a un’estetica inedita: ibrida, sensoriale, fluida. Le atmosfere generate dall’IA non imitano semplicemente la realtà, ma la reinventano. Colori, suoni e movimenti assumono una dimensione onirica, quasi pittorica. È un linguaggio in cui la tecnologia diventa emozione, e il dato si trasforma in poesia. È come se il cinema stesse tornando alle sue origini visionarie, quando la meraviglia contava più della perfezione tecnica.
Un nuovo umanesimo digitale
L’intelligenza artificiale non segna la fine del cinema, ma l’inizio di una nuova forma di umanesimo digitale:
un cinema capace di includere, di rendere accessibili le storie e di abbattere le barriere tecniche che un tempo ne limitavano la realizzazione.
Forse, la vera rivoluzione non risiede nella tecnologia, ma nello sguardo che essa ci restituisce.
Uno sguardo che amplifica la sensibilità umana, invitandoci a riscoprire la nostra voce più autentica. Perché, in fondo, nessun algoritmo potrà mai sostituire ciò che rende un racconto eterno: la capacità di emozionare.
Francesca Bochicchio regista, sceneggiatrice e professionista della comunicazione, founder di Checkmate Communication, agenzia pubblicitaria e di produzione cinematografica. Con oltre vent’anni di esperienza nella pubblicità e quindici nell’audiovisivo, ha curato progetti di storytelling per il cinema, il teatro e le web tv. Nel 2024. Ha diretto il docufilm “lo Salvatore Al Revolution”, premiato e
presentato in contesti internazionali di rilievo. Collabora inoltre con giornali di settore come critico cinematografico. Attualmente lavora a un nuovo libro sul marketing contemporaneo per Editoriale Delfino e a due produzioni cinematografiche.

Francesca Bochicchio