Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte III

«Tutto è puro per i puri»… Redenzione!

Dopo tredici anni trascorsi in prigione, Lee Geum-ja, accusata ingiustamente di aver ucciso un bambino, viene scarcerata. In libertà, la donna, a conoscenza dell’identità del vero assassino, mette in atto la sua vendetta.

Un fotogramma dal film “Sympathy for lady venngeance”

In Sympathy for Lady Vengeance la τιμωρία si fa collettiva. Geum-ja, l’angelo criminale, lascia ai genitori delle piccole vittime una scelta: la legge dello Stato – una forma di rachelegalizzata – o la giustizia privata – la loro, violenta e cieca. Per il singolo, la pulsione vendicativaè troppo pesante da sostenere, così dolorosa (nel ricordo di ciò che l’ha scatenata) da dover essere condivisa da una comunità – come quella borghese e aristocratica di Assassinio sull’Orient Express (1974) di Sidney Lumet o quella proletaria e stracciona di M – il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang.

M il mostro di Dusseldorf

Da una vendetta intima ed esposta (alla visione del pubblico) ad una collettiva ed oscena (“fuori dalla scena”). Non è un caso, quindi, che le torture e l’omicidio del maestro d’asilo siano relegati nel fuori campo, «il testimone» secondo Gilles Deleuze «di una presenza inquietante»: la vendetta.
Al contrario dei lungometraggi precedenti, Lady Vengeance ammette la possibilità di una redenzione. E questo per merito Geum-ja, un personaggio che dimostra che solo l’universo femminile, nel cinema contemporaneo, è in grado di tramutare la violenza in espiazione – l’uomo non ne ha la facoltà: si pensi alla filmografia di Nicolas Winding Refn, da Pusher (1996) a Solo Dio perdona(2013).

Solo dio perdona

Per la protagonista, la vendetta è catarsi candida (come la neve onnipresente nella pellicola), redenzione nivea dalla colpa (la complicità della donna con il maestro d’asilo), mitigazione del (e dal) dolore (per la morte dei bambini). Tutto grazie all’amore, che sublima lo spirito vendicativo in riscoperta della maternità e che purifica il naevum peccatinell’abbraccio (materiale e mentale) di Jenny (la figlia). Perché «l’amore è un tesoro così inestimabile» scriveva Dostoevskij «che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri», esattamente come fa
Geum-ja, che, dopo essersi pulita le palpebre dal rosso universale della colpa, immerge la faccia in una torta completamente bianca, simbolo della sua ritrovata innocenza.

Alessio Romagnoli

Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte II

«Sorgi, vendicatore, dalle mie ossa»: la Trilogiadella vendetta

«I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)».
Un classico, secondo Calvio, «non smette mai di parlarci», di essere attuale, di espandere il proprio epicentro estetico sulle opere successive.
La Trilogia della vendetta è un classico. Le tre pellicole di Park Chan-wook – Sympathy for Mr. Vengeance (2002), Old Boy (2003) e Sympathy for Lady Vengeance (2005) –, infatti, hanno avuto (e continuano ad avere) un’influenza tale da aver plasmato l’immaginario di molto cinema contemporaneo; non solo quello asiatico – i lungometraggi di Kim Jee-woon: I Saw the Devil (2010) o Two Sisters (2004) –, ma anche quello americano: da Tarantino – che nel 2004, da presidente della giuria del Festival di Cannes, non solo insignì Old Boy con il Grand Prix ma lo consacrò dichiarando come quello fosse «il film che avrebbe sempre voluto fare» – da Quentin, insomma, fino ad un “grande vecchio” della cinematografia a stelle e strisce come William Friedkin, che in Bug (2006) cita esplicitante (ambientazioni, personaggi, suggestioni visive) i lavori del regista sudcoreano.

 

Kim-Jee Woon

La Trilogia infrange il modello tradizionale del vengeance movie. Grazie al suo stile barocco, ad una perizia certosina nella composizione dell’inquadratura, ad una fotografia raggelata e tagliente, Park Chan-wook trasforma il B-movie in opera d’arte. Non solo, rispetto al rape and revenge, il cineasta di Seul sfrutta la violenza come strumento di ricerca, lente critica, sonda esplorativa di un processo psicologico complesso.
È possibile riparare ad un torto subito? Espiare e redimersi mediante la tortura e l’omicidio? Questi sono gli interrogativi che serpeggiano nella Trilogia; racconti di (de)formazione nei quali i protagonisti sono schiacciati dalla colpa, da un errore fatale che, con la vendetta, tentano (inutilmente) di cancellare.

“Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo”: la rache«senza senso»

Per salvare la sorella malata, Ryu, un ragazzo sordomuto, vende un rene a dei trafficanti d’organi, ma viene raggirato. Senza soldi, è convinto dalla fidanzata a rapire la figlia del capo (da cui è stato appena licenziato). Quando il padre decide di pagare il riscatto, la bambina muore tragicamente.
In Sympathy for Mr. Vengeance la τιμωρία scaturisce dall’impossibilità di perdonare dei personaggi
– il padre, poco prima di affogarlo, confesserà a Ryu: «Sei un bravo ragazzo, ma devo ucciderti perché non posso perdonarti». Una vendetta silenziosa, muta come il suo protagonista, rappresentata nella duplice veste di giustizia privata – il regolamento dei conti di Park Dong-jin e Ryu – e sociale – l’eliminazione dell’organizzazione criminale.
È una storia senza redenzione, però. La vengeance, istintiva – quasi involontaria, come un sistema endogeno di autodifesa –, non lenisce il dolore, ma al contrario fa riemergere un passato da dimenticare, che si piega su sé stesso precipitando sui personaggi – il suicidio della sorella di Ryu. Non solo, in Mr. Vengeancela vendetta diventa foriera di morte: i vendicatori, infatti, saranno assassinati dai “fantasmi” di coloro sui quali si sono vendicati – il padre accoltellato dai terroristi anti-capitalismo.

una immagine dal film “Sympathy for Mr Vengeance”

Una sera d’autunno, Dae-su, sposato e con figli, viene arrestato dalla polizia per ubriachezza molesta. Rilasciato, scompare nel nulla, risvegliandosi in una squallida stanza d’albergo dove è tenuto prigioniero per quindici anni. Liberato senza apparente motivo, inizia la caccia al suo aguzzino.
È di nuovo la vedetta l’ingranaggio che muove il meccanismo della pellicola, ed è lo stesso Park Chan-wook ad ammetterlo:

«E’ un tema [quello della vendetta] che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso, la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l’azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell’azione, con il dispendio di molte energie, è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico».

Un fotogramma dal film “Old Boy”

In Old Boy la vedetta matura negli anni, macera nell’odio e nello sconforto di una prigionia insensata. L’impulso vendicativo diviene ragionamento, strategia architettata in un tempo apparentemente infinito (l’allenamento fisico del protagonista). La particolarità del film, però, è quella d’invertire la prospettiva del revenge movie: non è il prigioniero a vendicarsi – scoprirà solamente i motivi dell’isolamento forzato – ma il suo carnefice (Lee Woo-jin).
La vengeancenon procura piacere, «non ha alcun senso» perché lega chi la compie ad un passato da cancellare: quello di due uomini trafitti dal dolore, che individuano (sbagliando) nella violenza uno strumento di redenzione. La purificazione dal peccato (l’incesto tra padre e figlia e tra fratello e sorella), però, è impossibile, e se Dae-su sembra riuscire ad espiare la propria colpa è solo grazie all’artificio dell’uomo (l’ipnosi).

Alessio Romagnoli

Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte I

«Vendicarsi di un nemico è ricominciare un’altra vita».

Publilio Siro, Sententiae

Per una definizione…

In quel crogiuolo incandescente di ideali militanti, rivendicazioni socio-culturali e aspettative frustrate che furono gli anni ’70, vide la luce, all’interno dell’exploitation – un cinema di “sfruttamento” (di sesso, droga, politica) che colpisce allo stomaco –, il rape and revenge movie.
B-movie 
da Grindhouse, questa tipologia filmica nata negli States impiega il concetto di vendetta per mettere in scena una violenza “nuda” (le scene di sesso abbondano), pura,  priva d’indagine psicologica – anche se le letture interpretative non mancano (come nella Feminist film theory)–; una violenza cruda, brutale, fine a se stessa, che pungola la pulsione voyeuristica dello spettatore – non è un caso, infatti, che i vengeance movie siano stati tra i più discussi e tra i più sforbiciati dalla censura d’oltreoceano (ma anche da quella italiana: L’ultimo treno della notte di Aldo Lado, 1975, per esempio).

Una scena dal film “L’ultimo treno della notte”

Racconti con una struttura narrativa codificata. Tre atti di norma:
1) Una ragazza viene rapita da un “branco” di uomini attratti dalla sua innocente bellezza.
2) Nonostante le atroci torture – ricorrenti sono i casi di stupro (da qui il nome del sottogenere), come ne L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) –, la protagonista riesce a salvarsi.
3) Sopravvissuta, la giovane donna si trasforma da vittima (sacrificale) in carnefice, massacrando senza pietà i suoi aguzzini.

«O amore! O Manon!»:esempi

I Spit on Your Grave di Meir Zarchi (1978) è uno dei caposaldi del sottogenere.
Nella prima parte della pellicola viene rappresentata la cupidigia dell’uomo –  un predatore sessuale, un animale affamato di carne – attraverso un (iper)realismo ai limiti della tollerabilità – la sequenza dello stupro di gruppo nel bosco –; nella seconda, invece, Jennifer (la protagonista), novella Aletto, sfruttando quel fascino causa della sua reificazione in oggetto sessuale, ottiene la vendetta tanto agognata, uccidendo i suoi aggressori – memorabile, in tal senso, la scena d’evirazione nella vasca da bagno (l’uomo privato della sua “arma”), commentata ironicamente dalle note di Puccini.


Con il passare dei decenni il revenge movie si è consumato, dissolto in altri generi – l’horror anni ’80, per esempio – o assorbito nella poetica di alcuni cineasti – Kill Billvol. 1(2003) e vol. 2(2004) di Quentin Trantino. Tra gli esempi contemporanei merita una menzione speciale Reversal – La fuga è solo l’inizio(2016) di Josè Manuel Cravioto, in cui il regista messicano destruttura il vengeance moviemanipolando il “tempo della vendetta”: come s’intuisce dal titolo, infatti, il film inizia dove solitamente gli altri si concludono, dalla fuga della protagonista.

Alessio Romagnoli