I COLORI DEL TEMPO

Titolo originale: La Venue de l’avenir
Cast: Suzanne Lindon, Abraham Wapler, Julia Piaton, Vincent Macaigne, Zinedine Soualem, Paul Kircher, Vassili Schneider, Sara Giraudeau, Cécile De France
Scritto da Cédric Klapisch e Santiago Amigorena
Regia di Cédric Klapisch
Trailer disponibile qui

In un paese della Normandia un progetto di costruzione di un nuovo centro commerciale e relativo parcheggio deve passare sul terreno di un vecchio casale abbandonato. L’azienda incaricata dei lavori contatta quindi tutti i possibili eredi della casa: un numeroso gruppo di perfetti sconosciuti ma tutti discendenti di Adèle Meunier. La donna, che aveva abitato quella casa fino alla fine dell’Ottocento, si rivelerà una figura importantissima nella ricostruzione del passato, non solo della famiglia ma di un pezzo di storia dell’arte francese. Quattro eredi in particolare metteranno insieme i pezzi di quella vita attraverso i dipinti, le fotografie e le lettere che recuperano nella casa e con cui riusciranno a mettere insieme la vita di Adèle e la loro.

Cédric Klapisch dirige una commedia francese a tutto tondo: c’è l’umorismo sottile dei personaggi (sia del passato che del presente) ma anche la riflessione sociale sulla società contemporanea, sempre troppo presa a guardare avanti e mai indietro. Il tutto nel classico stile elegante, ironico e molto umano del cinema d’oltralpe.
I protagonisti del film percorrono le stesse tappe in epoche storiche differenti, spinti dall’unico obiettivo di ricostruire la storia della propria famiglia. In questo modo le vicende si intrecciano tramite continui flashback e salti temporali che risultano comunque sempre molto fluidi, quasi a imitare le pennellate degli impressionisti francesi (altri grandi protagonisti della pellicola). Ogni scena immortala quel particolare momento storico e irripetibile.

Klapisch non firma solo un semplice film, ma una vera e propria dichiarazione d’amore alla Francia e alla Belle Époque dove i cliché non mancano e anzi sono dichiarati, ma forse perché, come disse Woody Allen: “I cliché sono cliché perché sono veri.”

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, I COLORI DEL TEMPO uscirà nelle sale dal 13 novembre e sarà distribuito da Teodora Film.

 

 

 

 

Francesca De Santis

“La casa dalle finestre che ridono” e il volto oscuro dell’Italia rurale

Nel panorama del cinema horror italiano, pochi titoli riescono a evocare un senso di inquietudine profonda come La casa dalle finestre che ridono (1976), diretto da Pupi Avati. Un film che, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita al cinema, è diventato un cult assoluto nel genere gotico rurale, scolpendo indelebilmente un posto nella memoria collettiva degli appassionati.

Un horror che parla italiano

Añorando estrenos: 'La casa dalle finestre che ridono' de Pupi AvatiStefano è un giovane restauratore chiamato in un paesino della Bassa padana per riportare alla luce un affresco inquietante: il martirio di San Sebastiano dipinto da Buono Legnani, artista locale morto suicida. Ma dietro le figure ghignanti del dipinto si cela un mistero che affonda le radici nel passato del paese e nei suoi abitanti.

Se negli anni Settanta l’horror d’oltre oceano viveva una sorta di rivoluzione con film come “Non aprite quella porta” (1974) di Tobe Hooper e Halloween (1978) di John Carpenter che introdussero un approccio più diretto, viscerale e urbano, facendosi metafora delle tensioni sociali di quegli anni, Avati al contrario, sceglie una via più sottile e psicologica.
Il suo male è nascosto, sussurrato, quasi invisibile. Non c’è sangue a fiumi, ma un senso di disagio che cresce lentamente.

Il film si muove allo stesso ritmo del piccolo paese in cui è ambientato: con lentezza calcolata in un’atmosfera opprimente e claustrofobica, in quella “Emilia di notti agitate per riempire la vita, Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire” come direbbero i CCCP.
Il sole estivo, le strade deserte, le case silenziose: tutto contribuisce a creare un senso di disagio che cresce scena dopo scena.

Avati gioca con il non detto, con l’ambiguità, con il sospetto. E quando la verità emerge, è più disturbante di quanto ci si potesse aspettare.

Un’eredità che resiste

L’opera di Avati incarna in modo emblematico lo spirito del cinema indipendente italiano degli anni ’70: una produzione che spesso operava al di fuori dei grandi circuiti commerciali, con budget limitati ma grande libertà creativa.
Questo film dimostra come il cinema indipendente possa riuscire a esprimere originalità e profondità, rivelando spesso una sensibilità artistica che i grandi studios faticano a garantire. La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976) di Pupi Avati | Recensione

In un’epoca come quella che stiamo vivendo ora, in cui i film sembrano spesso fin troppo didascalici e lasciano poco spazio alla riflessione e al ragionamento personale, “La casa dalle finestre che ridono” emerge perché si nutre invece di silenzi, di sguardi, di dettagli. E proprio per questo è ancora oggi considerato uno dei migliori esempi di cinema del terrore italiano che continua a essere studiato, citato e amato. Ha influenzato registi come Dario Argento e anticipato atmosfere che ritroveremo in opere come Twin Peaks di David Lynch.

Oggi, mentre il cinema indie continua a rappresentare un terreno fertile per sperimentazioni e nuovi sguardi, il modello di Avati offre un esempio prezioso di come lavorare sulle atmosfere, sulle sfumature narrative e sulla cura del dettaglio possa produrre opere capaci di resistere nel tempo, trovando il loro pubblico anche a distanza di decenni.

La pellicola invita a riflettere sull’importanza delle produzioni indipendenti come laboratori di innovazione che arricchiscono il panorama cinematografico con voci autentiche e coraggiose.

LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO si trova sia in DVD che in streaming su Amazon prime Video e MYMOVIESONE.

 

 

 

 

Francesca De Santis

“IL CINEMA SECONDO CORMAN” ALLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA

L’edizione 2025 della Festa del Cinema di Roma sarà ricordata dai cinefili irriducibili anche per la raffinata sezione riservata alla “Storia del Cinema”. Tra le tante opere proposte, una nota particolare va dedicata al bel documentario di Giulio Laroni “Il cinema secondo Corman”, proiettato alla Casa del Cinema venerdì 24 ottobre alle 21.30.

Per chi non lo sapesse, Roger Corman, recentemente scomparso, è stato l’icona del cinema low budget (da non confondere col B-movie, come lui stesso teneva a precisare): un cinema creativo, intelligente e coraggioso, capace di sfornare un numero imprecisato di cult movie, tra i quali anche ai meno tifosi diranno qualcosa titoli come “La piccola bottega degli orrori”, “L’odio esplode a Dallas”, “L’uomo dagli occhi ai raggi X”, “Cinque per la gloria” (1964), “Il clan dei Barker” e il ciclo dedicato ad Edgar Allan Poe.

Risultato immagine per documentario di Giulio Laroni

Il film di Giulio Laroni è costruito intorno a una lunga conversazione con Corman, nel suo ufficio di Brentwood a Los Angeles con l’idea, piuttosto audace e originale, di abbinare una tavola rotonda in cui tre personaggi in qualche modo legati a Corman, moderati dal direttore della fotografia Davide Mancori, discutono di cinema partendo dalle suggestioni del maestro del cinema Indie americano. Si tratta di Ruggero Deodato (purtroppo nel frattempo scomparso), considerato l’erede italiano di Corman; Daniele Nannuzzi (il cui padre, Armando, ha lavorato con Corman); e poi ci sono io, Luigi Sardiello, in virtù dei miei studi su Corman e della mia esperienza di sceneggiatore.

Ne è venuta fuori una originale lezione di regia, in cui con la consueta generosità (la stessa che gli ha consentito di far esordire e di far esordire gente del calibro di Coppola, Scorsese, De Niro, Nicholson e molti altri) Roger Corman svela la sua personale grammatica cinematografica e i suoi trucchi del mestiere a un pubblico di ideali allievi.

 

 

 

 

 

Luigi Sardiello