Incominciamo dalla fine: non è un film leggero, ma è un grande film. Ha esordito al Sundance lo scorso febbraio ed è notizia di poco fa che è stato selezionato per la prossima edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia. Il film prende spunto dall’eccidio occorso in un cinema negli Stati uniti nell’estate del 2012 durante la proiezione del film di Batman “The Dark Knight” di Christopher Nolan. Infatti il titolo “Dark Night” si ottiene per sincope, anzi per ectlipsi mi fanno notare i più precisi, facendo cadere la K di “Knight”.
Non si tratta della ricostruzione di quanto accadde in realtà nella cittadina di Aurora, bensì di ipotizzare quale può essere il tessuto sociale dove una pazzia del genere può nascere e svilupparsi sino al suo più tragico epilogo. Il film è ambientato in una cittadina americana tipo, in un quartiere della middle class, ormai neppure più tanto WASP (White Anglo Saxon Protestant), fatto di casette tutte simili con i loro pratini curati ed immensi centri commerciali circondati da sconfinati parcheggi.
Il regista Tim Sutton (alla sua terza prova dopo “Pavillon” del 2012 e “Memphis” nel 2013) segue la vita di sei personaggi nei giorni che precedono la strage. Compito dello spettatore è individuare il possibile psicopatico tra il campionario d’individui che animano lo schermo. Sei vite che galleggiano in un siderale vuoto di relazioni in cui l’attenzione è la merce più rara. La comunicazione è azzerata a beneficio di una costante ricerca dell’evidenza della propria esistenza in vita tramite l’immagine restituita da un media, sia esso uno smartphone oppure un semplice specchio. Le interazioni tra gli esseri umani sono rarefatte e senza qualità, nel senso che quando raramente avvengono esse sono di un’insostenibile superficialità.
Se essere è essere percepiti (esse est percipi sosteneva l’empirista britannico George Berkeley) nessuno in questo film ha la certezza di esistere, neppure la madre seduta sul divano ad un accorto cuscino di distanza dal figlio e sullo sfondo di un doppio specchio che rimanda con un effetto droste l’immagine infinita di un ventilatore a tre pale. Tre sono anche i bulbi luminosi del parcheggio del centro commerciale, che come tre occhi inconsapevoli sono i testimoni muti di quel nulla che accade sotto di loro (e tre occhi ha anche l’inquietante graffito che caratterizza il visual della locandina).
L’occhio è il simbolo chiave che ricorre nel film, come dichiaratamente Sutton annuncia nella prima inquadratura quando ritrae l’occhio di una ragazza che riflette le luci blu e rosse delle auto della polizia, ma è un occhio che guarda e non vede, è uno strumento umano che sembra riconoscere come vere solo la virtualità di un videogame, di google map o di una chat, piuttosto che la realtà non mediata che si svolge dinnanzi a sé. Infatti uno dei personaggi dirà ad un certo punto “le persone non sono reali, solo la natura è reale e pericolosa”. Una sintesi dell’esistenza dove la crudeltà è dover interagire con il reale e l’omicidio è quindi un atto pietoso di liberazione dalla impossibilità di essere percepito. Non meraviglia quindi che ciascuno dei personaggi proposti è più che eleggibile a sterminatore e per questo non è tanto interessante alla fine capire chi in particolare ha compiuto l’eccidio, ma è prendere atto dell’iperbole antropologica proposta da Sutton con un linguaggio filmico di grande livello, basato su immagini e sequenze precise e asciutte senza alcun fronzolo o autocompiacimento per la bella fotografia (che comunque c’è).
Sì perché c’è da augurarsi che il film voglia essere proprio una figura retorica e che l’America non abbia raggiunto davvero un livello di così disperata aberrazione. Non prima almeno che Donald Trump diventi presidente.
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