I COLORI DEL TEMPO

Titolo originale: La Venue de l’avenir
Cast: Suzanne Lindon, Abraham Wapler, Julia Piaton, Vincent Macaigne, Zinedine Soualem, Paul Kircher, Vassili Schneider, Sara Giraudeau, Cécile De France
Scritto da Cédric Klapisch e Santiago Amigorena
Regia di Cédric Klapisch
Trailer disponibile qui

In un paese della Normandia un progetto di costruzione di un nuovo centro commerciale e relativo parcheggio deve passare sul terreno di un vecchio casale abbandonato. L’azienda incaricata dei lavori contatta quindi tutti i possibili eredi della casa: un numeroso gruppo di perfetti sconosciuti ma tutti discendenti di Adèle Meunier. La donna, che aveva abitato quella casa fino alla fine dell’Ottocento, si rivelerà una figura importantissima nella ricostruzione del passato, non solo della famiglia ma di un pezzo di storia dell’arte francese. Quattro eredi in particolare metteranno insieme i pezzi di quella vita attraverso i dipinti, le fotografie e le lettere che recuperano nella casa e con cui riusciranno a mettere insieme la vita di Adèle e la loro.

Cédric Klapisch dirige una commedia francese a tutto tondo: c’è l’umorismo sottile dei personaggi (sia del passato che del presente) ma anche la riflessione sociale sulla società contemporanea, sempre troppo presa a guardare avanti e mai indietro. Il tutto nel classico stile elegante, ironico e molto umano del cinema d’oltralpe.
I protagonisti del film percorrono le stesse tappe in epoche storiche differenti, spinti dall’unico obiettivo di ricostruire la storia della propria famiglia. In questo modo le vicende si intrecciano tramite continui flashback e salti temporali che risultano comunque sempre molto fluidi, quasi a imitare le pennellate degli impressionisti francesi (altri grandi protagonisti della pellicola). Ogni scena immortala quel particolare momento storico e irripetibile.

Klapisch non firma solo un semplice film, ma una vera e propria dichiarazione d’amore alla Francia e alla Belle Époque dove i cliché non mancano e anzi sono dichiarati, ma forse perché, come disse Woody Allen: “I cliché sono cliché perché sono veri.”

Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, I COLORI DEL TEMPO uscirà nelle sale dal 13 novembre e sarà distribuito da Teodora Film.

 

 

 

 

Francesca De Santis

“La casa dalle finestre che ridono” e il volto oscuro dell’Italia rurale

Nel panorama del cinema horror italiano, pochi titoli riescono a evocare un senso di inquietudine profonda come La casa dalle finestre che ridono (1976), diretto da Pupi Avati. Un film che, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita al cinema, è diventato un cult assoluto nel genere gotico rurale, scolpendo indelebilmente un posto nella memoria collettiva degli appassionati.

Un horror che parla italiano

Añorando estrenos: 'La casa dalle finestre che ridono' de Pupi AvatiStefano è un giovane restauratore chiamato in un paesino della Bassa padana per riportare alla luce un affresco inquietante: il martirio di San Sebastiano dipinto da Buono Legnani, artista locale morto suicida. Ma dietro le figure ghignanti del dipinto si cela un mistero che affonda le radici nel passato del paese e nei suoi abitanti.

Se negli anni Settanta l’horror d’oltre oceano viveva una sorta di rivoluzione con film come “Non aprite quella porta” (1974) di Tobe Hooper e Halloween (1978) di John Carpenter che introdussero un approccio più diretto, viscerale e urbano, facendosi metafora delle tensioni sociali di quegli anni, Avati al contrario, sceglie una via più sottile e psicologica.
Il suo male è nascosto, sussurrato, quasi invisibile. Non c’è sangue a fiumi, ma un senso di disagio che cresce lentamente.

Il film si muove allo stesso ritmo del piccolo paese in cui è ambientato: con lentezza calcolata in un’atmosfera opprimente e claustrofobica, in quella “Emilia di notti agitate per riempire la vita, Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire” come direbbero i CCCP.
Il sole estivo, le strade deserte, le case silenziose: tutto contribuisce a creare un senso di disagio che cresce scena dopo scena.

Avati gioca con il non detto, con l’ambiguità, con il sospetto. E quando la verità emerge, è più disturbante di quanto ci si potesse aspettare.

Un’eredità che resiste

L’opera di Avati incarna in modo emblematico lo spirito del cinema indipendente italiano degli anni ’70: una produzione che spesso operava al di fuori dei grandi circuiti commerciali, con budget limitati ma grande libertà creativa.
Questo film dimostra come il cinema indipendente possa riuscire a esprimere originalità e profondità, rivelando spesso una sensibilità artistica che i grandi studios faticano a garantire. La Casa Dalle Finestre Che Ridono (1976) di Pupi Avati | Recensione

In un’epoca come quella che stiamo vivendo ora, in cui i film sembrano spesso fin troppo didascalici e lasciano poco spazio alla riflessione e al ragionamento personale, “La casa dalle finestre che ridono” emerge perché si nutre invece di silenzi, di sguardi, di dettagli. E proprio per questo è ancora oggi considerato uno dei migliori esempi di cinema del terrore italiano che continua a essere studiato, citato e amato. Ha influenzato registi come Dario Argento e anticipato atmosfere che ritroveremo in opere come Twin Peaks di David Lynch.

Oggi, mentre il cinema indie continua a rappresentare un terreno fertile per sperimentazioni e nuovi sguardi, il modello di Avati offre un esempio prezioso di come lavorare sulle atmosfere, sulle sfumature narrative e sulla cura del dettaglio possa produrre opere capaci di resistere nel tempo, trovando il loro pubblico anche a distanza di decenni.

La pellicola invita a riflettere sull’importanza delle produzioni indipendenti come laboratori di innovazione che arricchiscono il panorama cinematografico con voci autentiche e coraggiose.

LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO si trova sia in DVD che in streaming su Amazon prime Video e MYMOVIESONE.

 

 

 

 

Francesca De Santis

“IL CINEMA SECONDO CORMAN” ALLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA

L’edizione 2025 della Festa del Cinema di Roma sarà ricordata dai cinefili irriducibili anche per la raffinata sezione riservata alla “Storia del Cinema”. Tra le tante opere proposte, una nota particolare va dedicata al bel documentario di Giulio Laroni “Il cinema secondo Corman”, proiettato alla Casa del Cinema venerdì 24 ottobre alle 21.30.

Per chi non lo sapesse, Roger Corman, recentemente scomparso, è stato l’icona del cinema low budget (da non confondere col B-movie, come lui stesso teneva a precisare): un cinema creativo, intelligente e coraggioso, capace di sfornare un numero imprecisato di cult movie, tra i quali anche ai meno tifosi diranno qualcosa titoli come “La piccola bottega degli orrori”, “L’odio esplode a Dallas”, “L’uomo dagli occhi ai raggi X”, “Cinque per la gloria” (1964), “Il clan dei Barker” e il ciclo dedicato ad Edgar Allan Poe.

Risultato immagine per documentario di Giulio Laroni

Il film di Giulio Laroni è costruito intorno a una lunga conversazione con Corman, nel suo ufficio di Brentwood a Los Angeles con l’idea, piuttosto audace e originale, di abbinare una tavola rotonda in cui tre personaggi in qualche modo legati a Corman, moderati dal direttore della fotografia Davide Mancori, discutono di cinema partendo dalle suggestioni del maestro del cinema Indie americano. Si tratta di Ruggero Deodato (purtroppo nel frattempo scomparso), considerato l’erede italiano di Corman; Daniele Nannuzzi (il cui padre, Armando, ha lavorato con Corman); e poi ci sono io, Luigi Sardiello, in virtù dei miei studi su Corman e della mia esperienza di sceneggiatore.

Ne è venuta fuori una originale lezione di regia, in cui con la consueta generosità (la stessa che gli ha consentito di far esordire e di far esordire gente del calibro di Coppola, Scorsese, De Niro, Nicholson e molti altri) Roger Corman svela la sua personale grammatica cinematografica e i suoi trucchi del mestiere a un pubblico di ideali allievi.

 

 

 

 

 

Luigi Sardiello

Scegliere un film può diventare un atto politico?

Spoiler: sì.

In quest’era di capitalismo digitale, anche il nostro tempo libero è diventato terreno di conquista. Ogni sera, o quasi, ci affidiamo a piattaforme di streaming per scegliere cosa guardare e nell’infinità di titoli a catalogo la serata può prendere due pieghe: o ci rifugiamo nella zona di confort e riguardiamo per l’ennesima volta lo stesso film, o ci affidiamo alle proposte che ci compaiono in home. Ma quanto sono affidabili i contenuti personalizzati? E soprattutto quanti altri ne celano che non rientrano nell’algoritmo?

Valore d’uso e valore di scambio nel mondo dell’arte

Spesso capita di dimenticarsi che anche il settore artististico non muove solo emozioni e pensieri ma anche soldi. E come in tutti i campi, anche qui il capitalismo ha definito i passi di tutte le persone coinvolte, ridefinendo il concetto di valore di un’opera.

Nella sfera digitale lo fa con gli algoritmi, i quali analizzano i nostri dati di comportamento: cosa guardiamo, quanto tempo trascorriamo su un titolo, quali generi preferiamo. Con queste informazioni ci vengono proposti contenuti calibrati ma con una logica essenzialmente commerciale. A prescindere dal suo valore artistico (e pensiamo al tema trattato, alla regia, alla fotografia, alla sceneggiatura o alle interpretazioni) i titoli con più visualizzazioni o popolarità tendono a essere presentati più spesso. In questo modo si genera un circolo vizioso che premia i prodotti dal grande appeal immediato o dalle grandi campagne di marketing a scapito del cinema indipendente. Film con budget contenuti, narrazioni non convenzionali o tematiche di nicchia faticano a emergere perché spesso vengono relegati ai margini, privandoli della visibilità necessaria per raggiungere un pubblico più vasto. 

Perfino Martin Scorsese ha denunciato questo fenomeno, sostenendo che la “cinema art” è stata ridotta a semplice contenuto da consumare, perdendo così la sua anima creativa e culturale.

Autobiography - Il ragazzo e il generale - Fondazione Brescia Musei

Un esempio

Potremmo citarne a decine, ma pensiamo al film indonesiano Autobiography. Il ragazzo e il generale.
Premio Fipresci nella sezione Orizzonti della Mostra del cinema di Venezia nel 2022 perché capace di rappresentare una fase storica dell’Indonesia attraverso il ritratto di due generazioni, risuonando profondamente ancora oggi e in tutto il mondo. Il film è disponibile su Prime Video ma dubitiamo vi sia capitato in home perché penalizzato da quelle politiche di intrattenimento della piattaforma.

Che fare? Cinque pratici consigli per invertire la rotta.

La nostra libera scelta può essere davvero un atto politico in questo senso: informarci e andare a cercare un titolo che non ci verrebbe mai proposto dagli algoritmi può essere un aiuto enorme. Ecco dunque alcuni consigli più o meno in ordine sparso su come invertire la logica delle piattaforme:

  1. In primis, ritorna al cinema. Spesso in sala, soprattutto in quelle d’essai, è possibile trovare anche solo per pochi giorni dei veri gioielli che non saprai mai se verranno distribuiti in altro modo.
  2. Quando vince la comodità del divano, non lasciarti guidare dalla homepage, cerca attivamente titoli e registi ignorati dalle piattaforme e prendi in considerazione piattaforme più indipendenti come OpenDDB, MY MOVIES ONE o persino Vimeo.
  3.  Qui tiriamo un po’ d’acqua al nostro mulino: per scoprire film di nicchia o più indipendenti puoi leggere riviste o magazine online come E-Cinema.it e seguirne le pagine social per orientarti sulla scelta.
  4. Sembrerà anacronistico, ma partecipare a cineforum, gruppi di visione, proiezioni autogestite che comunque esistono ancora, sono scelte politiche che permettono uno scambio reale di cultura.
  5. Sempre per restare nell’anacronistico ma funzionale: recupera l’analogico: DVD, archivi pubblici, biblioteche: il passato è un archivio di possibilità che il digitale ha dimenticato.

In un sistema che monetizza ogni secondo della nostra attenzione, scegliere cosa guardare è un atto politico. Alla fine il vero spettacolo non è proprio quello che decidiamo di cercare?

 

 

 

 

Francesca De Santis

The Lunch – A Letter to America,

Regia Gianluca Vassallo

Girato durante l’ultimo mese della campagna elettorale statunitense, il film è un viaggio corale e intimo che percorre un’America sospesa tra solitudini, appartenenze, ideologie e identità. Da New York al South Dakota si susseguono e intrecciano micro-storie che offrono uno spaccato sincero e profondo dell’America contemporanea: incontri fortuiti, canti patriottici, corpi accidentali, atti di pietà, militanza ludica, preghiere, violenza e tenerezze.

La vicenda di Eduardo, cuoco al Parkview Diner di Coney Island, e di Robert, fervente sostenitore di Trump, è il cardine inconsapevole di un racconto che si muove da sé nell’ultima settimana della campagna presidenziale americana in un percorso narrativo circolare. Le loro vite apparentemente indipendenti si incontrano nel finale, il 5 novembre 2024: mentre i seggi si chiudono e la Storia si compie, il trumpiano Robert riceve un hamburger cucinato dal messicano Eduardo, nel diner di Coney Island. Un gesto semplice e quotidiano si trasforma in atto poetico di riconciliazione.

Il film è stato girato durante un viaggio su strada di 5.500 km attraverso 11 stati degli Stati Uniti, durato 31 giorni tra il 10 ottobre e il 9 novembre 2024. Le riprese iniziano a Coney Island, New York, e proseguono a New York City. Da lì il racconto si sposta verso ovest, attraversando New Jersey e Pennsylvania, per poi entrare in West Virginia, Ohio, Indiana e Illinois, per continuare in Wisconsin, Iowa e verso ovest con arrivo a Fort Pierre, South Dakota. Il ritorno a New York ha seguito un itinerario più settentrionale, passando per il Minnesota, per poi toccare Wisconsin, Illinois, Ohio, Pennsylvania e New Jersey, chiudendo il cerchio a Coney Island. Una seconda e più breve sessione di riprese si è svolta dal 7 al 24 gennaio 2025, durante la settimana dell’insediamento presidenziale, limitata a New York City e Washington D.C.

Quando ho iniziato a lavorare sul The Lunch, avevo la certezza che sarebbe stato un lavoro politico. Ma mentre eravamo sul campo, perduti tra le mille incertezze di chi insegue la realtà, ho sentito che questa ci stava portando verso uno spazio poetico, in una accezione terrena e affatto aulica, lasciando la politica dentro il corpo dell’intimità del quotidiano. Ho capito quasi subito che quella che stavamo filmando era l’ultima l’America come l’abbiamo conosciuta, la testimonianza dell’ultimo stadio della purezza primitiva del paese che determina, nostro malgrado o per nostra grazia, il destino de mondo. Un destino determinato da quelli che, in questo film, possono sedersi a tavola ad attendere il cibo.

Mentre gli ultimi, così consapevoli della loro condizione da diventare una speranza di rinascita dell’umanità, preparano il pranzo.

Trailer: https://vimeo.com/1127095147

Al cinema da gennaio 2026

La Redazione

If I had legs I’d kick you

All’interno della Festa del Cinema di Roma c’è quest’anno una sezione dedicata ai “Best of 2025”, ovvero quei film già usciti in sala o presentati in un altro festival nel corso dell’anno corrente che si sono meritati, per qualità o riconoscimenti, di essere proposti anche al pubblico romano.

È il caso di “If I had legs I’d kick you” (letteralmente: “Se avessi le gambe, ti prenderei a calci”) premiato con l’Orso d’argento per la migliore interpretazione femminile alla protagonista Rose Byrne alla scorsa edizione del Festival di Berlino.

 

 

 

 

 

 

Come riconoscimenti, dunque, ci siamo. Quanto a riuscita qualitativa, ci permettiamo di dubitarne. Sì, perché l’”odissea da incubo di proporzioni freudiane”, come la definisce la regista Mary Bronstein, è una cavalcata senza respiro nella notte della vita attraversata dalla protagonista, una psicologa stressata dalla malattia della figlia, dalle sue stesse nevrosi e da una serie di vicissitudini che stanno in bilico tra l’ironico, il surreale e l’horror, che però non conduce a nessun traguardo, nessun approdo, se non a un finale talmente prevedibile che sarebbe stato possibile anticiparlo dopo 20 minuti di film.

If I Had Legs I'd Kick You” Stomps Into Theaters This October - Irish Film Critic

Discorso a parte merita la recitazione della protagonista, Rose Byrne, talmente brava da risultare credibile anche quando la trama non lo è ed empatica per un personaggio a tratti semplicemente insopportabile.

Promozione a pieni voti per l’attrice e “rimandata a settembre” per  la regista, in attesa di una nuova prova in cui i guizzi di talento registico che qua e là si intravedono siano al servizio di una sceneggiatura più solida e coraggiosa.

 

 

 

 

 

 

Luigi Sardiello

Festa del Cinema di Roma 2025: trionfa il cinema indipendente e internazionale

Left-Handed Girl (2025)La ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma si è conclusa con una celebrazione del cinema indipendente e internazionale, confermando la manifestazione come una delle più importanti vetrine per le nuove voci del settore cinematografico. Il premio principale, il “Miglior Film” del Concorso Progressive Cinema, è stato assegnato a Left-Handed Girl (La mia famiglia a Taipei) di Shih-Ching Tsou, un’opera che racconta con delicatezza e forza le dinamiche familiari e sociali di una madre single a Taipei, tra lavoro, affetti e responsabilità.​

I vincitori e i premi alla carriera

Tra i riconoscimenti più prestigiosi, spiccano:

  • Gran Premio della GiuriaNino di Pauline Loquès

  • Miglior Regia: Wang Tong per Chang ye jiang jin (Wild Nights, Tamed Beasts)

  • Miglior Sceneggiatura: Alireza Khatami per The Things You Kill

  • Miglior Attrice – Premio “Monica Vitti”: Jasmine Trinca per Gli occhi degli altri

  • Miglior Attore – Premio “Vittorio Gassman”: Anson Boon per Good Boy

  • Premio Speciale della Giuria: al cast del film 40 Secondi

Review: Cuba & Alaska - CineuropaLa manifestazione ha inoltre introdotto il premio “Miglior Opera Prima Poste Italiane”, assegnato a Tienimi presente di Alberto Palmiero, e il “Premio Miglior Documentario”, vinto da Cuba & Alaska di Yegor Troyanovsky. Il Premio del Pubblico Terna è andato al documentario italiano Roberto Rossellini – Più di una vita di Ilaria de Laurentiis, Andrea Paolo Massara e Raffaele Brunetti.​

La Festa ha celebrato anche grandi maestri del cinema con premi alla carriera assegnati a Richard Linklater, Jafar Panahi e David Puttnam, oltre a riconoscimenti speciali per Edgar Reitz e Nia DaCosta.​

La Festa del Cinema di Roma 2025 si è svolta dal 15 al 26 ottobre presso l’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone, coinvolgendo numerosi luoghi culturali della Capitale e offrendo una programmazione plurale e internazionale, con una forte attenzione alla fruizione popolare e alla politica dei prezzi accessibili. La manifestazione ha ospitato oltre 160 film, tra concorsi, sezioni speciali e proiezioni di capolavori restaurati, con un’attenzione particolare alle storie vere e all’impegno civile.​

L’edizione 2025 ha evidenziato una tendenza crescente verso il cinema del reale, con documentari e opere prime che raccontano storie autentiche e socialmente rilevanti. Il successo di film come Left-Handed Girl e Roberto Rossellini – Più di una vita suggerisce che il pubblico e la critica sono sempre più sensibili a narrazioni che esplorano le ferite del reale e le dinamiche familiari complesse. Questo trend potrebbe influenzare le uscite cinematografiche dei prossimi mesi, spingendo produttori e distributori a puntare su progetti con forte impatto sociale e autenticità narrativa.​

La direzione

Il cinema come denuncia: quando lo sguardo diventa resistenza

Nel film Io ti conosco, Laura Angiulli non racconta il femminicidio: lo attraversa. Lo lascia emergere come una crepa nel tessuto della realtà, come un’assenza che non si può montare, come un dolore che non si lascia chiudere in una narrazione lineare. La protagonista Nina, interpretata con intensità da Sara Drago, è una montatrice. Ma quando il marito scompare, il suo lavoro, dare forma alle storie degli altri, si trasforma in una lotta per dare senso alla propria.

Risultato immagine per Laura Angiulli io ti conosco film

Il femminicidio, in questo film, non è un fatto di cronaca. È un vuoto che si insinua nel quotidiano, una violenza che si consuma nel silenzio, nella disattenzione, nella normalità. Angiulli sceglie di non mostrare l’atto, ma di farne sentire il peso. Il montaggio diventa metafora: ogni taglio è una ferita, ogni raccordo una domanda, ogni sequenza un tentativo di ricomporre ciò che è stato distrutto.

In un panorama cinematografico spesso incline alla spettacolarizzazione del dolore femminile, Io ti conosco sceglie la sottrazione. E proprio in questo gesto radicale trova la sua forza. Il film non cerca di spiegare, ma di far sentire. Non offre soluzioni, ma invita a restare dentro il disagio, a non voltarsi altrove.

La violenza contro le donne non è solo un fatto privato, né una questione emergenziale da trattare a margine. È una struttura, un sistema, una cultura che attraversa il quotidiano. E il cinema, quando non si limita a rappresentare, può diventare uno spazio di rottura, di denuncia, di trasformazione.

Il palcoscenico negato/Laura Angiulli di Galleria Toledo: "Riaccendiamo ...

Da Io ti conosco di Laura Angiulli, che affronta il femminicidio attraverso la lente del montaggio e della memoria, fino a opere come Un giorno perfetto di Ferzan Özpetek o La notte di San Lorenzo dei Taviani, il cinema italiano ha saputo, a tratti, farsi voce di ciò che non si può dire. Non sempre, non abbastanza. Ma quando accade, accade con forza.

Il corpo femminile, spesso oggetto di sguardo, può diventare soggetto di racconto. La violenza, invece di essere spettacolarizzata, può essere interrogata. Il dolore, invece di essere estetizzato, può essere restituito alla sua dimensione politica.

Il cinema come denuncia non è solo quello che mostra. È quello che sceglie cosa non mostrare. È quello che costruisce alleanze tra chi guarda e chi è guardato. È quello che non si accontenta di commuovere, ma pretende di smuovere.

In un’epoca in cui la violenza di genere è ancora minimizzata, normalizzata, ignorata, il cinema può essere uno strumento di resistenza. Non basta raccontare storie di donne: bisogna raccontare storie con le donne, per le donne, contro la violenza che le attraversa.

E allora, ogni inquadratura diventa scelta. Ogni montaggio diventa gesto politico. Ogni film può essere, se lo vogliamo, un atto di denuncia.

Il film IO TI CONOSCO è disponibile in streaming con Prime video

Trailer:

Giovanni De Santis

Commercializzazione Globale

La commercializzazione globale è il vero campo di scontro tra major e indipendenti nell’era dell’AI. Qui non si gioca solo la visibilità, ma la capacità di adattare, tradurre e far vibrare un’opera in contesti culturali diversi. E l’intelligenza artificiale può essere sia alleata che trappola.

Le Major: dominio algoritmico e localizzazione automatica

Punti di forza:

Traduzioni e doppiaggi AI-driven: localizzazione istantanea in decine di lingue, con voci sintetiche sempre più realistiche.

Targeting predittivo: analisi dei gusti regionali per adattare trailer, poster e persino montaggi.

Distribuzione automatizzata: piattaforme globali integrate con sistemi AI che ottimizzano il lancio in base a fusi orari, trend e festività locali.

Debolezze:

Uniformità culturale: il rischio è di produrre contenuti “globali” che non parlano davvero a nessuna cultura.

Saturazione algoritmica: se tutti usano gli stessi modelli predittivi, i contenuti si somigliano e perdono rilevanza.

Reazioni locali imprevedibili: l’AI non sempre coglie le sfumature culturali, e può generare errori o fraintendimenti.

An indie filmmaker on AI - “the most powerful equaliser in cinema history”  | Comment | Broadcast

Gli Indipendenti: visibilità, autenticità, rischio

Punti di forza:

Narrazioni locali con potenziale universale: l’AI può aiutare a sottotitolare, promuovere e tradurre opere che altrimenti resterebbero invisibili.

Campagne mirate low-cost: strumenti AI per creare trailer, grafiche e copy in più lingue, anche senza budget elevati.

Distribuzione alternativa: festival online, piattaforme niche, social media geolocalizzati.

Debolezze:

Difficoltà di penetrazione nei mercati mainstream: senza accordi con piattaforme globali, l’AI non basta a garantire accesso.

Rischio di snaturamento: adattare troppo un’opera per il mercato globale può far perdere la sua forza identitaria.

Dipendenza da tool esterni: se gli strumenti AI sono controllati da grandi aziende, gli indie restano subordinati.

Sintesi: l’AI come traduttore o come filtro?

La domanda cruciale è: l’AI aiuterà a tradurre l’unicità o a filtrarla per renderla vendibile? Le major puntano alla scalabilità, gli indipendenti all’autenticità. Ma chi saprà usare l’AI per creare ponti culturali, non solo per vendere, sarà il vero vincitore nella commercializzazione globale.

 

 

 

 

 

Giovanni De Santis

DRACULA – L’amore perduto

Regia di Luc Besson
Cast: Caleb Landry Jones, Christoph Waltz, Zoë Bleu, Matilda de Angelis, Ewens Abid, Guillaume de TONQUEDEC
Durata: 129′
Genere: gotico, sentimentale

La storia del conte Dracula e delle origini del vampirismo in una versione sentimentale firmata Luc Besson.

Transilvania, XV secolo. Il principe Vlad, condottiero feroce e sanguinario, perde improvvisamente la sua amata Elisabetta. Decide così di rinnegare per sempre Dio, in nome del quale aveva sempre condotto le sue guerre, ed eredita una maledizione eterna: diventa un vampiro, condannato a vagare nei secoli e guidato dall’unica speranza di ritrovare il suo amore perduto.

Besson torna dietro la macchina da presa per portare sullo schermo la sua versione di Dracula che spazia tra i generi, utilizzando l’horror gotico per mettere in scena una storia d’amore ma anche una riflessione sulla virtù, senza tralasciare momenti di ironia e coreografie spettacolari.

Se sotto un certo punto di vista i salti da un genere all’altro potrebbero spiazzare il pubblico, dall’altro riescono a non fargli mai perdere l’attenzione grazie a un ritmo costante e a diverse scene veramente spettacolari che riescono a farlo quasi cadere nella stessa ipnosi che esercita il conte Dracula sulle sue vittime.

Che piaccia o meno questa versione del romanzo di Bram Stoker, sicuramente non si può rimanere indifferenti di fronte allo spettacolo di luci, costumi e interpretazioni perfette dei suoi protagonisti.

DRACULA, L’amore perduto è stato presentato in anteprima mondiale alla Festa del Cinema di Roma ed uscirà in sala il 29 ottobre, distribuito da Lucky Red in collaborazione con Sky Cinema. Il trailer è disponibile qui.

 

 

 

Francesca De Santis