“IL PRINCIPE CONSORTE”, tratto dalla commedia in tre atti “Le Prince consort” di Jules Chancel e Leon Xanrof, la regina di Sylvania viene a conoscenza delle prodezze amorose del suo
ambasciatore a Parigi, e lo fa richiamare in patria per provare di persona se le leggende corrispondono a verità. Corrispondono, eccome, e allora se lo sposa.
Ma il principe consorte non intende sopportare il carattere autoritario della sua illustre consorte. La regina dovrà imparare ben presto ad essere soprattutto una moglie…
Primo film sonoro di Lubitsch, con le musiche firmate da Victor Schertzinger e dal paroliere Clifford Grey. Azione e musica si intrecciano sapientemente, al celebre “tocco” del regista, in una storia d’amore sottilmente erotica.
Regia: Wesley Ruggles
Cast: Mae West, Cary Grant, Gregory Ratoff, Edward Arnold, Gilbert Roland, Noah Beery
Di tutti i periodi che il cinema mondiale ha attraversato nel corso della sua storia, il cosiddetto “cinema classico hollywoodiano” (dagli anni ’30 agli anni ’60) fu senza dubbio il più
coerente e unitario. Il cinema statunitense di quegli anni venne infatti regolato da norme estetiche, formali, narrative, produttive, ideologiche estremamente rigide.
Tra gli aspetti più interessanti ci fu la censura, imposta dall’alto su tutti i film prodotti in quegli anni per mezzo di un codice di norme da seguire, noto come Codice Hays.
Il codice ebbe l’obiettivo di impedire che i film hollywoodiani abbassassero gli “standard morali” degli spettatori, ovviamente secondo un’ideologia cristiana, conservatrice e patriottica.
Tra i temi proibiti c’erano: l’esaltazione della violenza e del crimine, l’abuso di droghe e alcol, la messa in ridicolo della religione e dello Stato, tutti gli aspetti lascivi o “perversi”
della sessualità, ovvero nudità, adulterio, relazioni tra persone di etnia diversa, omosessualità.
Ma ci fu un periodo particolare che per molti aspetti sfuggì a tutto questo: gli anni del Pre-Codice, dal 1930 al 1934. Anni di transizione, dalla scrittura del Codice alla sua entrata in
vigore, dove il cinema hollywoodiano conobbe un momento di anarchia artistica, potendo mettere in scena tutti quei temi che per quasi trent’anni saranno proibiti.
Quegli anni, per quanto poco conosciuti, offrirono così uno spaccato di quello che il cinema avrebbe potuto essere, anticipando di molto i tempi,
e aprendo una crepa nel rigido tessuto morale degli Stati Uniti d’America.
Un esempio di tutto ciò è ben rappresentato dai due film con Mae West contenuti in questa raccolta. L’attrice, dotata di un piccante senso dell’ironia e di curve sinuose e abbondanti,
che esibiva in pose languide e provocanti, fu maestra del doppio senso, scandalizzando l’America perbenista e puritana del suo tempi. In questi film inoltre,
a livello visivo, ci si accorge subito che i corpi delle attrici e degli attori venivano mostrati in modo molto diverso da quanto ci si aspetterebbe da un film degli anni trenta
(la nudità non è un tabù, così come non lo sono le allusioni sessuali che ne derivano)…
Lingue: Italiano, Inglese Dolby Digital 2.0 Mono
Sottotitoli: NO
Rapporto schermo: 1.33:1 (Riadattato in formato 16/9 Pillarbox)
Regia: Walter Lang
Cast: Carole Lombard, Preston Foster,
“LA BISBETICA INNAMORATA” (Love Before Breakfast, 1938). – Un agiato imprenditore si infatua di una ragazza già fidanzata.
Fa allora in modo che il giovanotto venga inviato in Cina a lavorare. Cerca poi di convincere la fanciulla a sposarlo,
spalleggiato anche dalla madre di lei che, per interesse, sarebbe favorevole al matrimonio. Ma la ragazza non vuole saperne
e allora l’industriale ricorre ad uno stratagemma…
Un film di Valter Veltroni… sembra un epitaffio, una condanna per una pellicola appena uscita. Si tratta di “C’è tempo” il film con Stefano Fresi e Simona Molinari uscito ieri nelle sale.
Liberarsi di Veltroni non è attività semplice per tutti coloro che si sono arricchiti grazie a lui e che ora scontano giustamente il peso della riconoscenza: libri, film, documentari, non manca nulla, solo il teatro, ma arriverà presto l’occasione.
Diciamo subito che per Palomar ormai non è un gran problema produrre un film di Veltroni, tanto il contributo ministeriale è certo, la RAI è certa e in fondo qualche soldino possono anche spenderlo facendo finta che il prodotto sia originale, poetico e necessario.
Veltroni, lui, procede spedito nella via editoriale come se niente fosse, anzi come se fosse un regista affermato, un regista d’arte, un po’ Faenza, un po’ Muccino, forte di una melanconia che traspare a ogni piè sospinto dal suo volto perennemente contrito. Non che ci si debba toccare i sacrosanti appena incrociamo qualche creazione di Valter, ma quando constatiamo che Veltroni, Rutelli, Follini ed altri si sono riversati nel povero settore dello spettacolo, ci domandiamo se non sia il caso di rivolgerci all’Autority per la pirateria e denunciarli tutti.
Rimane il mistero su quanto vengano pagati i diritti d’autore e l’opera di regia e forse è meglio non saperlo visto che libri e professionisti di grande successo, talvolta, vengono sottostimati e le opzioni a condizioni misere sono di grande moda. Ma la politica esprime tutto il suo potere anche quando non si occupa di politica e a noi non resta altro sfogo che quello di non andare a vedere il film di Veltroni, così forse, la smette.
Renee ha qualche chilo di troppo e la pelle grassa. È insicura, si sente a disagio con il proprio corpo. Lavora in uno scantinato a Chinatown per la Lily LeClaire,una famosa casa di cosmetici, ma sogna un posto da receptionist negli uffici della sede centrale, tra lo sfarzo e il glamour della Fifth Avenue.
Un giorno, durante una seduta di spinning “estremo”, batte la testa e tutto cambia. È la stessa Renee di prima, ma guardandosi allo specchio si vede bellissima: il doppio mento è sparito, la pelle si è fatta velluto. Con l’autostima alle stelle, inizia una nuova vita.
Amy Schumer è uno dei volti comici più noti e apprezzati d’America – Inside Amy Schumer (2013-in onda), stand-up comedy vincitrice di un Emmy e di un Peabody Award. Seguendo le orme impresse sul piccolo schermo da Tina Fey (Saturday Night Live) e Julia Louis-Dreyfus – Veep – Vicepresidente incompetente (2012-in onda) -, l’attrice d’oltreoceano pratica una comicità battagliera, votata al turpiloquio, affrontando i temi della sessualità e dei ruoli di genere. Uno spirito “cafone” che nel cinema a stelle e strisce, da sempre, ha caratterizzato l’universo maschile – come la trilogia Una notte da leoni di Todd Phillips (2009-2013) – ma che negli ultimi anni ha provato a tingersi di rosa. La volgarità mascolina, tuttavia, sulla bocca del gentil sesso perde d’efficacia, appare innaturale (e imbarazzante) – Crazy Night – Festa col morto di Lucia Aniello (2017). In questo contesto, il grande merito della Schumer è stato riuscire a preservare, ed esaltare, la propria femminilità, reinventando una scurrilità estrogena salace e piccante – Un disastro di ragazza di Judd Apatow (2015).
In Come ti divento bella! la comica statunitense smorza gli eccessi – il concorso di magliette bagnate -, frena la lingua (biforcuta), mettendo la sua verve al servizio della sceneggiatura. Con grande autoironia, Amy, il brutto anatroccolo, (di)mostra come una donna “normale”, con un po’ di pancetta e qualche brufolo, possa comunque essere attraente, sentirsi carina – l’I Feel pretty del titolo originale – in un mondo di bellezze “perfette”, statuarie (Naomi Campbell) e social (Emily Ratajkowski), prodotti della società dell’apparenza.
Escluse alcune sequenze fin troppo retoriche – come l’arringa conclusiva alla Yes we can (be pretty) -, il duo registico composto da Abby Kohn e Marc Silverstein mette in scena una commedia che, attraverso il sorriso, nutre l’autostima, insegna l’arte dell’accettazione – Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris (2006) – e demolisce quel senso d’inadeguatezza che la cultura dello spettacolo ha insinuato nel subconscio femminile – così come in quello maschile, si veda Ethan (il fidanzato zumbero e poco rude) -, ricordando ad ogni donna il fascino dei propri difetti, la sua bellezza (interiore).
Tre ragazzini indiani vengono arrestati. In attesa di giudizio, alla stazione di polizia, ascoltano la storia di Aja, ex-fachiro ora insegnante. Bambino poverissimo di uno slum di Mumbai, cresciuto tra trucchi di magia e furti, l’uomo realizza il proprio sogno quando, adulto, riesce a visitare il negozio Ikea di Parigi. In un soggiorno Kallax incontra Nelly ed è subito colpo di fulmine. Fissato il primo appuntamento sotto la Tour Eiffel, però, Aja le dà buca perché, addormentatosi in un armadio, è costretto ad un mirabolante viaggio tra Europa e Africa, prima di poter finalmente tornare da lei.
Tratto dal best-seller “L’incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea”(2013) di Romain Puértolas, arriva in sala una co-produzione franco-belga-indiana – il protagonista è interpretato da Dhanaush, famoso performer, cantante e produttore del Rajasthan – che affronta il tema dell’immigrazione e del destino beffardo che costringe l’umanità al nomadismo forzato.
Il regista Ken Scott – Starbuck – 533 figlie non saperlo (2011) – mette in scena un coloratissimo e rocambolesco family-(road)movie a spasso per un Europa magica ed esotica. Una piccola Odissea, un viaggio tra i luoghi che sono (Libia, Italia, Francia) e furono (i moriscos in Spagna) teatro della migrazione nel Vecchio Continente; una favola contemporanea che sprizza allegria e buon umore – con la consueta esibizione musicale in stile Bollywood–, ma che, pur evitando il sentimentalismo e il pietismo (grazie all’ironia), non riesce a sfuggire, in alcuni momenti, ad una morale preconcetta – le condizioni “disumane” degli esuli nella sala d’aspetto spagnola – e ad una rappresentazione stereotipata di certe situazioni narrative – la sezione italiana, per esempio, mescola un intreccio alla “Vacanze romane” (William Wyler, 1953) con una versione comedy dei film sulla malavita nostrana (il produttore cinematografico tratteggiato come un boss imbranato).
Senza (volutamente) la forza drammatica di “Lion – La strada verso casa” di Garth Davis (2016), ma con la struttura analettica, che ripercorre l’infanzia del protagonista, di “The Millionaire” di Danny Boyle (2008), “L’incredibile viaggio del fachiro” è un’avventura metaforica che mostra l’importanza della casualità, del Fato, nelle nostre esistenze. Perché, come ricorda l’incipit della pellicola (citando Rousseau), l’uomo nasce libero e uguale ma un attimo dopo il suo primo vagito viene “incatenato”, indelebilmente segnato dal contesto (socio-economico) in cui è venuto alla luce.
E se la Sorte è ineludibile, l’uomo possiede comunque uno strumento formidabile per tentare di sottrarsi alle sue spire, riscattarsi e scegliere chi essere: l’immaginazione.
Così, Aja inventa una storia: una storia in cui sentirsi ricchi – di possibilità e di denaro –, una storia in cui farsi beffe della povertà, del colore della pelle; una storia che è un sogno da realizzare, da inverare, anche solo, come dirà l’uomo ai tre ragazzini, «in alcune parti… le più importanti»; la storia di un fachiro turista, non più profugo, che, attraverso un racconto, trasforma la tragedia dell’immigrazione in commedia.
E’ stato proiettato ieri al Far East Film Festival di Udine l’opera di Akihiro Toda, classe 1983, intitolata “The Name” ( 名前「Namae」). Tratto da un soggetto originale di Shusuke Michio e sceneggiata da Yusuke Moriguchi, vincitore del premio Naoki, è un film che narra di un uomo maturo, solitario e schivo, che incontra una giovane adolescente alquanto stravagante con la quale ha in comune la strana abitudine di vivere vite parallele. La giovane Emiko, interpretata dalla diciassettenne Rino Higa, si spaccia per la figlia dell’uomo il quale decide di stare al gioco ed asseconda questo strano rapporto filiale. Ma ciascuno nasconde un doloroso segreto destinato a legare le loro vite. Sono come due tessere di differenti mosaici che per un eccezionale caso s’incastrano perfettamente. Una relazione dichiaratamente finta, ma che scatena in entrambi un’indagine autentica sulla propria personalità e sul proprio passato. Bizzarro è il comportamento del quarantenne Masao Nakamura, interpretato da Kanji Tsuda, che usa nomi differenti i quali associa ai suoi diversi alter ego che svolgono altrettanti lavori.
Il nome, come è intuibile, è il tema centrale del film. Dare il nome a cose e persone, significa conoscere ed in qualche modo dominare ciò che si è nominato. Ma allo stesso tempo un nome può essere una maschera, una finzione, che cela la vera natura di sé esponendo alla società, al suo giudizio ed alle sue pressioni, soltanto un feticcio senza alcuna importanza. Il nome di una persona e della sua famiglia hanno in Giappone una importanza fondante e totale sulla vita di un individuo e macchiarlo di disonore implica di fatto l’ostracismo e la morte civile. E allora ecco che vestire un nome falso diventa l’estrema ratio contro una società così severa e poco indulgente come quella giapponese. In questo modo Masao diventa un attore che perde la propria verità, mentre Emiko, che si è iscritta al liceo ad un corso di recitazione, per la stessa ragione non riesce invece ad interpretare il ruolo assegnato ed è l’insegnante a chiarire che se non si passa prima attraverso ad una genuina conoscenza di sé neppure la finzione risulta credibile e la recitazione appare manierata, il personaggio meramente mimato senza una reale consistenza.
Il nome, per estensione, è anche la figura della casata, della famiglia e, in definitiva, della figura del padre. Per questo la prima inquadratura è la prua di una barca che incede nell’acqua. Una barca che trasporta Emiko alla sua ricerca. E’ una chiara metafora della figura paterna come strumento di conoscenza e guida per la conquista del sé e del mondo. Nella cultura giaponese c’è un detto molto noto “Ichigo Ichie” ( 一期一会) che in sostanza è traducibile con “ogni incontro, un’occasione”. E dall’incontro di Emiko e Masao, dalla finta relazione padre figlia, ciascuno troverà nell’altro proprio quell’occasione per un percorso di verità.
Il tono del film è quello della commedia anche se i temi che emergono, mano a mano che il film procede, diventano sempre più drammatici. Per gli appassionati di tassonomia la pellicola è quindi classificabile come un “Dramedy“, ma non è sbagliato affrontarne la visione senza alcun pregiudizio.
Quale epilogo migliore per un re della risata se non morire a 91 anni in una città folle come Las Vegas? E’ un palcoscenico eccellente dal quale uscire con classe da questo mondo e proprio qui si è chiuso il sipario sull’ultimo atto di Jerry Lewis, attore, regista, produttore, ma soprattutto comico. Non è un caso che si sia spento in una città di eccessi e paradossi che sono gli ingredienti della commedia, quel genere in cui eccelse sia davanti che dietro la macchina da presa. Nato nel 1926 in una famiglia di attori ebrei, era ormai in ritardo per partecipare agli anni d’oro del genere, apparso con il sonoro proprio in concomitanza con il new deal di Roosvelt, ma abbastanza in tempo per perpetrarne le glorie della commedia screwball per altri ventanni almeno. Eppure la fisicità di Lewis non avrebbe sfigurato nemmeno ai tempi delle slapstick all’epoca del cinema muto dove dominavano capitomboli ed acrobazie mozzafiato, una caratteristica senza tempo che forse spiega la lunga carriera del comico appena scomparso.
A 19 anni inizia il sodalizio con Dean Martin che segnò la prima parte della sua carriera, un periodo di successi sfolgoranti raccolti al cinema ed a teatro come pure in televisione, dove il duo inventò il Telethon per raccogliere i fondi per la cura della sclerosi.
Interrotta la collaborazione con Martin nel avvenne 1960 il debutto come regista con il film “Ragazzo tuttofare” dove è anche interprete di un fattorino pasticcione. Il film non ha pressoché alcuna trama, vi è l’hotel di Fontainbleau di Miami a fare da scenario ad un personaggio chiaramente costruito su Lewis, che gli da modo di esprimere appieno quella comicità che faceva sbellicare il pubblico. Vale la pena di ricordare Carlo Romano, sceneggiatore, attore e doppiatore che fu la voce italiana del Lewis d’annata e che seppe restituire nella nostra lingua la stessa verve dell’originale.
Negli ultimi anni di attività si dedicò alla produzione di alcuni remake di suoi precedenti successi, mentre meno significativo ma non trascurabile è l’aspetto musicale della sua carriera che lo vide esibirsi come cantante in studio ma soprattutto dal vivo. Nell’insieme mantenne sempre il contatto diretto con il pubblico che è tipico della stand up comedy, una delle forme più difficili di comicità ed in cui lui primeggiava senza sforzo. Una vis comica per nulla intaccata dalle difficoltà della vita che pure non gli risparmiarono malanni e dolori tra cui quello terribile del lutto per il figlio più giovane morto suicida a 45 anni.
Se nella storiografia della commedia ci sono giganti come Capra e Lubitsch, tra i registi, e legioni di attori in cui il nome di Jerry Lewis si stempera, nel panorama dei comici egli costituisce un perno del panorama americano e mondiale di tutti i tempi che non sfigura accanto ai nomi di Keaton e Chaplin. Anzi Jean Lui Godard lo definì nelle pagine dei Cahiers du cinéma addirittura più grande di Chaplin. Le classifiche sono sterili come i paragoni per cui ci limitiamo a sottolineare come Lewis avesse il talento ed il coraggio di mettersi in gioco dal vivo con le sue performance davanti ad ogni pubblico, una forma d’arte che Will Farrell ha definito “dura, solitaria e spietata”. Altro che picchiatello.
Con lo sbarco di Mc Donalds il 20 Marzo 1986 in Italia piazza di Spagna fu bagarre; un conflitto di culture, uno scontro di Weltanschauung, praticamente una caciara, la triade: burger-patatine-milkshake, per rendere la filosofia foodglobal.
Era il panino uguale per tutti, la teoria, in quanto simbolo di un Paese dove gli avventori più ricchi compravano la stessa identica cosa di quelli più poveri; un messaggio di modernità e progresso, un altro passo verso la democratizzazione “forzata”.
Nulla di più falso, era tutto per distribuire il fast food in Italia, Paese dalla grande tradizione culinaria.
Ma nel 2006 ad Altamura, provincia di Bari, un chioso giallo rosso deve arrendersi perché surclassato da una bottega che vende delizie locali.
Nacque il film con Arbore, diretto da Nico Cirasola con il titolo FOCACCIA BLUES, per l’occasione scrisse anche il New York Times “la grande M è stata sconfitta da un’intera cultura”.
La morale è che il “nemico” non ci combatte. Ci ingloba.
L’augurio è che ci siano altre realtà che prendano esempio da quella di Altamura in Italia.
E’ un film della giovane attrice e regista israeliana Hadas ben Aroya, classe 1988. L’opera il cui titolo originale è “Anashim Shehem Lo Ani” è appena stata premiata al festival argentino di Mar De La Plata come miglior film ed è nella rosa dei film in concorso alla prossima edizione del Festival di Locarno.
E’ la storia di Joy, interpretata dalla stessa Hadas, una giovane ragazza di Tel Aviv incapace di elaborare la fine della storia con il suo ex ed altrettanto incapace di instaurare un rapporto maturo con un nuovo ragazzo appena incontrato, un intellettuale indipendente e poco conformista.
Il tema dell’impossibilità di rimanere soli e la dipendenza quasi patologica dal sentimento di amore non è una novità nel cinema e questo è il limite di questa pellicola peraltro molto ben congegnata e realizzata. Non ci sono errori di gioventù che spesso si riscontrano nei giovani autori, non vi è alcuna inquadratura esteticamente compiacente e la sceneggiatura asciutta è ben rispettata in un montaggio serrato dove s’intuisce non si è lesinato con i tagli.
La musica, esclusivamente diegetica, colma il vuoto affettivo della protagonista e distrae dal pensiero ossessivo dell’ex e della nuova fiamma, entrambi affettivamente indisponibili e distanti anche se vivono nello stesso quartiere di Tel Aviv dove Joy si aggira con le sue inseparabili cuffiette. Le scene di nudo sono funzionali al racconto e lungi dall’essere erotiche sottolineano invece la carica anaffettiva dei rapporti intrattenuti da Joy, che utilizza il sesso come strumento per trattenere a sé il suo amato.
Un film in stile perfettamente mumble core e dalla sensibilità squisitamente femminile che non concede nulla al romanticismo o all’ironia precostruita per strizzare l’occhio al botteghino. Speriamo che questa onesta attitudine non sia di ostacolo affinché questo film trovi un distributore anche per l’Italia.
Rakib, un giovane ragazzo indonesiano, diventa assistente di Purna, ex generale del regime in pensione. Quando Purna inizia una campagna elettorale per essere eletto sindaco, Rakib si lega all’uomo, diventato per lui mentore e figura paterna. Un giorno, però, un manifesto elettorale di Purna viene trovato vandalizzato: un gesto che avrà conseguenze inimmaginabili per entrambi. Con un ritratto intimo di due generazioni che vivono sotto lo stesso tetto, il regista Makbul Mubarak ripercorre un doloroso periodo storico della sua nazione con un thriller intenso, che presenta forti risonanze con la contemporaneità ed una forte universalità del tema della lealtà e della vicinanza al potere.
In occasione del Giorno della Memoria (27 gennaio) ci sembra opportuno segnalarvi una selezione di film nel nostro catalogo che sono stati fondamentali nel racconto di ciò che è successo durante gli anni della dittatura nazista: dai film di propaganda ai documentari, dalle prime opere realizzate nella Germania Est al cinema hollywoodiano, per conoscere il ruolo fondamentale della settima arte nella storia, nonché importante strumento di conoscenza.
Nelle sezione “Guerra” sul nostro sito potrete quindi trovare capolavori come “I figli di Hitler”, un’aspra critica del regista Edward Dmytryk sull’educazione hitleriana, al vincitore del Festival di Locarno “Rotation” e il film perduto della propaganda nazista “Das Ghetto”.
L’associazione e compagnia teatrale le Muse Impenitenti, Marinetta Martucci e Arianna Villamaina, due attrici potentine, tornano a calcare il palcoscenico con una nuova esilarante ed originalissima commedia: Come lo zucchero per il caffè – ‘‘O Teatro è ‘o paese d’ ’o vero. Una commedia divertente e con performance di danza fuori le righe, che ci trasporta in un musical vero e proprio per poi allietare il pubblico con una sorpresa golosa. Lo spettacolo è un contenitore di arte a tutti gli effetti ed è un inno alle mille sfaccettature che in essa sopravvivono.