CONTAMINAZIONI n° 14 – Serotonina: la provocazione poetica di Michel Houellebecq… Un film “dimenticato” e un film da non dimenticare

Circa sei mesi fa, nel tardo pomeriggio, uscivo da un cinema in una grande città americana… Un autobus bianco di medie dimensioni, con una ventina di persone a bordo, procedeva a velocità sostenuta sul lato opposto della strada e proprio quel movimento tra tanti, chissà perché, per qualche secondo aveva attirato la mia attenzione. 

La panoramica del mio sguardo, da destra a sinistra, ha superato l’autobus fino a soffermarsi su una ragazza in scooter che usciva da una via laterale. Tutto dev’essere durato al massimo tre secondi, incluso il violento impatto. Per una strana combinazione cinetica, invece di essere sbalzata con la moto sul lato della strada, la conducente è finita davanti al veicolo che nonostante la frenata, per inerzia ha continuato ad avanzare per alcuni metri. Ricordo lo schianto parzialmente coperto dal rumore del traffico e il sinistro sobbalzo della massa dell’autobus che passava con le sue venti tonnellate sul corpo inerte della ragazza. 

Consapevole della gravità di quanto avevo appena visto, mi sono allontanato per il disgusto di assistere al morboso accorrere dei curiosi. 

In pochi minuti da ogni direzione sono arrivate almeno cinque auto della polizia a sirene spiegate e subito dopo un’ambulanza. Dalla coda di auto che aveva cominciato a formarsi anche nella direzione in cui mi stavo allontanando, si poteva intuire che l’intera zona era bloccata. 

Più tardi ho cercato su Internet la notizia dell’incidente. Mi ero sentito in dovere di scoprire se la ragazza fosse sopravvissuta… non per curiosità, era come se non mi potessi esimere dal sapere, dall’andare fino in fondo, per l’intersecarsi delle nostre vite a soli venti metri di distanza, nella stessa città, in quella stessa strada, dove infinte casualità ci avevano portato a passare proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Speravo in un “lieto fine” ma la ragazza era morta sul colpo. Solo poche ore dopo sulle newsgià era stata pubblicata una fotografia con il nome di una giovane donna di trent’anni, African American. Se fossi rimasto in sala a vedere tutta la sfilza dei titoli di coda non avrei visto l’impatto e la conseguente morte in diretta che ricorderò per il resto della vita… Se lei avesse tardato solo di pochi secondi, per un rallentamento nel suo percorso, per una telefonata ricevuta o per un’incertezza nell’accensione dello scooter, sarebbe ancora viva.

Ogni tanto l’immagine di quell’autobus che travolge il peso effimero e la vita di quella ragazza, mi torna alla mente. 

Con il tempo mi sono accorto di aver completamente dimenticato il resto della giornata, quello che avevo fatto la mattina, dove ero stato a pranzo, chi avevo incontrato… e anche il film. 

Ho provato a concentrarmi per recuperare almeno qualche frammento: niente, un vuoto assoluto, come se lo shockdi quella morte violenta avesse spazzato via tutto. Sentivo un forte disagio, quasi fisico, un senso di dolore per quella morte inutile, per lo speco di una vita dovuta a una disattenzione di pochi centimetri, forse a un freno non revisionato, oppure a qualche dettaglio all’apparenza insignificante che nella combinazione di cause ed effetti è risultato fatale.

Ma ecco che invece, pochi giorni fa, quando per un’associazione del pensiero mi è tornata alla mente la ragazza travolta dall’autobus bianco, mi sono accorto che quella spiacevole sensazione di disagio, di morte, s’erano come dissolti e quello che sentivo era qualcosa di paragonabile a una loro eco lontana. La memoria dell’evento era intatta ma il suo effetto non era più così disturbante.

Mi sono chiesto come mai… Forse per il passare del tempo che lenisce ogni cosa? Come per una delusione d’amore che di primo acchito può far provare un dolore fisico, chiudere lo stomaco, impedire il sonno… ma poi un po’ alla volta i brutti pensieri se ne vanno e torna la normalità.

La risposta è in una sola parola: SEROTONINA.

Nella mia piccola riflessione/indagine mi ero chiesto che cosa fosse cambiato negli ultimi tempi da poter modificare la mia percezione di quell’evento traumatico e l’unica variazione era l’aver iniziato una cura a base di un particolare integratore alimentare su consiglio del Dottor Camillo De Felice, un caro amico farmacista, poeta, straordinario performer, originario di un paese alle falde del Vesuvio… In effetti Pamela, la sua fidanzata, aveva accennato a un possibile “effetto collaterale”, un senso di pace, un lieve distacco dalle cose del mondo, la sensazione che i problemi della vita siano comunque superabili, privi d’importanza e di peso. 

“Pamela, fidanzata di Camillo” (dopo la cura)

Camillo mi ha spiegato che questo integratore alimentare contiene un mix di lipidi estratti dall’Olea Europea e dal Theobroma cacao, che aiutano a regolare la fluidità della membrana dei neuroni. Se la membrana neuronale risulta troppo rigida o troppo fluida, non riesce ad esprimere i recettori su cui va a legarsi la Serotonina, neurotrasmettitore che a livello del sistema nervoso centrale stabilizza l’umore (è comunemente detto “l’ormone del buon umore”). Metaforicamente, la serotonina rappresenta la chiave, il recettore la serratura: più serrature ci sono, più chiavi possono essere inserite e di conseguenza maggiore sarà l’effetto sull’umore. Quindi, una giusta fluidità della membrana, porterà a un maggior numero di recettori che legheranno un maggior numero di molecole di Serotonina.

Pianta di Olea Europea (Ulivo)
Pianta di Theobroma cacao

Questo integratore si chiama “Serobrain”, agisce in modo naturale, non apporta sostanze attive ma ne regola l’utilizzo. 

Il Serobrain contiene la Curcumina che ha azione anti-infiammatoria (i radicali liberi producono infiammazione)… l’Astaxantina e l’alfa-Tocoferolo che sono carotenoidi con azione antiossidante e anti-radicalica, fondamentali per sostenere l’asse intestino-cervello… la L-teanina, che aiuta a ridurre lo stress psico-fisico e facilita le funzioni cognitive. Infine le vitamine E, C, e B6, supportano l’efficienza e le funzioni dei neuroni. Il Serobrain quindi funziona come una specie di antidepressivo naturale che oltre alla sua funzione primaria di mitigare l’infiammazione latente nell’intestino e nel sistema nervoso centrale, contribuisce al buonumore.

La serotonina fu isolata per la prima volta nel 1935 da Vittorio Erspamer, un farmacologo italiano che inizialmente la classificò come un polifenolo. Due anni dopo venne chiamata “enterammina” e solo nel 1948 assunse il nome definitivo di “serotonina”.

Il nostro cervello è un organo estremamente complesso ed è facile capire dai nostri cambiamenti di umore quanto siano inspiegabili molti dei suoi meccanismi. Delle volte ci sentiamo benissimo, in equilibrio con noi stessi, con la sensazione di essere invincibili e pieni di energia… ma altre volte, in condizioni pressoché identiche, ci possiamo sentire molto giù, stanchi di impegnarci, soffocati dalla costrizione di dover agire per continuare a risolvere problemi e fastidi che inevitabilmente si presentano sulla nostra strada.

La serotonina è alla base di diversi psicofarmaci in commercio ma la sua assunzione diretta e “artificiale” (con un dosaggio sufficiente a ottenere l’effetto desiderato) provoca degli effetti collaterali, come ad esempio la perdita di libido, del desiderio sessuale, poiché a differenza di quella naturale, inibisce la sintesi del testosterone. 

Il perché di questa differenza è ignoto.

Tutto ciò è descritto molto bene in “Serotonina” (pubblicato da “La nave di Teseo”) l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, scrittore abituato alle provocazioni di cui in passato avevo letto il folgorate romanzo d’esordio “Particelle elementari” (1999) e poi “Piattaforma” (2001). Mi sono perso “Sottomissione” (2015), un romanzo fantapolitico che ipotizza la vittoria del partito mussulmano alle elezioni presidenziali del 2022 in Francia… ma conto di leggerlo entro la fine dell’estate. 

Comunque… ecco che diciotto anni dopo ho ritrovato Houellebecq in piena forma, alle prese con una trama molto originale, dove il disegno e così imprevedibile, l’artificio è così ben nascosto da sembrare “vita reale”, salvo qualche eccesso che per questo scrittore è inevitabile poiché parte integrante del suo stile. La fidanzata del protagonista per esempio, giapponese e ninfomane (ben oltre “Tokyo decadence”), che non si accontenta delle orge nei club degli scambisti ma dimostra la sua estrema perversione intrattenendosi sessualmente con dei cani, non è specificato se consenzienti. 

Il protagonista della storia è un funzionario del Ministero dell’Agricoltura che ormai possiede un’esperienza e una lucidità tale da saper spiegare senza peli sulla lingua come le politiche europee abbiano dovuto fare delle scelte, discriminando alcune categorie a favore di altre o del “bene comune”, secondo equilibri planetari che inevitabilmente producono delle vittime sacrificali. In questo caso le vittime sono gli allevatori francesi che con le “quote latte”, com’è successo in Italia, sono finiti sul lastrico.

La messa in scena della “rivolta armata” di questa categoria che finisce con una strage è un’estremizzazione di Houellebecq, ma non lontana dalla realtà… lo abbiamo visto di recente anche in Sardegna, dove gli allevatori per protesta hanno rovesciato decine di ettolitri di latte sulle strade piuttosto che accettare un prezzo irrisorio che li porterebbe alla rovina.

La “caduta” del protagonista di questo romanzo a suo modo filosofico, si evolve nel giro di poco più di un anno, da quando si licenzia e inizia a vivere girovagando alla ricerca di un luogo dove poter vegetare, ma sistematicamente gli eventi lo costringono a doversi muovere, e ogni volta la situazione peggiora, il suo isolamento si fa più accerchiante e irreversibile. Il medico che lo assiste nel suo calvario post moderno accerta con sorpresa un altissimo tasso di “cortisolo” nel suo sangue, tale da rischiare di farlo “morire di tristezza” dopo averlo portato all’obesità e alle conseguenze fisiche di una degenerazione senza ritorno. Cerca di convincerlo a ridurre e poi interrompere l’assunzione di serotonina, ma il nostro anti eroe non lo ascolta.

Non riuscendo a ricordare il film spazzato via dallo shock dell’incidente, il mio pensiero va a un film che non potrò mai dimenticare, non perché sia un capolavoro, ma è un film francese molto speciale, tratto da un bellissimo romanzo breve di Antonio Tabucchi, “Notturno indiano”. 

E’ del 1987, diretto da Alain Corneau, un regista interessante, che in questo caso ha scelto la via della fedeltà quasi assoluta al romanzo. Ci sono solo alcune trovate di sceneggiatura che si allontanano del testo originario, ma nella sostanza la storia segue passo passo la trama del libro, utilizzando anche le stesse didascalie che descrivono i luoghi.

Il viaggio del protagonista (interpretato da un delicato e sensibile Jean-Hugues Anglade) alla ricerca del suo amico portoghese Xavier “perso in India”, segue un percorso pianificato che progressivamente si va a modificare adattandosi alle casualità degli incontri, alle tracce, alle notizie frammentarie che riesce a scoprire strada facendo. A Bombay, una prostituta con la quale il suo amico aveva una relazione, gli rivela che negli ultimi tempi era molto cambiato, aveva un serio problema di salute… e poi che era in contatto con una misteriosa “società teosofica” di Madras. Anche lei non ha notizie di Xavier da più di un anno. 

Rossignol, questo e il nome del protagonista della storia, si reca nel più grande ospedale della città, dove non riesce a trovare il suo amico, ma si intrattiene a lungo a parlare con un cardiologo che mentre cerca di aiutarlo nella ricerca tra i padiglioni del gigantesco e labirintico ospedale, gli spiega i paradossi del suo paese… lui stesso può essere considerato una paradosso, avendo studiato cardiologia a Londra, quando in India si muore di tutto ma non di cuore. 

A Madras l’incontro con una specie di guru, o gran maestro che sia della società teosofica, è uno scontro in punta di fioretto tra due culture. Alla fine, forse grazie alla condivisione di un aneddoto sulle ultime parole del grande poeta portoghese Fernando Pessoa, la reticenza è vinta e il misterioso “teosofo” mostra a Rossignol una lettera di Xavier che risale a un anno prima… dove viene svelata una nuova traccia che lo porterà verso la fine del suo viaggio, a Goa.

Il film ha un andamento lento ma avvincente e sorprendete, immerso in un mondo pieno di tangibile spiritualità, dove sembra che nulla accada per caso… dall’incontro con una specie di mostriciattolo, un nano deforme che si rivela essere una veggente, a un compagno di viaggio in un vagone letto che lo sfiora con la sua drammatica vicenda di morte e di vendetta…

La conclusione è poetica e “circolare”. Rossignol ha un’illuminazione e capisce perché non è riuscito a trovare il suo amico da nessuna parte. 

Semplice: ha cambiato nome. Nella lettera alla società teosofica, scritta in inglese, aveva accennato tra le righe di essere diventato “un uccello che canta di notte”… Un usignolo quindi, in francese “rossignol”, come il protagonista della storia… in inglese “Nightingale”… 

Mr Nightingale, ecco chi deve cercare! E’ infatti, come il suo sfuggente amico aveva rubato e tradotto la sua identità, il protagonista della storia comincia a seguire le tracce di Mr Nightingale, che tutti conoscono e rispettano, ma nessuno sembra sapere dove trovarlo, fino a che… ecco finalmente un indizio preciso, strappato con una mancia al cameriere di un vecchio albergo, elegante ma un po’ decadente… 

“Una volta Mr Nightingale era un buon cliente qui… ma ora hanno aperto due nuovi hotel di lusso sul mare e non possiamo più competere.”

Il cameriere gli fa capire in quale dei due alberghi è più probabile che troverà quello che cerca…

In quello splendido hotel sul madre di Goa, Rossignol incontra una giovane donna, una bellissima fotografa francese e senza necessariamente cercare un’avventura, finisce per cenare con lei nel magnifico giardino, sul bordo di una grande piscina. 

Ed è li che Rossignol finalmente intravede Mr Nightingale, il suo amico Xavier, dal lato opposto, nella penombra del lume di candela, oltre il rettangolo d’acqua che li separa. Anche lui è con una donna… La trovata geniale del film è lasciare che il pubblico s’immagini tutto, senza mai indentificare la figura sfuggente di Xavier… ascoltando le parole di Rossignol mentre racconta alla ragazza quello che sta effettivamente accadendo in quel momento, come se fosse la trama di un romanzo che sta cercando di scrivere… 

Alla fine della cena, quando Rossignol chiede il conto, il cameriere gli comunica che un altro cliente dell’albergo ci ha già pensato.

La conclusione della storia coincide con quella dell’ipotetico romanzo e porta il protagonista a capire che, come Xavier non voleva farsi trovare, lui non ha più voglia di cercarlo… e un loro incontro nel mondo reale non avrebbe alcun senso in quelle circostanze. Le vite dei due amici si sfiorano, forse per l’ultima volta: con grazia e discrezione ognuno andrà per la sua strada.

La circolarità del racconto riporta idealmente alle ultime parole pronunciate da Fernando Pessoa prima di morire… 

Fernando Pessoa

“Datemi i miei occhiali!”

Era molto miope e voleva passare dall’altra parte vedendoci meglio possibile, così come Rossignol, forte del cumulo delle esperienze di una vita con il catalizzatore di quel viaggio molto speciale in India, ha trovato un nuovo equilibrio, una “seconda vista”.

Ferdinando Vicentini Orgnani

Don’t Worry

Caro formatore, forse “Don’t worry” di Gus Van Sant non è un film da utilizzare in aula, ma è un film da vedere. Non tanto per i temi moralistici o sociopolitici, che farebbero di Gus Van Sant l’ennesimo follower leftist della “Leggenda del Santo bevitore”. La critica ha sottovalutato questo capolavoro interpretandolo un atto di amore per omosessuali, diversi, disabili, oppure come una versione riscaldata della zuppa americana: “Se ci credi ce la puoi fare…”.

l’attore Joachim Phoenix (a sinistra) ed il regista Gus Van Sant

Secondo Federico Gironi (Cooming Soon) la vicenda del fumettista tetraplegico Callahan “si tramuta in un incoraggiamento a fare ciò che tutti noi dovremmo fare per vivere una vita più felice e sentirci più realizzati: smetterla di lamentarci e sentirci vittime, trovare nel mondo che ci circonda stimoli e aiuti, la forza di perdonare e di avere rispetto per gli altri e noi stessi, sorridere di fronte ai problemi e agli impedimenti ed esprimerci liberamente, per trovare così soluzioni giuste, che sono sempre possibili.”

Gus Van Sant, che ne sa di cinema, ci racconta il percorso di redenzione di John Callahan (interpretato da uno strepitoso ed irreale Jaquin Phoenix) disegnatore umoristico nato nel 1951 e scomparso nel 2010. Dopo l’incidente, a ventuno anni, John inizia un percorso di liberazione dall’alcol e, nonostante la disabilità, riesce ad ottenere la pubblicazione delle proprie vignette, poco rispettose del “politically correct”, trovando anche l’idillio con una hostess svedese.

Rooney Mara e Joaquin Phoenix in una scena del film

Ma già nella scena iniziale Van Sant ci avverte esplicitamente che la vicenda è un pretesto per un’interrogazione sul senso della scrittura, del cinema, del destino umano, “che forse non ha un senso”.  Dunque non è un film sull’individualismo americano ma all’opposto un percorso di ricerca del senso attraverso i limiti dell’umano, creatura disabile per nascita. E ci deve essere un passato, un’origine, un qualcuno che ha scritto i 12 comandamenti (dell’Anonima Alcolisti)…!!!

E l’origine è chiaramente indicata da Danny Elfmann (Jonah Hill), lo sponsor dell’Anonima Alcolisti, il demiurgo che mette in ordine le cose, all’americana, passo dopo passo. I nonni ricchissimi di Danny hanno trasmesso la ricchezza ai suoi genitori che a loro volta l’anno trasmessa a lui, figura cristologica, sceso sulla terra dall’alto per salvarci. E il “dove” è al di fuori di noi, non sappiamo dove ma certamente da qualche parte ove si capisce che Danny sta ritornando. Non sono casuali le ripetute inquadrature della bocca, del fumo, di ciò che rimanda allo spirito, alla madre del racconto, ai “genitali”. E didascalica quindi la scena dei genitali sulla bocca. Un’omaggio a “Smoke” di Wayne Wang.

Harvey Keitel in “Smoke” (Wayne Wang 1995)

Ma dunque dove possiamo cercare le risposte? In un Dio ovviamente, che ci parla tramite gli angeli e i santi, che sono ovunque. Sono gli ex alcolisti del gruppo, sono i bambini, i passanti, basta saperli interrogare, anzi basta ascoltarli, senza giudicare, senza controbattere.

E nel percorso catartico del perdono universale e del ringraziamento John Callaghan ritrova il proprio professore di disegno. E guarda caso anche lui è una creatura divina, che capisce e perdona e ricorda che il manifestarsi del talento era già chiara all’epoca del Liceo. Tutto era già scritto.

Phoenix e Van Sant sul set

Dunque il talento, e questo si è un tema per la formazione, è la nostra cifra, la nostra radice personale, ciò che può dare i frutti nelle condizioni più estreme. Non si capisce perché, da anni, gli americani ci continuino a dire: “L’importante è il talento!”, e noi continuiamo a sentire: “L’importante è la motivazione!”. Ci vorrà tempo…

Luigi Rigolio

Peterloo

Il titolo dell’ultimo film di Micke Leigh è un a crasi tra le località di Peterfield ed il celebre luogo dove si svolse la battaglia di Waterloo. Ed è proprio durante la battaglia durante la quale l’inglese duca di Wellington  sconfisse Napoleone che inizia il film con l’inquadratura di un frastornato trombettiere che vaga sul campo di battaglia tra fumo, fragore di armi da fuoco, urla e morti. Presagio del finale che non è un mistero per chiunque conosca la storia del massacro di Peterfield, quando la cavalleria del re caricò la folla riunitasi a Manchester il 16 Agosto del 1819  per ascoltare il comizio del radicale Henry Hunt (Rory Kinnear).

Rory Kinnear

Il film approfondisce il quadro sociale dell’epoca, i personaggi storici e le dinamiche che portarono a quell’eccidio e lo fa con una fotografia che richiama i quadri dei ritrattisti dell’ottocento inglese (già apprezzata nel suo premiato “Turner” con Timothy Spall), unica concessione all’immagine che per il resto rimane relegata in secondo piano rispetto alla parola. D’altronde è un film sull’oratoria e gli “speech” dei giudici, come degli agitatori, piuttosto che dell’elite politica dell’epoca sono lo strumento attraverso cui lo spettatore misura le distanze tra gli strati sociali e la profondità dell’indigenza del proletariato.

Mike Leigh in sala dopo la proiezione a Venezia

E’ una denuncia della mentalità mercantilista dell’era industriale e dei suoi nefandi effetti, attuali ancora oggi. Pure il protezionismo è messo all’indice. All’epoca di quei fatti il protezionismo fu applicato dalla Corona alla produzione di grano inglese contro le importazioni dalle americhe e dal continente, sebbene inteso come incentivo alla produzione nazionale, divenne invece, a causa di una carestia, la causa di un rialzo vertiginoso dei prezzi che affamò i poveri spingendoli a rivendicazioni non sempre pacifiche.

Il mercantilismo sfrenato, la sperequazione, lo sfruttamento e la condizione abbietta dei lavoratori, la sordità dei ceti abbienti, la stolida burocrazia delle istituzioni, sono tutti mali ancora operanti di cui Leigh ci vuole parlare rimandandoci ad un ricordo più che centenario, per ricordarci che hanno radici solide e lontane ben lungi dall’essere state completamente estirpate. C’è un chiaro parallelismo tra il lavoratore e il fantaccino, entrambi irrilevanti per chi comanda ed ininfluenti quando vagano soli in mezzo al loro campo di battaglia, sia esso Waterloo o la fabbrica. Solo l’unione e la solidarietà, inseriti in un contesto pacifico ma determinato, paiono essere la via da percorrere per una società più inclusiva. Ma nel finale ci viene ricordato come ogni guerra ha le sue battaglie ed ogni battaglia, anche quelle sociali, ha i suoi morti.

 

Minnesota Fez

Veltroni Forever

Ci sono persone , in questa epoca, ma forse in tutte le epoche, di cui la società non riesce a liberarsi : si fanno notare , hanno successo , poi meno , alla fine lasciano e pensi che sia finita così.

Invece no, te le ritrovi che sono rientrate dalla finestra , che risalgono dall’altra parte della collina , senza vergogna : perchè dico senza vergogna? Per la famosa teoria della consapevolezza.

Di che si tratta? La parola vuol dire saper coniugare i concetti in modo da farsi un’idea piu’ o meno esatta di come stanno le cose . Se sono consapevole che il mio successo si e’ esaurito con il termine di una stagione politica , che mi sono ripromesso di occuparmi di volontariato nei paesi disagiati, che sono nate altre istanze e altri personaggi, che la gente ne ha piene le palle (uso il termine tecnico) di vedere il mio viso, ergo mi metto in un angolo a riflettere e a completare il mio ciclo vitale .

Sto  parlando di Veltroni , una volta star politica , poi interprete principale dell’ipocrisia di sinistra al grido di …”ma anche”, ed oggi regista , scrittore , giornalista , tuttologo , moralizzatore ,coscienza .

set del film Bambini in Italia regia di Walter Veltroni

Non passa giorno che non venga annunziata una nuova performance del  nostro uomo dal viso in perenne commozione, e tutte hanno una caratteristica fondamentale: sono tutte finanziate dallo Stato , o da qualcuno che poi si fa finanziare dallo Stato.

Veltroni è una tassa che gli operatori di sinistra , cui lui ha fatto guadagnare miliardi, devono pagare prima o poi , e che condividono con Rai o con qualche festival , indipendentemente dal fatto che il prodotto editoriale veltroniano sia del tutto privo di interesse per il pubblico. A lui è consentito tutto , grazie alla sensibilità che lo contraddistingue, filmati, fiabe, serie, inchieste, lungometraggi, libri….!!! Si ho detto proprio libri !!!!!

Veltroni alla Feltrinelli con Cazzullo per il libro «Quando»

D’altra parte alcuni di coloro che sono stati beneficiati dal politico sono ancora ai vertici delle istituzioni, perche’ come si sa la destra ha il complesso di essere rozza e priva di cultura e pertanto con l’appoggio di Gianni Letta ha preferito allearsi con la sinistra per non avere critiche motivate.

Alemanno era perseguitato da Repubblica e il giornale ha smesso di attaccarlo quando lui ha nominato dove poteva persone di sinistra , tanto non erano quelli gli affari di cui preoccuparsi.

Cosi’ è la vita, e tanto vale armarsi di pazienza e sopportare i Veltroni di turno, ce ne sono altri che gli somigliano abbastanza, pensando che le cose importanti sono altre e che un film scadente, un documentario scadente ,un programma scadente o un lavoro scadente, in Italia non creano  alcuno scandalo ma semplicemente rientrano nella media.

 

Michele Lo Foco

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KDM 2018 Giorno 1 – IL NOIR TORNA A VIBRARE SULLO SCHERMO

Lunedì, 27 agosto 2018.

Nei giorni scorsi, parlando con degli amici riguardo alla rassegna di cui mi accingo a scrivere, mi è stata posta la domanda “Che cos’è un film noir?”. Colto alla sprovvista, ho provato titubante a dare una risposta. In fondo, diremmo alla lettera, il film noir è lo strano connubio tra: amore-morte, tema romantico/decadente; l’es freudiano, un groviglio di pulsioni nascoste e desideri spesso autodistruttivi; un pessimismo di fondo, che trova ragion d’essere nella Storia (il cinema noir nasce negli USA, alla viglia del secondo conflitto mondiale, su iniziativa di cineasti per lo più europei, spesso tedeschi, che portano addosso il peso della Storia: Lang, Preminger, Siodmak, Tourneur, Wilder…). A questo aggiungiamo una femme fatale, un individuo problematico come protagonista, whisky e sigarette, fumosi locali notturni, fotografia tenebrosa, con immagini poco realistiche, deformate da grandangoli o luci espressioniste…

Eppure questo tentativo maldestro di spiegarlo non rende giustizia al film noir. Ogni sforzo di definirlo è problematico, perché il genere è di per sé misterioso, ombroso, impalpabile. Capirlo fino in fondo è quasi impossibile.

Nel 2015, a Campobasso, è stato creato un evento volto a celebrare e valorizzare il cinema noir: Kiss me deadly. Oggi la rassegna è giunta alla sua quarta edizione e presenta un cartellone variegato ed eterogeneo.

Francesco Acerbis

Nella prima giornata di festival, in serata, il fotografo e reporter Francesco Acerbis ha presentato il suo “film fotografico” intitolato “Nero”, un riuscitissimo omaggio alla letteratura e al cinema noir, che consiste in una serie di scatti notturni nelle strade di Parigi, la città in cui vive, montati insieme e accompagnati dalla musica di Michele Agazzi. Nell’incontro Acerbis ha parlato della sua passione per il genere e del desiderio che sentiva da anni di accostarla al suo lavoro di fotogiornalista.

Olivier Marchal

Il primo film delle “Dark nights” è “La truffa” del secolo (Carbone) di Olivier Marchal. Si tratta di un polar francese piuttosto convenzionale, che omaggia Brian De Palma (amato anche dai protagonisti del film, che lo citano) e i suoi indimenticabili “Scarface” e “Carlito’s Way”, dove elementi del noir si mescolano a una storia poliziottesca, con sparatorie e crimine. Un mondo che il regista francese conosce bene, essendo un ex poliziotto (“flic”, dice lui in un’intervista mostrata prima del film). Si tratta di un film, seppur non memorabile, godibile, anche grazie al bravissimo protagonista Benoît Magimel e a un finale sorprendente.

Benoit Magimel

L’apertura di questa quarta edizione fa tornare a vibrare il noir sul grande schermo, nuovamente in arena, en plein air.

Matteo Blanco

L’incredibile viaggio del fachiro, o il Destino comico dell’immigrazione

Tre ragazzini indiani vengono arrestati. In attesa di giudizio, alla stazione di polizia, ascoltano la storia di Aja, ex-fachiro ora insegnante. Bambino poverissimo di uno slum di Mumbai, cresciuto tra trucchi di magia e furti, l’uomo realizza il proprio sogno quando, adulto, riesce a visitare il negozio Ikea di Parigi. In un soggiorno Kallax incontra Nelly ed è subito colpo di fulmine. Fissato il primo appuntamento sotto la Tour Eiffel, però, Aja le dà buca perché, addormentatosi in un armadio, è costretto ad un mirabolante viaggio tra Europa e Africa, prima di poter finalmente tornare da lei.

Dhanush in una scena del film

Tratto dal best-seller “L’incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea”(2013) di Romain Puértolas, arriva in sala una co-produzione franco-belga-indiana – il protagonista è interpretato da Dhanaush, famoso performer, cantante e produttore del Rajasthan – che affronta il tema dell’immigrazione e del destino beffardo che costringe l’umanità al nomadismo forzato.

Il regista Ken Scott

Il regista Ken ScottStarbuck – 533 figlie non saperlo (2011) – mette in scena un coloratissimo e rocambolesco family-(road)movie a spasso per un Europa magica ed esotica. Una piccola Odissea, un viaggio tra i luoghi che sono (Libia, Italia, Francia) e furono (i moriscos in Spagna) teatro della migrazione nel Vecchio Continente; una favola contemporanea che sprizza allegria e buon umore – con la consueta esibizione musicale in stile Bollywood–, ma che, pur evitando il sentimentalismo e il pietismo (grazie all’ironia), non riesce a sfuggire, in alcuni momenti, ad una morale preconcetta – le condizioni “disumane” degli esuli nella sala d’aspetto spagnola – e ad una rappresentazione stereotipata di certe situazioni narrative – la sezione italiana, per esempio, mescola un intreccio alla “Vacanze romane” (William Wyler, 1953) con una versione comedy dei film sulla malavita nostrana (il produttore cinematografico tratteggiato come un boss imbranato).

Senza (volutamente) la forza drammatica di “Lion – La strada verso casa” di Garth Davis (2016), ma con la struttura analettica, che ripercorre l’infanzia del protagonista, di “The Millionaire” di Danny Boyle (2008), “L’incredibile viaggio del fachiro” è un’avventura metaforica che mostra l’importanza della casualità, del Fato, nelle nostre esistenze. Perché, come ricorda l’incipit della pellicola (citando Rousseau), l’uomo nasce libero e uguale ma un attimo dopo il suo primo vagito viene “incatenato”, indelebilmente segnato dal contesto (socio-economico) in cui è venuto alla luce.

Il libro da cui è stato tratto il film

E se la Sorte è ineludibile, l’uomo possiede comunque uno strumento formidabile per tentare di sottrarsi alle sue spire, riscattarsi e scegliere chi essere: l’immaginazione.
Così, Aja inventa una storia: una storia in cui sentirsi ricchi – di possibilità e di denaro –, una storia in cui farsi beffe della povertà, del colore della pelle; una storia che è un sogno da realizzare, da inverare, anche solo, come dirà l’uomo ai tre ragazzini, «in alcune parti… le più importanti»; la storia di un fachiro turista, non più profugo, che, attraverso un racconto, trasforma la tragedia dell’immigrazione in commedia.

Alessio Romagnoli

Carlo, l’inventore

Se è morto Carlo Vanzina, vuol dire che la morte esiste e vaga tra di noi.

Un famoso filosofo così descrisse: noi siamo come un gregge di pecore che brucano tranquillamente l’erba mentre il contadino sceglie quale sacrificare.

Il mondo è pieno di gente che muore, solo ieri in Giappone cento persone per le piogge, in Canada settanta per il caldo, ma ci accorgiamo del contadino solo quando muore qualcuno che riteniamo immortale, costitutivo, insostituibile.

I fratelli Enrico (a sx) e Carlo Vanzina

Mi ricordo che un signore che aveva paura dell’aereo, un giorno mi disse che salendo aveva visto che tra i passeggeri c’era Pippo Baudo, e la paura gli passò. Ovviamente Baudo non poteva morire.

Ecco, Vanzina non sembrava poter morire, dopo aver caratterizzato con i suoi film un’epoca, una moda, una categoria, una gioventù, una storia.

Era al di là del cinema e del valore dei suoi film, era un marchio, un brand, un modo d’essere, a suo modo un maestro ed un creativo, un inventore certamente.

Carlo Vanzina e Nancy Brilli sul set del film “Un’estate al mare”

Ha inventato facce, gambe, sederi, e modi espressivi caricaturali dipinti nei film come facevano i pittori espressionisti, per accentuare le caratteristiche fisiche e mentali e semplificare giudizi e commenti.

I suoi erano cartoni animati, delicati e macchiettistici, senza cattiveria, ritratti di cialtroni italici succubi delle donne e pronti a qualunque ignominia pur di apparire: lo specchio di un’Italia che cresceva disordinatamente  senza dignità ma con tanta voglia di divertirsi e di lasciare alle spalle la tragedia della guerra.

Carlo Vanzina e Massimo Boldi

Con Carlo muore un po’ di quella spensieratezza di cui oggi avremmo ancora bisogno.

Michele Lo Foco

 

Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte III

«Tutto è puro per i puri»… Redenzione!

Dopo tredici anni trascorsi in prigione, Lee Geum-ja, accusata ingiustamente di aver ucciso un bambino, viene scarcerata. In libertà, la donna, a conoscenza dell’identità del vero assassino, mette in atto la sua vendetta.

Un fotogramma dal film “Sympathy for lady venngeance”

In Sympathy for Lady Vengeance la τιμωρία si fa collettiva. Geum-ja, l’angelo criminale, lascia ai genitori delle piccole vittime una scelta: la legge dello Stato – una forma di rachelegalizzata – o la giustizia privata – la loro, violenta e cieca. Per il singolo, la pulsione vendicativaè troppo pesante da sostenere, così dolorosa (nel ricordo di ciò che l’ha scatenata) da dover essere condivisa da una comunità – come quella borghese e aristocratica di Assassinio sull’Orient Express (1974) di Sidney Lumet o quella proletaria e stracciona di M – il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang.

M il mostro di Dusseldorf

Da una vendetta intima ed esposta (alla visione del pubblico) ad una collettiva ed oscena (“fuori dalla scena”). Non è un caso, quindi, che le torture e l’omicidio del maestro d’asilo siano relegati nel fuori campo, «il testimone» secondo Gilles Deleuze «di una presenza inquietante»: la vendetta.
Al contrario dei lungometraggi precedenti, Lady Vengeance ammette la possibilità di una redenzione. E questo per merito Geum-ja, un personaggio che dimostra che solo l’universo femminile, nel cinema contemporaneo, è in grado di tramutare la violenza in espiazione – l’uomo non ne ha la facoltà: si pensi alla filmografia di Nicolas Winding Refn, da Pusher (1996) a Solo Dio perdona(2013).

Solo dio perdona

Per la protagonista, la vendetta è catarsi candida (come la neve onnipresente nella pellicola), redenzione nivea dalla colpa (la complicità della donna con il maestro d’asilo), mitigazione del (e dal) dolore (per la morte dei bambini). Tutto grazie all’amore, che sublima lo spirito vendicativo in riscoperta della maternità e che purifica il naevum peccatinell’abbraccio (materiale e mentale) di Jenny (la figlia). Perché «l’amore è un tesoro così inestimabile» scriveva Dostoevskij «che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri», esattamente come fa
Geum-ja, che, dopo essersi pulita le palpebre dal rosso universale della colpa, immerge la faccia in una torta completamente bianca, simbolo della sua ritrovata innocenza.

Alessio Romagnoli

Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte II

«Sorgi, vendicatore, dalle mie ossa»: la Trilogiadella vendetta

«I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)».
Un classico, secondo Calvio, «non smette mai di parlarci», di essere attuale, di espandere il proprio epicentro estetico sulle opere successive.
La Trilogia della vendetta è un classico. Le tre pellicole di Park Chan-wook – Sympathy for Mr. Vengeance (2002), Old Boy (2003) e Sympathy for Lady Vengeance (2005) –, infatti, hanno avuto (e continuano ad avere) un’influenza tale da aver plasmato l’immaginario di molto cinema contemporaneo; non solo quello asiatico – i lungometraggi di Kim Jee-woon: I Saw the Devil (2010) o Two Sisters (2004) –, ma anche quello americano: da Tarantino – che nel 2004, da presidente della giuria del Festival di Cannes, non solo insignì Old Boy con il Grand Prix ma lo consacrò dichiarando come quello fosse «il film che avrebbe sempre voluto fare» – da Quentin, insomma, fino ad un “grande vecchio” della cinematografia a stelle e strisce come William Friedkin, che in Bug (2006) cita esplicitante (ambientazioni, personaggi, suggestioni visive) i lavori del regista sudcoreano.

 

Kim-Jee Woon

La Trilogia infrange il modello tradizionale del vengeance movie. Grazie al suo stile barocco, ad una perizia certosina nella composizione dell’inquadratura, ad una fotografia raggelata e tagliente, Park Chan-wook trasforma il B-movie in opera d’arte. Non solo, rispetto al rape and revenge, il cineasta di Seul sfrutta la violenza come strumento di ricerca, lente critica, sonda esplorativa di un processo psicologico complesso.
È possibile riparare ad un torto subito? Espiare e redimersi mediante la tortura e l’omicidio? Questi sono gli interrogativi che serpeggiano nella Trilogia; racconti di (de)formazione nei quali i protagonisti sono schiacciati dalla colpa, da un errore fatale che, con la vendetta, tentano (inutilmente) di cancellare.

“Ridi e il mondo riderà con te, piangi e piangerai da solo”: la rache«senza senso»

Per salvare la sorella malata, Ryu, un ragazzo sordomuto, vende un rene a dei trafficanti d’organi, ma viene raggirato. Senza soldi, è convinto dalla fidanzata a rapire la figlia del capo (da cui è stato appena licenziato). Quando il padre decide di pagare il riscatto, la bambina muore tragicamente.
In Sympathy for Mr. Vengeance la τιμωρία scaturisce dall’impossibilità di perdonare dei personaggi
– il padre, poco prima di affogarlo, confesserà a Ryu: «Sei un bravo ragazzo, ma devo ucciderti perché non posso perdonarti». Una vendetta silenziosa, muta come il suo protagonista, rappresentata nella duplice veste di giustizia privata – il regolamento dei conti di Park Dong-jin e Ryu – e sociale – l’eliminazione dell’organizzazione criminale.
È una storia senza redenzione, però. La vengeance, istintiva – quasi involontaria, come un sistema endogeno di autodifesa –, non lenisce il dolore, ma al contrario fa riemergere un passato da dimenticare, che si piega su sé stesso precipitando sui personaggi – il suicidio della sorella di Ryu. Non solo, in Mr. Vengeancela vendetta diventa foriera di morte: i vendicatori, infatti, saranno assassinati dai “fantasmi” di coloro sui quali si sono vendicati – il padre accoltellato dai terroristi anti-capitalismo.

una immagine dal film “Sympathy for Mr Vengeance”

Una sera d’autunno, Dae-su, sposato e con figli, viene arrestato dalla polizia per ubriachezza molesta. Rilasciato, scompare nel nulla, risvegliandosi in una squallida stanza d’albergo dove è tenuto prigioniero per quindici anni. Liberato senza apparente motivo, inizia la caccia al suo aguzzino.
È di nuovo la vedetta l’ingranaggio che muove il meccanismo della pellicola, ed è lo stesso Park Chan-wook ad ammetterlo:

«E’ un tema [quello della vendetta] che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso, la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l’azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell’azione, con il dispendio di molte energie, è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico».

Un fotogramma dal film “Old Boy”

In Old Boy la vedetta matura negli anni, macera nell’odio e nello sconforto di una prigionia insensata. L’impulso vendicativo diviene ragionamento, strategia architettata in un tempo apparentemente infinito (l’allenamento fisico del protagonista). La particolarità del film, però, è quella d’invertire la prospettiva del revenge movie: non è il prigioniero a vendicarsi – scoprirà solamente i motivi dell’isolamento forzato – ma il suo carnefice (Lee Woo-jin).
La vengeancenon procura piacere, «non ha alcun senso» perché lega chi la compie ad un passato da cancellare: quello di due uomini trafitti dal dolore, che individuano (sbagliando) nella violenza uno strumento di redenzione. La purificazione dal peccato (l’incesto tra padre e figlia e tra fratello e sorella), però, è impossibile, e se Dae-su sembra riuscire ad espiare la propria colpa è solo grazie all’artificio dell’uomo (l’ipnosi).

Alessio Romagnoli

Oltre il revenge movie, Park Chan-wook e la Trilogia della vendetta – Parte I

«Vendicarsi di un nemico è ricominciare un’altra vita».

Publilio Siro, Sententiae

Per una definizione…

In quel crogiuolo incandescente di ideali militanti, rivendicazioni socio-culturali e aspettative frustrate che furono gli anni ’70, vide la luce, all’interno dell’exploitation – un cinema di “sfruttamento” (di sesso, droga, politica) che colpisce allo stomaco –, il rape and revenge movie.
B-movie 
da Grindhouse, questa tipologia filmica nata negli States impiega il concetto di vendetta per mettere in scena una violenza “nuda” (le scene di sesso abbondano), pura,  priva d’indagine psicologica – anche se le letture interpretative non mancano (come nella Feminist film theory)–; una violenza cruda, brutale, fine a se stessa, che pungola la pulsione voyeuristica dello spettatore – non è un caso, infatti, che i vengeance movie siano stati tra i più discussi e tra i più sforbiciati dalla censura d’oltreoceano (ma anche da quella italiana: L’ultimo treno della notte di Aldo Lado, 1975, per esempio).

Una scena dal film “L’ultimo treno della notte”

Racconti con una struttura narrativa codificata. Tre atti di norma:
1) Una ragazza viene rapita da un “branco” di uomini attratti dalla sua innocente bellezza.
2) Nonostante le atroci torture – ricorrenti sono i casi di stupro (da qui il nome del sottogenere), come ne L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) –, la protagonista riesce a salvarsi.
3) Sopravvissuta, la giovane donna si trasforma da vittima (sacrificale) in carnefice, massacrando senza pietà i suoi aguzzini.

«O amore! O Manon!»:esempi

I Spit on Your Grave di Meir Zarchi (1978) è uno dei caposaldi del sottogenere.
Nella prima parte della pellicola viene rappresentata la cupidigia dell’uomo –  un predatore sessuale, un animale affamato di carne – attraverso un (iper)realismo ai limiti della tollerabilità – la sequenza dello stupro di gruppo nel bosco –; nella seconda, invece, Jennifer (la protagonista), novella Aletto, sfruttando quel fascino causa della sua reificazione in oggetto sessuale, ottiene la vendetta tanto agognata, uccidendo i suoi aggressori – memorabile, in tal senso, la scena d’evirazione nella vasca da bagno (l’uomo privato della sua “arma”), commentata ironicamente dalle note di Puccini.


Con il passare dei decenni il revenge movie si è consumato, dissolto in altri generi – l’horror anni ’80, per esempio – o assorbito nella poetica di alcuni cineasti – Kill Billvol. 1(2003) e vol. 2(2004) di Quentin Trantino. Tra gli esempi contemporanei merita una menzione speciale Reversal – La fuga è solo l’inizio(2016) di Josè Manuel Cravioto, in cui il regista messicano destruttura il vengeance moviemanipolando il “tempo della vendetta”: come s’intuisce dal titolo, infatti, il film inizia dove solitamente gli altri si concludono, dalla fuga della protagonista.

Alessio Romagnoli