Petrunya, il capro espiatorio, insegna il “Change management”

Caro formatore, 

Siamo sottoposti ai messaggi più contraddittori. Un Guru ci stimola a circondarci di collaboratori che rompono gli schemi, un altro ci ricorda l’importanza del lavoro di squadra, ove tutti devono collaborare armonicamente. C’è chi spaccia l’umiltà come la Virtù cardinale, chi ci osserva che la Leadership deve essere rivoluzionaria. Oggi Leonardo da Vinci non convincerebbe alcun Recruiter, nessun genio del passato troverebbe lavoro.

Cosa sta succedendo? 

Ogni manager vuole collaboratori di Talento, orientati al cliente, collaborativi con il Capo, resilienti ad ogni stranezza organizzativa, che sappiano sopportare con cristiana rassegnazione i colleghi brocchi e pasticcioni.  

Petrunya, laureata in Storia, disoccupata intelligente, dopo un ennesimo colloquio di lavoro umiliante, si trascina sconsolata alla festa del paese, ove il prete ortodosso lancia, come ogni anno, la croce nel fiume. I ragazzi del paese si gettano a petto nudo nel fiume gelido per recuperare il sacro simbolo. Ma Petrunya, in un impulso bestiale, si tuffa vestita e prende la Croce. 

La comunità è spiazzata. E’ chiaro che nessun reato è stato commesso ma tutti vogliono punire la poveraccia, che viene condotta alla Polizia, interrogata, umiliata. Il gruppo esige il sangue del capro espiatorio. 

Ma Petrunya non abbassa la testa e, alla fine di un percorso catartico, dove si confronta con l’amica, la madre, le istituzioni, ritrova sé stessa, la propria fiducia, un futuro. 

Il linguaggio filmico di Teona Strugar Mitevska, la regista di “Dio è donna e si chiama Petrunya”, è preciso ed evoluto. La macchina da presa è usata magistralmente per indagare i grandi temi della narrazione, a partire dal ruolo del cinema stesso. Il protagonista del testo è il simbolo, ovvero il ponte tra quello che esiste, la società umana, gretta e meschina, e ciò che non esiste, che non si può vedere, che non si può toccare. 

E quindi significative le due inquadrature che aprono e chiudono il film. All’inizio la protagonista è al centro di un reticolo di linee senza un senso, alla fine imbocca un sentiero ben tracciato nella neve. 

         Dunque un testo che chiarisce come ogni essere umano cerca la propria essenza nel confronto con il gruppo che, per definizione, è castrante. In questo confronto i Leader si difendono tramite le Regole, che non sono altro che consuetudini inutili ma rassicuranti.  

         “L’abbiamo sempre fatto così” è il fondamento delle comunità che, coltivando pseudo-tradizioni, fanno prevalere la forma sui contenuti, la grettezza sull’umanità. 

         Come può evolvere quindi una comunità ove gli innovatori vengono umiliati prima che mettano piede nel perimetro. Come possiamo fare “Change management” ove soffochiamo il personale con rituali e procedure che non portano alcun beneficio. 

         “Dio è donna e si chiama Petrunya” è un film da gustare per comprendere quanto valore ci sia nelle persone, e quanto poco siamo in grado di valorizzarle. 

Luigi Rigolio

Parasite

Caro formatore, 

Il film di Bong Joon Ho va visto perché è un capolavoro. E’ una sorta di tragicommedia che contiene tutti gli ingredienti dei grandi film d’autore.  Sebbene sia stato letto prevalentemente come un film di denuncia sociale, “Parasite” è un testo che si interroga sulla condizione umana. Siamo quindi sulla scia dei grandi, da Hitchcock a Spielberg (“Salvate il Soldato Ryan“), passando da Mamet (“La casa di giochi“) e Wayne Wang (“Smoke“), che coniugano i grandi temi del cinema: genitorialità, comunicazione, viaggio, scrittura. 

La prima inquadratura, biancheria intima casualmente appesa ad un lampadario spento, racconta di una condiziona umana dominata dalla casualità, dal destino. 

La vicenda narra di una famiglia di disoccupati dei bassifondi puzzolenti di una città coreana che, grazie al caso, riesce a trovare impiego presso una famiglia di ricchissimi. Il tema della gestione del personale è trasversale, e contiene più spunti di quanto appaia ad una prima lettura. Prima il figlio si fa assumere come insegnante di inglese tramite un diploma falso, poi la figlia diventa insegnante di disegno del bambino più piccolo, infine anche padre e madre diventano l’autista e la governante. Tutto è basato su false raccomandazioni ed inganni, per cui i familiari devono fingere di non conoscersi. All’inizio le cose vanno bene, visto che i quattro si dimostrano capaci collaboratori domestici, ma in un crescendo di tensione la vicenda si ingarbuglia. Dal rifugio antiatomico sotto la casa padronale, chiaro simbolo dell’inconscio, emergono antichi problemi che, in un crescendo di tensione, rovinano truffatori e truffati. 

Le maschere cadono ed emerge la verità, rappresentata dal rigurgito delle fogne, dal sangue dei corpi, dagli odori. 

Il mondo dei Miserabili è speculare a quello dei Fortunati: ciò che conta è la paternità, che manda messaggi in codice dal piano inferiore. Bisogna mettersi in ascolto per cogliere i messaggi.   

La verità appare solamente ai bambini e agli animali, mentre gli adulti, che recitano una parte, sono ciechi gli uni per gli altri. Per questo la padrona di casa assume con fiducia crescente i truffatori uno alla volta, seguendo una catena karmica di raccomandazioni.

La vicenda chiarisce quanto poco possano essere di aiuto le “referenze”, visto che non chiariscono cosa una persona sappia fare e neppure come lo sa fare. Ogni persona ha risorse inaspettate e persino le menzogne hanno un valore, in quanto si tratta di sogni interrotti, di progetti incompleti. 

Così non ci sono veramente i cattivi, come non ci sono veramente i buoni, quanto coloro che non sentono e che non vedono. Per questo non è possibile fare piani, dobbiamo accontentarci di cogliere i momenti interpretando la nostra parte, approfittando della fortuna, grande protagonista delle vicende umane.  

Galleggiando su un mare di rifiuti, la famiglia raccontata da Bong Joon Ho vive una vita da sogno, partendo da un incubo ed approdando ad un incubo peggiore. Il salto di casta, ove non vi sia un vero percorso, è impossibile. 

Il vero riscatto è il percorso catartico che porta dagli inferi al risveglio, dall’ignoranza alla risata, dalla menzogna alla voce del padre. Buddismo e psicanalisi nella versione coreana. 

Luigi Rigolio

Le invisibili

Le invisibili, di Louis-Julien Petit racconta le vicende di Manu e Audrey, due assistenti sociali che ce la mettono tutta per riabilitare le loro assistite, donne della Francia del nord senza fissa dimora. 

Il regista Petit in basso circondato dal cast

Ne esce una involontaria rappresentazione della Gestione del Personale. Il quadro è completo e comprende la selezione del personale, la scrittura del CV, la formazione, la relazione capo-collaboratore, la vision, la compliance e le regole, il coaching, la motivazione ed il team building. 

Ma tutto è capovolto e, per magia, diventa più chiaro. Le assistenti sociali assistono, contro la prepotenza e i pregiudizi.  

Ogni donna è una sfida, come la clochard che ha imparato in carcere a riparare elettrodomestici. Si tratta di una persona talmente onesta che dichiara, nei colloqui di lavoro, di avere ucciso il marito. Bisogna convincerla ad omettere questa confessione, visto che dall’altra parte si alza una barriera. Niente da fare, è più forte di lei raccontare la verità. 

una scena del film

Poi c’è la ragazza di buona famiglia, ma portata al conflitto e ad avvelenare le relazioni. Finisce in un brutto giro e viene rifiutata anche dalle altre in una sorta di mobbing dell’emarginazione. 

Le storie sono tante e tutte caratterizzate da difficoltà insormontabili, quali una malattia psichiatrica, un disturbo borderline di personalità, una storia traumatica. 

Caro formatore, quali lezioni possiamo derivare da queste vicende dei bassifondi? In primis che ogni individuo ha risorse specifiche in coabitazione con la propria disabilità. Questo vale per ogni contesto lavorativo, per cui il volontariato offre, ove si sceglie un approccio vero, straordinarie opportunità per comprendere. 

Non a caso l’immagine iniziale: siamo in viaggio.; il percorso è il codice di chi ci prova, di chi vuole veramente valorizzare le persone. E ove maggiore è la povertà tanto più illuminante il percorso.  

La cartina al tornasole è rappresentata da Hèlène, una volontaria che, avvicinandosi da ricca al mondo rovesciato finisce per gettare alle ortiche il proprio matrimonio, le proprie certezze. La sua presenza straniata è contrassegnata da continui “non capisco”. Ma ci prova e, per questo, riesce a portare un contributo, portando a casa molto di più.  

Distribuito nelle sale italiane da Teodora

Il vero nemico è il pregiudizio, che non è tanto un fenomeno culturale, quanto la voglia di semplificare. Dove non si capisce, si mandano le ruspe. Non è una questione di cattiveria, quanto di incapacità di andare in profondità. L’ideologia idiota (“devono cavarsela” “Se le aiutiamo non facciamo il loro bene”), sostenuta dal pensiero unico della pseudo economia, genera soluzioni sempre più costose. 

L’uniformità impossibile della regola non valorizza nessuno.  

Dunque il vero nemico della valorizzazione del personale è nella superficialità, nel giudizio prematuro, nella demotivazione che inevitabilmente coglie chi ci prova. Chi mette le mani nel pattume per riciclare cose o persone deve avere molta pazienza. Il mondo infero dei perdenti ed il mondo paradisiaco dei vincenti non sono così diversi, altrimenti non esisterebbe il “change management”, la versione nobile della riabilitazione.     

 Per questo il vero eroismo è quello di chi ci crede, sia che lavori con i disabili certificati sia che assista i disabili integrati nel mondo del “profit”. Ecco quindi dimostrato il bivio: riciclare persone con pazienza e intelligenza oppure accettare i costi delle semplificazioni. Bisogna scegliere.  

Luigi Rigolio

Norman, maldestro fixer con talento negoziale

Caro formatore, “L’incredibile vita di Norman” ( Norman: The Moderate Rise and Tragic Fall of a New York Fixer, 2017), sembra un film poco adatto a supportare la formazione, visto che non ci sono eroi né modelli nella storia raccontata da Josef Cedar, il regista newyorkese di origine ebraica già candidato all’oscar per il suo precedente “Footnote” (“Hearat Shulayim” ,2011) . 

Il regista Joseph Cedar

Richard Gere è Norman Oppheneimer, un uomo qualunque, senza alcuna credenziale, che si presenta come “Consulente Strategico”. Nei suoi sforzi di allargare la sua rete, aggancia, dopo un lungo pedinamento, il cavallo giusto, un sottosegretario del governo Israeliano, cui regala un paio di scarpe di lusso. In bilico tra il servilismo e la vera amicizia, riesce a superare le reticenze del politico, che sa di non poter accettare regali costosi. Tra i due nasce un legame che perdurerà anche quando, tra anni dopo, Micha Eshel (Lior Ashkenazi) diventa primo ministro. Tre anni ove Norman si è prodigato per aiutare il potente amico, addirittura riuscendo ad inserirne il figlio all’Università di Harward, nonostante non ne avesse i titoli. Questi risultati vengono ottenuti utilizzando l’aiuto di altre persone, che a loro volta abbisognano di favori. Norman, non potendo fare leva su alcuna reale risorsa, adotta la strategia del Barone di Munchausen, che si sollevava tirandosi la treccia di capelli.

Richard Gere e Lior Ashkenazi in una scena del film

Il film indaga il limite della morale attraverso la miseranda condizione dell’oggi, ove gli umani si caratterizzano per il bisogno di aiuto quanto dalla povertà di risorse.

Ma è proprio in questo contesto che Norman, maldestro faccendiere (fixer) riesce ad ampliare progressivamente la rete e la visibilità, senza dimostrare competenze di alcun tipo, e senza peraltro ottenere alcun beneficio personale. La sua “strategia” funziona fino a ché le sue telefonate vengono intercettate cosicché il Primo ministro finisce sotto indagine. Ma quando tutto sta per andare a rotoli e l’ansia dello spettatore arriva al culmine, Norman, omuncolo privo di statura morale quanto di professionalità, chiude in modo geniale o forse eroico le parentesi che aveva aperto. Anche il Primo Ministro sorprende nel finale, svincolandosi dal trito cliché del politico senza scrupoli. Ne esce un film poco allineato all’etica corrente, quasi una reazione agli isterismi moralistici dei nuovi soggetti politici.

Lior Ashkenazi nella parte di Micha Eshel

Cosa possiamo portare in aula della pellicola di Josef Cedar? Innanzitutto una memorabile rappresentazione didascalica del talento, la risorsa che ogni essere umano possiede. Secondo i Guru che ne hanno definito il funzionamento, il talento è una moneta a due facce, indispensabile in alcuni contesti, controproducente in altri. L’altezza è un dono per un giocatore di pallacanestro, un limite per un giocatore di hockey sul ghiaccio.

Charlotte Gainsburg interpreta nel film un agente del Mossad

Norman è una rappresentazione didattica del professionista dotato di un unico talento, il bisogno di creare relazioni aiutando gli altri. Nel tentativo di aiutare la “pericolosa” Alex Green (Charlotte Gainsburg), agente dei servizi di sicurezza israeliani, che utilizzerà contro di lui le informazioni captate, disegna la propria rete di relazioni su un foglio, ciò che costituirà la prima prova del dossier giudiziario. Il bisogno di aiutare gli altri è uno dei talenti chiave del negoziatore efficace, che è un motore di accordi che fanno muovere le cose. E Norman, per quanto maldestro e non consapevole dell’esistenza di codici normativi (il nome non può essere casuale), è un efficace negoziatore. Nella sua mente, prima di tutto, c’è il bisogno di offrire qualcosa, anche quando non ha nulla.

Luigi Rigolio

 

La signora Toku, la passione contro tutto

Caro Formatore,
nelle precedenti recensioni abbiamo toccato importanti temi della gestione del personale e “Le ricette della signora Toku”, di Naomi Kawase, ci permette di riassumere alcuni punti chiave, affrontando il tema della motivazione, che non avevamo ancora discusso.
Sentaro, interpretato da Masatoshi Nagase reduce da un bellissimo cameo nell’ultimo film di Jim Jarmush “Paterson”, cucina Doriyaki (dolci giapponesi ripieni) in un chiosco di città per ripagare un debito che lo lega a vita alla padrona del locale. E’ demotivato e tende a ricadere nell’alcool, che gli ha già creato parecchi problemi.
Si presenta la signora Toku (Kirin Kiki)per avere un posto di aiutante, ma lui la respinge, in quanto troppo vecchia e malandata.
Dopo qualche giorno lei porta una confezione di ripieno per Doriyaki, che lui assaggia, rimanendo sorpreso per il sapore sublime.
Accetta quindi che l’anziana signora, la cui richiesta economica è al limite del simbolico, inizi a lavorare come assistente (la sua richiesta economica è praticamente simbolica). L’arte della signora nel preparare il ripieno porta subito i risultati. Passione ed talento della signora Toku fanno aumentare i clienti in modo verticale.
Un triste finale però è dietro l’angolo, in quanto si viene a sapere che la signora Toku vive nel ricovero per i lebbrosi alla periferia della città (pur essendo ormai curata, la malattia di Hansen era ancora attiva in Giappone fino a dopo la II guerra mondiale ed i pazienti erano ricoverati in strutture chiuse) .
Oltre ciò l’antipatica padrona del locale tenta di imporre il proprio viziato nipote come collaboratore. Trattasi di un giovane viziato e chiaramente poco abituato alla “fatica”.

toku4
Masatoshi Nagase nella parte di Sentaro

Basato sull’omonimo romanzo di Durian Sukegawa il film aprì la sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes del 2015.Nonostante ciò il film non è stato accolto positivamente dalla critica, in quanto ritenuto troppo “sdolcinato”, ma si rivela utilissimo per chiarire che:

1) il talento non ha età.

Kirin Kiki ne la signora Toku
Kirin Kiki ne la signora Toku

Come stanno scoprendo molti manager ed imprenditori, il “talento”, ovvero la dotazione dell’individuo porta in dote e non può essere insegnata, è diffuso ma raro. Il talento è diffuso in quanto ogni persona possiede risorse, ma è raro in quanto l’attitudine o potenzialità (sinonimi di talento in contesto professionale) per quel tipo di lavoro si trova solamente in poche persone. Cosicché risulta antieconomico escludere una persona che abbia la potenzialità per un determinato lavoro a causa dell’età o per altri fattori che non siano la mancanza di attitudine. Quante ricerche di personale sottolineano che il candidato deve essere bravo a lavorare in un team, ciò che sottintende che deve evitare di mostrare qualsiasi tratto di personalità autonoma durante la fase di selezione.
Escludere quindi candidati per tratti del carattere (accade molto frequentemente) oppure perché non si adattano alle consuetudini organizzative (ad esempio l’orario di ufficio), può portare a scegliere candidati molto “allineati” ma che non faranno la differenza. Perché, per fare la differenza, l’unico ingrediente essenziale è il talento.

2) La selezione del personale non va fatta “di pancia”, ma tramite un’analisi che utilizzi adeguati strumenti.

il test Voight-Kampf di Blade Runner

il test Voight-Kampf di Blade Runner

Abbiamo già approfondito il tema della valutazione dei candidati, che è una fase cruciale dei processi HR. Troppo spesso i valutatori, sia manager che specialisti, si fanno fuorviare da segnali che non dovrebbero essere considerati, perdendo di vista ciò che va analizzato, ovvero la capacità attuale ed eventualmente la potenzialità del candidato. Per fare ciò servono test mirati, mentre il “colloqui” risulta uno strumento molto impreciso.

3) La motivazione origina dall’anima della persona e non dal manager.

Leonardo DI Caprio in una scena di Wolf Of Wall Street
Leonardo Di Caprio in una scena di Wolf Of Wall Street

Continuiamo a leggere, anche nella letteratura specializzata, che i “Leader” debbano “ispirare” i collaboratori. Purtroppo i “leader”, intesi nel senso della letteratura specialistica, sono rari, senza contare che spesso sono all’origine di grandi disastri.
Le ricerche più recenti dicono che i lavoratori che si motivano nonostante i loro capi. Le motivazioni che mantengono la loro forza nel tempo non si radicano nell’innamoramento per un’idea trasmessa da un “leader” carismatico. Senza voler nulla togliere alla potenza della “Vision” come agli strumenti che devono orientare i gruppi di lavoro, la signora Toku ci insegna che la passione per il lavoro nasce da dentro la persona, da una psiche fatta di segni e significati personali quanto indistruttibili, in quanto radicati nella storia profonda dell’individuo.

Il film di Naomi Kawase ci insegna quanto poco un Curriculum Vitae rappresenti le risorse che fanno la differenza: passione e talento.

Luigi Rigolio

Alan Touring e i “Cacciatori di teste”

Caro Formatore,
ormai è raro avere il privilegio di tenere un corso sulla selezione del personale. Fino al periodo pre-Biagi (legge.n° 30 del febbraio 2003), quando il Contratto a Tempo Indeterminato era la forma prevalente di dipendenza continuativa tra azienda e lavoratori, i corsi sul tema erano molto diffusi. Fino agli anni ’90 molte agenzie di formazione proponevano percorsi sulla progettazione del percorso di selezione e sulla esecuzione delle singole fasi, dalla pubblicazione dell’annuncio all’inserimento dei candidati prescelti.

Will Smith in "La ricerca della felicità" di Gabriele Muccino (2006)
Will Smith in “La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino (2006)

Con l’introduzione della cosiddetta flessibilità la knowledge sulla selezione del personale ha subito un declino d’investimenti e di interesse. Imprenditori e manager assumono personale con varie forme di contratto a termine, mirando prevalentemente al risparmio economico.

Isla Fisher in "I Love Shopping" di P.J. Hogan (2009)
Isla Fisher in “I Love Shopping” di P.J. Hogan (2009)

La disciplina, già di per sé ostica, oramai non più coltivata, ha subito una drammatica involuzione, e i “sintomi” sono sotto gli occhi di tutti. Annunci poco chiari, interviste grottesche, drammatici errori di selezione. Sintomi di una malattia molto costosa; è verosimile che il calo della produttività in Italia dipenda anche dal declino della capacità di valutare i collaboratori in tempi brevi, elemento chiave nei progetti d’inserimento lavorativo. Contrariamente a quanto si possa pensare le persone, grazie alla flessibilità, per tempi incredibilmente lunghi rimangono parcheggiate in ruoli per i quali non sono adatte!

José Garcia in "Il cacciatore Di Teste"
José Garcia in “Il cacciatore Di Teste”

In “Il cacciatore di teste” (2005), di Costa-Gavras, Bruno Davert (Josè Garcia), è un tecnico qualificato che si ritrova senza lavoro. Affronta così il processo di selezione del personale ove conosce la “supponenza” di una selezionatrice. L’intervista di valutazione è paradigmatica per la ricorrenza degli errori più banali che commettono i selezionatori.
A seguito di questa esperienza, Bruno, conscio di non poter puntare sul normale iter di ricerca di un lavoro, decide di uccidere tutti gli altri tecnici con la sua medesima qualifica, che “fortunatamente” sono solamente quattro in tutta la Francia. Naturalmente il film è il pretesto per esporre il tragico tema del confronto, caro al regista spagnolo, tra l’individuo e ciò che lo sovrasta, in questo caso le grandi organizzazioni.
Le pellicole che mettono in luce la scarsa professionalità dei selezionatori del personale non si contano.

Francçois Cluzet e Omar Sy in "Quasi Amici"
Francçois Cluzet e Omar Sy in “Quasi Amici”

In “Quasi amici” (Francia, 2011, regia di  Olivier Nakache e Eric Toledano), la persona incaricata di trovare l’assistente del ricco Philippe (François Cluzet), rimasto totalmente paralizzato a seguito di un incidente, sta per farsi sfuggire il candidato che risulterà più adatto, Driss (Omar Sy). Costui è un emarginato della Banlieue di Parigi che si presenta al colloquio solamente per avere il diritto allo stipendio sociale. Non è assolutamente motivato né coltiva la minima speranza di avere il lavoro, ma viene assunto grazie all’intuizione di Philippe, che ne intuisce il potenziale.

una scena del film "Quasi Amici"
una scena del film “Quasi Amici”

Quante volte i colloqui di selezione puntano a carpire notizie sulla “motivazione” del candidato, e quante poche volte i selezionatori riescono ad investigare il potenziale insito nella persona?
Se gli esempi di colloqui di selezione condotti male sono pressoché infiniti, risulta difficile trovare i casi “formativi”, a parte poche eccezioni.

Benedict Cumberbatch interpreta Alan Touring in "The Imitation Game"
Benedict Cumberbatch interpreta Alan Touring in “The Imitation Game”

Molto didattico “The Imitation Game” (Morten Tyldum, 2014) ove la selezione mira alla capacità di risolvere quiz combinatori. Alain Touring, incaricato di decriptare i messaggi delle forze armate tedesche, aveva compreso come il talento non andasse ricercato nelle accademie. La pubblicazione del Quiz sui giornali gli permise di assemblare il team adatto assemblando persone da tutta l’Inghilterra, a prescindere dal Curriculum o dalla classe sociale. Niente di più chiaro per spiegare l’importanza del test nella selezione del personale.

Michael Douglas e Melanie griffith in "Vite Sospese"
Michael Douglas e Melanie Griffith in “Vite Sospese”

Sulla stessa linea Michael Douglas che intervista Melanie Griffith in “Vite sospese” (David Seltzer, 1992, USA) ci mostra come il test, per rilevare alcune attitudini, possa essere “incastonato” nel colloquio.

In sintesi gli errori tipici nel colloquio selezione del personale.
1) Sopravvalutare la storia professionale del candidato. Un ottimo Project Manager nell’organizzazione A potrà rivelarsi inadeguato nell’organizzazione B, ove il Job è completamente diverso. Poiché il processo di lavoro è diverso in ogni organizzazione anche le attitudini ricercate devono essere specifiche. Molti Job Title quali “Project Manager”, “HR Business Partner”, “Business Developer” ci dicono pochissimo sui compiti affidati, con enormi rischi per tutto il processo di selezione. Il sintomo tipico è solitamente un annuncio impreciso, che solitamente mira alle attitudini generiche (care al parruccone Steven Covey) quali la “capacità di lavorare in team”, l’“orientamento ai risultati”, la “determinazione”.
2) Confondere la personalità con il talento. Ciò che ci appare immediatamente nel candidato è il tratto psicologico relazionale che, per la maggior parte delle professioni, non determina poi il successo nel ruolo. Per questo le “prime impressioni” o le sensazioni “di pancia” vanno considerate fattori confondenti. Per la maggior parte delle professioni, ove ciò che fa la differenza è nel fare, nel produrre, saranno le capacità, i talenti a fare la differenza. Per questo l’ideale è appoggiarsi a test, soprattutto quando si ricerchino talenti quali la capacità di analisi, il problem solving ed in generale specifiche risorse psico-attitudinali. Purtroppo la maggior parte dei percorsi di selezione non prevedono test adeguati, quanto un’escalation di colloqui, spesso fatti da personale non preparato allo scopo. Il risultato è che vengono selezionati candidati che sono riusciti, nel percorso, a non irritare, a non allarmare i vari HR, Manager, Direttori dai quali sono stati intervistati. Sono i candidati “standard” il cui talento principale è la capacità di non farsi notare, di non infastidire, e la cui caratteristica lavorativa sarà una produttività mediocre, nelle ipotesi più fortunate.
3) Focalizzarsi sulla motivazione del candidato. Il colloquio è uno strumento specifico, che può evidenziare alcuni aspetti, ad esempio la capacità di comunicare, di relazionarsi, ma non è lo strumento adatto a rilevare altre risorse o attitudini, che, in assenza di test specifici, emergeranno solamente dopo che la persona è stata messa al lavoro. Per motivi imperscrutabili i selezionatori, anche professionisti, per estrarre la motivazione si affannano a scrutare nei profondi recessi del sistema limbico del candidato, che è solitamente preparatissimo a dimostrare la propria vocazione alla causa.

Meryl Streep e Anne Hathaway in "Il Divaolo Veste Prada"
Meryl Streep e Anne Hathaway in “Il Divaolo Veste Prada”

In conclusione, la selezione del Personale è la vetrina di un’impresa, ove si palesano il livello culturale della funzione HR, la capacità di pianificare del Management, la competenza del personale che esegue i vari passaggi. Il candidato, già dal primo colloquio, può capire se diventerà protagonista di un film dell’orrore, di una commedia all’italiana, del sequel di Fantozzi, o di un raro film a lieto fine.

 

Luigi Rigolio

CINEMA E MANAGEMENT: John Rambo porta i manager in prima elementare

Caro formatore,

il film più didascalico che sia mai stato prodotto è “First Blood”, del 1982. Il titolo italiano è “Rambo”. E’ fatto per insegnare il processo manageriale. Eppure la maggior parte delle persone sono convinte che si tratti di un’americanata, di un film pacchiano, di un primo tentativo di manipolare l’interpretazione della guerra del Vietnam.
Certo, John Rambo ha sicuramente i tratti dell’eroe caricaturale.

FirstBloodRambo_3106Pyxurz

Quando sale di prepotenza sul camion invita l’autista terrorizzato a guardare la strada: “E’ così che si fanno gli incidenti…”. Poi distrugge una città intera. E’ chiaro che si tratta di una figura iperbolica, possiamo dire simbolica, il cui compito è mettere a confronto due personaggi molto più reali, anche tratteggiati in modo didattico: lo sceriffo Teasle (Brian Dennehy) ed il Colonnello Trautman (Richard Crenna), due archetipi a tutti noi noti: il Capo reattivo ed il Manager proattivo.
“Proattività” è uno dei termini più utilizzati nel pittoresco mondo del Business. Di fronte ad un collaboratore che si giustifica per un errore capita frequentemente di sentire:
“Ma da te mi aspetto più proattività!!!”.
E’ un rimprovero che arriva da chi, da bordo campo, giudica il giocatore dopo l’azione, quando tutti hanno ormai capito cosa si sarebbe potuto fare. Il malcapitato non può difendersi, ormai la partita è persa!
Ma la proattività, quella vera, è invece l’attitudine chiave del Manager, e Rambo è un testo monotematico sul tema, che vuole togliere ogni dubbio in proposito.

firstblood1
Lo sceriffo Teasle è sempre focalizzato su quanto avvenuto prima, reagisce meccanicamente ad uno stimolo come l’ameba quando si ritira dall’attacco. Non pensa mai alle conseguenze delle sue azioni. I suoi risultati sono il minimo dell’efficacia ed il massimo del dispendio di energia. Produce situazioni dannose a catena cercando di riparare i danni che lui stesso ha generato. Allarga la voragine con le sue stesse inconsapevoli mani. Il povero Teasle paga tutto il prezzo della reattività!

Rambo Trautman
Trautman è invece interessato a quanto succederà, e mette in atto lo schema: “Prima analizzo la situazione, poi valuto le opzioni sul tavolo, poi scelgo l’opzione che ritengo migliore”. Il suo approccio è puramente proattivo.
Se mettiamo le due figure a confronto si nota che mentre Teasle ha tutto quanto servirebbe a raggiungere il risultato, come la Stella appuntata sull’enorme petto, le armi, un team da lui stesso reclutato, mezzi vieppiù potenti e costosi, Trautman al contrario non ha nulla, neppure una mostrina che possa indicare la sua storia. Il suo equipaggiamento è ridotto ad un impermeabile ed un basco!
Anche la scelta degli attori non è casuale: Dennelly è largo in viso e nel corpo, una sorta di tarocco della tracotanza impotente, Trautman sottile ed affusolato, la forza mentale.
Teasle non riesce ad ottenere nulla se non offrire a Rambo mezzi sempre più potenti per distruggere il mondo che uno Sceriffo è pagato per difendere eppure sarà Trautman ad ottenere il risultato, con un semplice mezzo: l’ascolto.
La situazione è didascalica ma significativa, ironica ma reale: Trautman cerca in tutti modi di suggerire a Teasle la soluzione del caso, ma quest’ultimo si rifiuta pervicacemente di ricevere qualsiasi consiglio, oltre che di leggere segni e sintomi che potrebbero indirizzarlo verso una strategia più efficace ed efficiente.

Rambo_first7
Lo Sceriffo non pensa neppure che offrendo un lavoro a Rambo potrebbe moltiplicare l’efficacia del suo maldestro Team (anche chi fa selezione del personale qualche spunto lo può trovare…), invece legge la situazione.
L’analisi di tutti i disastri, compreso quello più recente di Fukushima, dimostrano che il Management sottovaluta tutti i segnali di allarme…
L’esperienza in consulenza dimostra quanto sia difficile offrire suggerimenti, forse perché è difficile accettarli… La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso non è stata causata da un suggerimento non ascoltato? Dalla Bibbia a Rambo il tempo sembra essersi fermato…
Tornando quindi ai veri protagonisti del film di Ted Kotcheff, vediamo quindi le caratteristiche a confronto:
– Capo reattivo: il suo comportamento è guidato dagli eventi passati, si focalizza su quanto è appena avvenuto invece di immaginare quanto avverrà, da ordini invece che addestrare, parla e non ascolta, guarda ma non vede, da ordini facendo leva sulla propria posizione gerarchica e non accetta consigli, ricerca il colpevole, rimprovera i propri collaboratori, si fida degli strumenti più che delle persone.
– Manager proattivo: non reagisce mai d’impulso (non alza la voce, non si arrabbia), è focalizzato sul futuro e si prende del tempo per interpretare il presente, quando guarda vede oltre, addestra invece di dare ordini, ascolta e parla poco, si prende la responsabilità, si fida delle persone prima che degli strumenti, cerca di convincere piuttosto che imporre.

rambo surrender
Amico formatore, so che ti starai facendo una domanda: la “proattività” di può veramente insegnare?
L’esperienza di “coaching” ai manager è spesso scoraggiante, al punto che un consulente americano, sulle soglie della pensione, rilasciò un’amara dichiarazione: “Ho dedicato gran parte della mia vita ad insegnare il management ai capi, ora mi rendo conto di avere sprecato 30 anni…”.
Recenti modelli sviluppati in contesto anglosassone ci insegnano che ci sono risorse immodificabili, i “Talenti” (anche qui torna la Bibbia…), sui quali non possiamo intervenire, in quanto sono, per definizione, il patrimonio non modificabile della persona. Possiamo intervenire però sulle “competenze”, incidendo sul piano cognitivo (qualcuno parla di “mappe mentali”) per aiutare lo Sceriffo a mettere in campo strategie comportamentali maggiormente efficienti ed efficaci.
La proattività non è un Talento, si può imparare. I comportamenti proattivi sono basati su competenze evolute, ad esempio schemi cognitivi che permettono di interpretare piuttosto che “reagire”. Non vale per tutti. Ci sono i reattivi “cronici” che non rispondono a nessuno stimolo formativo, forse non dovrebbero fare lo Sceriffo…

rambo firing

C’è comunque un’area di mistero, come misteriosa è la capacità di tanti eroi aziendali di sopravvivere allo Sceriffo di turno …
Ma Rambo non si arrende, e ripete all’infinito il suo messaggio: “Prima di agire, conta fino a 3…, altrimenti, prima o poi, qualcuno si fa male…”

Luigi Rigolio

http://www.mlacademy.it/