Manuel ha appena compiuto diciotto anni. Da quando mamma Veronica è stata incarcerata, vive in un istituto della periferia romana. Ma adesso è arrivato il momento di tornare in quel mondo da cui è stato lontano per così lungo tempo. Lasciare la casa-famiglia, cercare un lavoro, riallacciare vecchie amicizie e stringerne di nuove; sopratutto, prendersi cura della madre, che potrà ottenere gli arresti domiciliari solo grazie all’aiuto del figlio: una responsabilità enorme per chi è ancora un pischello…
Il battesimo cinematografico di Dario Albertini – già autore di alcuni buoni documentari, tra i quali “La repubblica dei ragazzi” (2015), da cui “Manuel” (2017) è ispirato – è un Bildungsroman che “vive” il racconto assieme al proprio protagonista, abitante “incolore” – i toni desaturati delle immagini – di una borgata squallida, (neo)realista, sconfinata, che divora sogni e speranze – distante dal “colore locale” della periferia dipinta da Ligabue (“MadeinItaly”, 2018). Uno sguardo onesto e partecipe, privo di sentimentalismi, stilisticamente affine ai lavori di Claudio Giovannesi – “Fiore” (2016) -, che rappresenta il passaggio all’età adulta di un adolescente, Manuel, cresciuto in un istituto per minori; non una prigione, però, ma una famiglia, con pregi e difetti – non ci sono pregiudizi nella messa in scena di questo microcosmo, popolato da preti affabili e volontarie severe. Un nido sicuro da cui spiccare il volo, fuori, all’esterno, in un mondo indifferente, come i personaggi in cui il giovane uomo s’imbatte
– dall’aspirante attrice che recita il monologo di Delphine Seyrig (“Baci rubati” di François Truffaut, 1968), al falegname ex “confratello” (un tempo pittore, “il ritratto” del protagonista da grande) -, tutti bendisposti, gentili, ma così assorti nelle loro vite da non riconoscere il suo disagio – “Non essere cattivo” di Claudio Caligari (2015).

Il Manuel interpretato da Andrea Lattanzi porta nei suoi grandi occhi tristi gli slanci e le paure di un ragazzo che, quando tenta di reinserirsi nella società, deve occuparsi della madre detenuta – Pietà ribaltata! -, provocando in lui lo scontro tra l’amore filiale – espresso nel colloquio con l’assistente sociale – e la sua inadeguatezza (nel ruolo assegnatosi). Una responsabilità “asfissiante” – i ripetuti attacchi di panico – per chi avrebbe bisogno di un sostegno, di una scialuppa a cui aggrapparsi, ed è invece costretto ad improvvisarsi ancora di salvezza. Con una corda al collo, Manuel star per soffocare – la scena metaforica dell’annegamento -, ma prima che la morsa si serri – il tentativo di fuga in Croazia -, riesce ad allentare il cappio: scoppia in lacrime, fissa lo spettatore negli occhi – lo sguardo in macchina conclusivo… un pugno allo stomaco – e ci urla contro il suo dolore, perché “che cazzo ne sappiamo di come ci si sente”.

E’ un grido (silenzioso): per tutti i Manuel di questo questo mondo, per tutti i figli suburbani che per (sopra)vivere “devono fa’ er doppio” se non “er triplo della fatica”.
Alessio Romagnoli