Nel panorama del cinema horror italiano, pochi titoli riescono a evocare un senso di inquietudine profonda come La casa dalle finestre che ridono (1976), diretto da Pupi Avati. Un film che, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita al cinema, è diventato un cult assoluto nel genere gotico rurale, scolpendo indelebilmente un posto nella memoria collettiva degli appassionati.
Un horror che parla italiano
 Stefano è un giovane restauratore chiamato in un paesino della Bassa padana per riportare alla luce un affresco inquietante: il martirio di San Sebastiano dipinto da Buono Legnani, artista locale morto suicida. Ma dietro le figure ghignanti del dipinto si cela un mistero che affonda le radici nel passato del paese e nei suoi abitanti.
Stefano è un giovane restauratore chiamato in un paesino della Bassa padana per riportare alla luce un affresco inquietante: il martirio di San Sebastiano dipinto da Buono Legnani, artista locale morto suicida. Ma dietro le figure ghignanti del dipinto si cela un mistero che affonda le radici nel passato del paese e nei suoi abitanti.
Se negli anni Settanta l’horror d’oltre oceano viveva una sorta di rivoluzione con film come “Non aprite quella porta” (1974) di Tobe Hooper e Halloween (1978) di John Carpenter che introdussero un approccio più diretto, viscerale e urbano, facendosi metafora delle tensioni sociali di quegli anni, Avati al contrario, sceglie una via più sottile e psicologica.
Il suo male è nascosto, sussurrato, quasi invisibile. Non c’è sangue a fiumi, ma un senso di disagio che cresce lentamente.
Il film si muove allo stesso ritmo del piccolo paese in cui è ambientato: con lentezza calcolata in un’atmosfera opprimente e claustrofobica, in quella “Emilia di notti agitate per riempire la vita, Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire” come direbbero i CCCP.
Il sole estivo, le strade deserte, le case silenziose: tutto contribuisce a creare un senso di disagio che cresce scena dopo scena.
Avati gioca con il non detto, con l’ambiguità, con il sospetto. E quando la verità emerge, è più disturbante di quanto ci si potesse aspettare.
Un’eredità che resiste
L’opera di Avati incarna in modo emblematico lo spirito del cinema indipendente italiano degli anni ’70: una produzione che spesso operava al di fuori dei grandi circuiti commerciali, con budget limitati ma grande libertà creativa.
Questo film dimostra come il cinema indipendente possa riuscire a esprimere originalità e profondità, rivelando spesso una sensibilità artistica che i grandi studios faticano a garantire. 
In un’epoca come quella che stiamo vivendo ora, in cui i film sembrano spesso fin troppo didascalici e lasciano poco spazio alla riflessione e al ragionamento personale, “La casa dalle finestre che ridono” emerge perché si nutre invece di silenzi, di sguardi, di dettagli. E proprio per questo è ancora oggi considerato uno dei migliori esempi di cinema del terrore italiano che continua a essere studiato, citato e amato. Ha influenzato registi come Dario Argento e anticipato atmosfere che ritroveremo in opere come Twin Peaks di David Lynch.
Oggi, mentre il cinema indie continua a rappresentare un terreno fertile per sperimentazioni e nuovi sguardi, il modello di Avati offre un esempio prezioso di come lavorare sulle atmosfere, sulle sfumature narrative e sulla cura del dettaglio possa produrre opere capaci di resistere nel tempo, trovando il loro pubblico anche a distanza di decenni.
La pellicola invita a riflettere sull’importanza delle produzioni indipendenti come laboratori di innovazione che arricchiscono il panorama cinematografico con voci autentiche e coraggiose.
LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO si trova sia in DVD che in streaming su Amazon prime Video e MYMOVIESONE.

Francesca De Santis
 
  
  
  
  
  
  
  
  
  
  
															 
															